Memorie di un viaggio: Calore e spezie
Che mattinata strana! Anche la colazione aveva il gusto intenso dello zenzero.
Ora mi trovo in classe e con i miei compagni sto seguendo la spiegazione dell'insegnante di lettere che ci illustra, tra i fatti di cronaca, la vita e la recente morte di un famoso uomo politico italiano, residente negli ultimi anni in Tunisia.
Le parole della professoressa si confondono nella mia mente che vola lontano ed ad un tratto mi accorgo di essere assorbita da un vortice caldo.
Mi sento sdoppiata e la parte di me seduta al banco nota che questo vento solleva foglie secche di strana provenienza. Il percorso è breve, scendo velocemente e cado su una strada fatta di terra battuta. Alzo gli occhi e non so come né perché mi vedo attorniata da un folto gruppo di bambini in un luogo che non appartiene alla mia vita quotidiana. Devo riflettere, ma il loro vociare non mi lascia un attimo di tempo. Sono seduta a terra su quella che ora posso definire sabbia del deserto. I ragazzini hanno notato che dalla tasca dei miei jeans spunta un sacchetto di caramelle, che ho acquistato nell'intervallo delle lezioni. Gesticolano con gli occhi luminosi e vogliosi e capisco che non sono io l'oggetto di interesse, ma proprio quelle leccornie. Lancio al bambino di fronte a me i dolcetti e vedo, come se fossero un nugolo di mosche, numerose braccia protese per strapparseli di mano, ma pur nella povertà spunta un gesto di solidarietà. I più grandi, che hanno raggiunto prima il bottino, lo dividono con i più piccini. Finalmente ho un po' di pace così posso osservare ciò che mi circonda. Un villaggio semplice: case bianche con le persiane azzurre. Scopro in seguito che l'azzurro, per alcuni paesi che si affacciano sul Mediterraneo, è un colore bene augurante da dipingersi sulle abitazioni. Alcune donne sedute a terra di fianco alla porta di casa, pestano il grano con un mortaio di pietra. I loro abiti sono sgargianti e ricchi di ricami. Devo ammettere che mi sento un po' a disagio con i miei pantaloni, le scarpe sportive e la maglietta alla moda. Attorno a loro vi sono delle giovani che allattano i bambini appena nati. Mi avvicino e sento il desiderio di comunicare. Un po' imbarazzata cerco di aprire un dialogo con l'unica lingua straniera a me più conosciuta: l'inglese. Le signore non sembrano capire e continuano imperterrite il loro lavoro discutendo con un linguaggio complesso e veloce. Una ragazza, incuriosita, si avvicina e mi chiede un po' in francese ed un po' in italiano il mio nome. Io felicissima di esser riuscita ad attirare l'attenzione di qualcuno rispondo prontamente e lei mi informa, allegra, di chiamarsi Achìa. Mi prende per mano e mi conduce in una loro abitazione, dove un'anziana è intenta a tessere su un telaio molto antico. Achìa apre un baule e mi porge degli abiti tipicamente tunisini e mi indica di indossarli. Dalle numerose porte di cui dispone quella piccola stanza escono donne e bambini di tutte le età che iniziano a farmi molte domande sulla mia vita.
Scopro piacevolmente che è bastato socializzare con uno di loro per essere ben accetta da tutta la comunità. All'inizio non ci faccio caso, ma mi accorgo in seguito di riuscire a comprendere la loro lingua.
Il villaggio è frequentato di giorno solo da femmine, bambini e vecchi, perché gli uomini sono a lavorare nelle città e ritornano alla fine della giornata.
Ormai è l'ora del tramonto ed il colore rosso arancione del cielo si confonde con le dune di sabbia che si stagliano all'orizzonte. Mi trovo ai confini del deserto del Sahara.
Affascinata dallo spettacolo che si presenta ai miei occhi mi siedo su un mucchio di pelli abbandonato al margine della strada e mi soffermo ad osservare.
Mentre sono immersa nei miei pensieri, il piccolo paese si prepara per la notte e la gente si rinchiude nelle case. Un soffio di aria calda proviene da sud e inizio a sentire la sabbia che mi punge il viso. Una mano dal tocco delicato e sfuggente mi sfiora la spalla. È Achìa che mi richiama per la cena.
Mi conduce in una stanza con il suolo completamente ricoperto da tappeti. Al centro ve ne è uno più grande, splendidamente colorato, sul quale sono state depositate, quasi casualmente, delle ciotole di varie dimensioni, contenenti cibi, alcuni di colore giallo e tutti emananti un intenso aroma di spezie, lo stesso che sento prevalere costantemente nell'aria. Mi spiega, allora, che le donne ed i bambini mangiano in una sala differente da quella in cui si riuniscono gli uomini.
La madre di Achìa mi fa cenno di sedermi accanto a lei ed io, un po' impacciata dai miei nuovi abiti, mi avvio scalza al mio posto. Dopo un minuto di silenzio si inizia a cenare. Le donne che di giorno si sono comportate in modo elegante e timido ora sembrano delle belve affamate. Afferrano con le mani, senza alcuna grazia, il cibo sparso nei contenitori. In un primo momento provo un po' di disgusto al pensiero di dover mangiare in quel modo, ma poi dopo aver sentito i morsi della fame, decido di adeguarmi alle loro usanze.
