Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
3ª edizione - (2000)

Caro Zio

Ho visto ciò che avevo solo sognato.
Mi sono sentita straniera, straniera quanto quel luogo, quanto ciò che mi circondava. Camminavo e non mi riconoscevo. Mi guardavo nelle vetrine. Non mi riconoscevo. Forse ho sognato tutto. Tutto è stato veloce, un attimo, come un sogno, e quella sensazione, tra la veglia e il sonno, tra l’incanto e la realtà, quando non sai ancora se sei sveglio, quando ti chiedi dove e chi. Quando vorresti sapere che cosa è, cosa è vero. Non sapevo più chi fossi. Mi chiedevo cosa mi sarebbe rimasto di quello che vedevo, di quegli occhi alla fermata dell’autobus, nei negozi, per strada, a scuola se non un lontano ricordo, un’immagine, lontana come la mia casa in quell’istante. Ho pensato. Ho riflettuto. Mi sono chiesta perché e chi. Ho sentito cambiare qualcosa dentro di me mentre mi guardavo in torno, ho avuto paura e voglia di scoprire, di sapere. Ho corso senza fiato per arrivare prima degli altri pur non sapendo cosa avrei trovato… e ho trovato più di quanto pensassi. Ho corso fino alla scogliera e ho visto. Ho visto il mare infrangersi sulla roccia e ho desiderato, Zio, ho desiderato di essere come lui. Ho visto l’acqua arrivare da lontano e trasformarsi in morbida schiuma contro la roccia. Ho desiderato di essere acqua, di essere schiuma, ho desiderato di andare lontano per tornare ad accarezzare le rocce taglienti. Ho pensato di poter nuotare in quel mare, di sollevare i piedi da quella scogliera, di chiudere gli occhi, di riaprirli solo dopo aver sentito quell’acqua dentro di me. Poi ho sentito il vento. Un vento nuovo che non avevo mai sentito prima. L’ho sentito fischiare tra i miei capelli e credo, Zio, credo che mi abbia detto qualcosa. Mi ha detto di alzare gli occhi, di distoglierli per un momento dal mare e di non aver paura, di fidarmi, e ho visto. Ho visto un gabbiano che lottava con quel vento e con quell’onda. E mi chiedevo come sarebbe stato essere quel gabbiano che volava tra gli spruzzi dell’oceano e combattere contro quel vento per non perdermi pian piano. Ho chiesto a quell’onda di tornare e di cullarmi dolcemente nella tempesta e a quella scogliera di proteggermi dal mondo. Ho visto spazi desolati vivere per quello che noi non vediamo. Ho visto quello spazio immenso, Zio, ho visto le pietre abbandonate tenersi compagnia, e giocare con fiori cullati da dolce aria salmastra e ho pensato. Ho pensato che quel vento, che quell’onda, che quel gabbiano, che quelle rocce, che quei fiori, non erano me. Ho pensato che non potevo essere loro. E ho sentito, ho sentito qualcosa che non era dentro di me. Ho sentito che mancava qualcosa in tutto quello. Mi mancava la capacità di portare tutto con me per sempre. Io così piccola, così insignificante, così precaria e quello che mi circondava così grande, meraviglioso eterno eppure non immortale. Ho sentito scorrere il fiume sotto quel ponte, e ho visto il sole specchiarsi nelle sue acque, ammirando le sue guance rubiconde e facendo brillare i miei occhi increduli per tanta bellezza e aperti da quel rossore accecante. E ho capito che a quell’onda è rimasto il mio pensiero che oggi ti scrivo, a quel vento è rimasto ogni mio respiro, a quelle pietre è rimasto il mio passo e a quegli occhi incrociati nella vita sono rimasti i miei occhi e le mie espressioni quali ricchezza inconsapevole per entrambi. Se tu fossi stato con me. O forse c’eri, e hai visto quello che ho visto e provato quello che ho provato e sentito quello che ho sentito, Zio. Forse in quell’aria è rimasto qualcosa di te, così come in tutto quel disegno fatto da un abile maestro.


»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni

Copyright © 1999 - Comitato per Sofia - Tutti i diritti riservati.
Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010