Ricordi di un mondo vicino ed ormai lontano
Molte volte ho sentito i miei genitori parlare del loro passato, è un susseguirsi di "Ti ricordi questo, quello?". Così spesso la mia curiosità è attratta da quello che dicono e mi metto in ascolto, oppure a mia volta faccio loro delle domande e malgrado mi sforzi di provare ad immaginare quel mondo, malgrado tenti di capire il loro genere di vita, mi sembra sempre che parlino di un altro pianeta. Mio padre addirittura mi racconta che in casa, quando era ragazzo, la luce non c'era; avevano le candele, e qualche famiglia le lampade a carburo. È nato e vissuto fino a venti anni a Roncobilaccio, un paesino situato sull'Appennino Tosco Emiliano, vicino al passo della Futa. Un gruppo di case scomode, una piccola aia davanti casa dove polli e bambini si confondevano giocando.
Il sole da quelle piccole finestre entra raramente e solo quando è alto in cielo, un po' perché lì in montagna l'estate è molto breve, un po' perché le case sono così appiccicate l'una all'altra che a dividerle c'è solo un selciato di ciottoli. Queste case sono situate ai piedi di boschi di castagno. Campi pochi, e quei pochi di terra povera dove gli uomini si ammazzavano di fatica per ricavarne patate, un po' di grano ed erba per allevare i conigli. Chi poi, come lui, era tra i più fortunati perché possedeva la mucca, non poteva permettersi di rinunciare alla coltivazione della terra, dal momento che doveva procurarsi in tutti i modi almeno il cibo per sfamarla. Lavori niente, perciò gli uomini emigravano dove si poteva trovare. La casa di mio padre aveva quattro stanze di proprietà dei nonni. Vi vivevano in sei: i genitori e quattro figli, due maschi e due femmine. Intimità pochissima ed un posto preferito neanche a parlarne. Tutti, per parlare, si riunivano davanti al grande camino, ma fra la confusione ed il mangiare (anche quello veniva cotto sul focolare) un angolino per sé non c'era.
Anche la famiglia di mia madre è originaria di Roncobilaccio. Per i miei nonni materni però, sposi nel quarantadue, periodo di guerra e con pochi mezzi, cominciò presto la vita dell'emigrazione. Inizialmente si stabilirono in paese in una casa a due piani: la grande cucina a piano terra era buia ed umida, i vetri erano riparati da un'inferriata murata nella parete esterna. Davanti alla finestra un acquaio di pietra, ma ovviamente senza rubinetti. La scala a fianco della cucina era di pietra e molto ripida; portava al piano superiore dove c'era la camera da letto. Questa essendo rialzata era meno umida, la solita finestra con l'inferriata; il pavimento era di tavole di castagno messe alla meglio, tra queste però vi erano fessure che lasciavano intravedere la cucina, con il risultato che quando camminavano e soprattutto quando spazzavano, la polvere calava di sotto. Lì in quella casa nel quarantatré è nata mia madre. Nonna rammenta ancora le lunghe giornate piovose quando a causa del tetto malandato l'acqua filtrava in vari punti della camera; era perciò costretta a metterci una catinella o scodelle, con il risultato che in più all'acqua aveva anche il ticchettio delle gocce a tenerle compagnia. Servizi igienici nemmeno a parlarne: un lavamano, una catinella e una brocca, era il massimo che potevano avere. L'acqua andavano a prenderla alle fonti di sorgente; ve ne erano cinque in tutto il paese. Così passarono i primi anni di vita di mia madre. Poi nonno partì in cerca di lavoro. La prima tappa fu il Belgio, il lavoro nelle miniere. Vi passò un anno lasciando sole le sue donne. Tornò a casa, ma dovette ripartire subito per Genova. A questo punto si rese necessario il primo trasloco, a pochi chilometri da Roncobilaccio, in un altro paesino: Baragazza. La casa in confronto all'altra era una reggia. La strada principale si trovava su di un fianco della casa. Davanti all'ingresso una piccola corte selciata di lastre, dove mia madre poteva giocare con una coetanea che abitava nella porta accanto. Lì per la prima volta mia madre ha dormito da sola e mi dice sempre che lo fece malvolentieri. Finito il lavoro di Genova il nonno si trasferì a Firenze dove stavano costruendo uno dei sette ponti sull'Arno, ma anche questo lavoro finì presto. Così decise di tornare in Belgio. Partì nuovamente solo, ma dopo pochi mesi mia mamma e mia nonna lo raggiunsero. La casa dove alloggiavano era situata vicino alla miniera dove mio nonno lavorava per intere giornate; c'erano volte in cui non rientrava per tre o quattro giorni consecutivi. Mia mamma addirittura racconta che questi uomini non solo erano costretti a lavorare come talpe, chiusi in un labirinto di tunnel sotterranei larghi solo lo spazio sufficiente perché un uomo di statura media vi ci potesse passare, talvolta in piedi, talvolta sdraiato, ma i ritmi lavorativi a cui li sottoponevano erano disumani: giorni e giorni senza mai tornare a casa e per di più nessuno si preoccupava di informare le famiglie se tutto