Prendo un pezzo di pollo cucinato con olive e patate e lo porto alla bocca... Il suo sapore è strano ma gradevole, così decido di prenderne ancora. Al termine di questo abbondante pasto mi indicano il luogo nel quale dovrò coricarmi. È un mucchio di paglia su cui hanno sistemato delle pelli di animale.
Mi lasciano sola ed io non riesco a dormire, perché sento dei canti ritmati provenire dall'esterno. Mi affaccio alla finestra che non è nient'altro che un buco nel muro e vedo gli uomini in cerchio attorno ad un fuoco che fumano. Li guardo incuriosita dai loro modi.
Una voce proveniente dalla mia stanza mi dice di andare subito a dormire. È Achìa. Io guardo alle sue spalle e vedo bambini e anziane dormire nello stesso letto di paglia: appena si accorge del mio sguardo tira frettolosamente la pelle che funge da porta. Intuisco che vi sono luoghi e situazioni da considerare molto intimi.
Mi sdraio nuovamente e poco dopo non sento più quella musica che mi impediva di dormire. Provo a non pensare, ma inizia ad assalirmi la paura. Mi sento sola in un mondo sconosciuto e comincio a ricordare il mio letto italiano, protetto dalle mura della mia casa e sorvegliato dai miei famigliari che ora sono solo un ricordo lontano. Senza sapere come, mi addormento. Nei miei sogni affiora un verso ben conosciuto: il canto di un gallo che, in Italia, tutte le mattine da circa quattro anni, ci dà la sveglia.
Mi desto e in un momento mi sembra di essere tornata a casa. Poi apro gli occhi e mi rendo conto di essere ospite ancora di questo strano mondo. Achìa irrompe nella mia stanza con il sorriso sulle labbra. Mi presenta la sorella Fatima, che chiamano tutti Fatì. Mi spiega che è la maggiore, che è appena giunta dalla Francia dove vive. Mi dice che lei è molto fortunata, perché essendo la prima di numerosi figli è quella che gode di più libertà. Puntualizza, però, che non è dispiaciuta di non poter studiare e neanche di dover accudire la casa ed i genitori sino alla loro morte, come normalmente è dovere dell'ultima figlia femmina.
Io, un po' meravigliata da questi argomenti, indosso le ciabatte di pelle di cammello e mi avvicino alla soglia per uscire. Fatì inizia a conversare con me e mentre discorriamo mi conduce ad un carro malandato trainato da un cavallo che, probabilmente, non ha mai conosciuto l'acqua tanto è maleodorante. Monto sul calesse e con Fatima ed Achìa ci avviamo nell'oasi di Gabès. Lì ho l'opportunità di osservare la vita al margine del deserto. Mi guardo attorno e vedo dei campi coltivati e dei piccoli orti. Le donne che lavorano non sono molto giovani, ma si chinano agilmente come fossero ragazzine. Le stradine di terra battuta sono incorniciate da una fila di palme. Sotto una di esse vi sono dei ragazzi che giocano con un camaleonte. Si avvicinano e me lo appoggiano sul braccio. La prima cosa che mi viene in mente è che posso fargli del male, ma poi non desidero più separarmi da quell'esserino così simpatico.
Un uomo, che scopro poi essere il nonno di Achìa e Fatì , mi avvolge attorno alla testa un loro tipico copricapo: la kefìa. Mi avvio con le mie due nuove amiche vicino ad un gruppo di dromedari. Mi fanno salire sulla groppa di uno di loro e la sensazione che provo non è come quando vado a cavallo, ma completamente diversa. Sotto di me sento il dorso possente dell'animale forte e intuisco di non riuscire a comandarlo come vorrei. Inizia la corsa nel deserto. Quando il dromedario cambia il passo con il trotto provo un po' di paura, ma poi il timore si tramuta in voglia di avventura, divertimento e sete di nuova esperienza. Ci avviciniamo ad alcune abitazioni troglodite costruite sotto la sabbia e corro sempre più veloce verso i confini della mia fantasia. Il dromedario si ferma e si accovaccia per farmi scendere con il suo modo alquanto bizzarro. Il riapparire del turbine di vento mi segnala che è il momento di abbandonare quella terra e prima di ripartire Achìa e Fatì mi regalano una rosa del deserto e il mio amico animale mi saluta con un dolce morso alla mano. Durante il viaggio mi scorrono nella mente i bei momenti passati in Tunisia e rifletto sul modo diverso di vivere delle mie nuove amiche, che ho paura d'aver perduto per sempre. Capisco ora che quella gente, apparentemente così diversa da me, è alla fine uguale. Vive di sentimenti, di emozioni e di lavoro come tutti noi. Gli usi ed i costumi sono differenti, ma l'amicizia ed il sorriso vincono qualsiasi ostacolo.
Inizio a non sentire più i caratteristici profumi africani ed il caldo avvolgente di quella terra. Mi ritrovo in classe. Il suono della campanella mi ridesta. Sono delusa, perché mi rendo conto che il mio è stato soltanto un sogno. Mi frego gli occhi e passo la mano nei capelli. Della sabbia? Il mio sguardo cade nello zaino e una bellissima rosa del deserto sembra sorridere di fronte a me.
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