procedeva bene o se erano sorti dei problemi. La morte in quella prigione sotterranea era all'ordine del giorno, soprattutto a causa delle frane, ma anche per le intossicazioni che i gas naturali provocavano. Non dimenticherò mai la storia che spesso mio nonno raccontava: una volta rimase sdraiato in una di queste minuscole gallerie per due interi giorni e due intere notti nel tentativo di salvare un altro operaio, suo amico, rimasto imprigionato dal crollo della parete superiore. Mio nonno era l'unico a sapere in quale punto preciso si trovasse e così nessuno poteva né tantomeno voleva sostituirlo. Raccontava di sentire la voce del suo compagno chiedere aiuto a poco più di un metro di distanza, di tentare disperatamente di perforare il muro di terra che li separava, ma invano, più che scavava più le pareti continuavano a cedere. Non riuscì a salvarlo ma ricorda perfettamente che le ultime forze quell'uomo le utilizzò per ridere; poco prima di morire infatti si perse in una echeggiante risata forse dettata dalla follia, forse dettata dalla rassegnazione.
La loro casa da emigranti mia mamma la ricorda con malinconia. Lunghe file di baracche tutte uguali, a distanza regolare, tant'è vero che uno straniero non ne avrebbe riconosciuta una. Una porta, un ingresso, due porte: una famiglia a destra e una a sinistra. Ognuno una cucina, una camera ed un ripostiglio; anche qui niente sanitari. Vi erano molte famiglie provenienti da ogni parte del mondo: Tedesche, Irlandesi, Italiane ecc... Così mia madre frequenta le scuole elementari in Belgio, studiando, oltre alle normali lezioni previste dalla scuola anche il francese. Si ambienta bene sia con la nuova lingua che con i nuovi amici. Nel cinquantacinque però, in casa, nasce un bimbo (mio zio). Fu allora che mio nonno, un po' per stanchezza di quel lavoro, un po' per nostalgia dell'Italia, decise di rimpatriare. Ritornarono a Roncobilaccio perché vi abitavano ancora i miei bisnonni. La casa che prendono questa volta è in affitto; è composta da quattro stanze più il bagno, è un po' distante dal paese ed ha solo un po' di terra ed un castagneto. I nonni ci stanno bene, ma non mamma perché è al di fuori di ogni conoscenza e poi le scuole medie sono lontane dodici chilometri, da percorrere a piedi sia all'andata che al ritorno. Era settembre. A ottobre i nonni prendono la decisione di farle fare un'altra volta la quinta inferiore per prendere anche in Italia la licenza elementare. Così mia madre si trovò fra ragazzi e ragazze di due anni più giovani, e malgrado si sforzasse non riuscì mai a legare completamente con loro. Nonno nel frattempo trovò lavoro a Prato. Partiva all'alba con l'autobus, che lo portava fino a ca' di Landino, dove insieme a tanti altri operai scendeva in una galleria percorrendo milleottocentosessanta scalini, per prendere il treno che li avrebbe condotti alla Stazione di Prato dove, con una bicicletta a nolo, raggiungevano il posto di lavoro. In casa i nonni parlavano di Prato come posto di lavoro sicuro ove i figli avrebbero avuto un vita migliore della loro, e dove un'occupazione per portare i soldi a casa ci sarebbe sempre stata. Così decisero di comprarsi una piccola casa con i pochi soldi che avevano messo da parte. Nel cinquantasei scelsero una casa che all'epoca costava Lire un milione e settecentomila. La comprarono facendo una piccola cambiale ogni due mesi. Nel frattempo la scuola era finita ed i nonni mandarono mia madre a lavorare in una fabbrica a Prato, dicendole che così avrebbe dato un buon contributo alla famiglia. Ma poiché il viaggio era troppo lungo e scomodo, fu mandata in un istituto di suore, che tenevano queste ragazzine facendole lavorare. Quanti pianti si rammenta ancora mia madre; non ci stava volentieri, non legava, non riusciva a farsi amicizie e poi le ore di lavoro erano tante, troppe, dieci o dodici al giorno (ed allora ovviamente non c'erano i sindacati). Tuttavia qualche soldo in più faceva sempre comodo. La settimana era lunga, sembrava non finire più, e la nostalgia di vedere il fratellino ed i genitori era infinita. Nella sua voce traspare ancora tanta amarezza nel ricordare quel tempo. Gli anni passano ed il debito della casa viene estinto, così finalmente nel sessanta la famiglia si può riunire. Questa volta la loro abitazione è grande e spaziosa; l'entrata è composta da un salottino dove ci sono quattro porte: la camera dei nonni, la camera di mamma, quella dello zio e la cucina. Dalla cucina una porticina al di là della quale si trovano il bagno ed un piccolo ripostiglio. Dietro la casa vi era perfino un pezzetto di terra dove si poteva ricavare qualche ortaggio. Pierluigi (mio zio) parlava addirittura di allevare un cavallo. E poi c'era la soffitta, era lì che mia madre si rifugiava quando leggeva i suoi libri preferiti, perché lassù le sembrava di avere un regno meraviglioso. Mi ha detto che questo è uno dei più bei ricordi di quel tempo.
Mio padre si è trovato, a soli dieci anni, a dover vivere il dramma della seconda guerra mondiale. Pur avendo vissuto tutta la vicenda nell'ottica di un bambino, ricorda con chiarezza quel periodo. Spesso infatti mi racconta gli episodi che più lo hanno colpito: racconta che i tedeschi avevano scelto la sua casa come alloggio momentaneo e vi si erano stabiliti; la sua famiglia si trovò così costretta a convivere con coloro che uccidevano i loro compaesani, anche se, con mio stupore, mio babbo li descrive molto cordiali ed educati, se pur nemici. Racconta inoltre il giorno in cui l'esercito italiano decise di arruolare un uomo per ciascuna famiglia in modo da incentivare il nucleo militare, lui e mio zio erano ancora troppo giovani per poter combattere quindi sarebbe toccato a mio nonno: fu così che insieme a mia nonna ed ai suoi fratelli, nascose suo padre sotto il fieno, nella stalla, stendendosi tutti su una coperta con la quale avevano occultato ulteriormente la sagoma di mio nonno, tanto che, all'ispezione, passò inosservato. Ed infine ricorda i giorni della liberazione, quando gli americani regalarono a tutti i bambini caramelle, latte e cioccolato in polvere.
Mio padre, fin da piccolo, aveva una grande passione: la musica. Finita la guerra e finite le scuole elementari, quando aveva circa venti anni, venne a conoscenza che a Baragazza vi era un uomo che per molti anni aveva vissuto in America suonando in banda; era rimpatriato ed adesso, per guadagnare qualche soldo, insegnava dietro piccolo compenso, quello che sapeva. Così mio padre divenne il suo allievo più abile ed attento, e ben presto mise in pratica tutto quello che aveva imparato. Comprò una piccola fisarmonica e cominciò a suonare con altri musicisti più adulti ed esperti di lui. All'inizio suonava solo alle feste paesane, poi alle cerimonie, ai matrimoni, a feste private. Via via che il tempo passava cambiò fisarmonica, comprandone sempre di migliori ed infine formò con altri un complesso. Divenne molto conosciuto. Ancora oggi, quando andiamo a trovare i miei parenti da quelle parti, tutti lo riconoscono, lo salutano e lo ricordano perfettamente nella sua veste di musicista spassionato. Un giorno però si chiese se questa passione sarebbe stata sufficiente per il suo futuro. La risposta che si dette lo convinse che era giunto il momento di cambiare strada perché un vero diploma di professionista non lo aveva ed i tempi che correvano non permettevano di vivere con quel poco che la musica gli offriva. Cosa avrebbe fatto in futuro quando la responsabilità di una famiglia sarebbe stata sulle sue spalle? A malincuore chiuse la custodia e comprò un camion. Non aveva mai guidato un mezzo così grande, aveva pochi risparmi ma tanta buona volontà e tanti amici. Questo gli dava coraggio. Comprò il Fiat 682, e visto che a Roncobilaccio stavano costruendo l'autostrada del Sole, venne impiegato in un cantiere. Così iniziò per lui la vita di camionista. Poi i primi spostamenti: Pistoia, Prato, Firenze, Lucca... Faceva venti, trenta viaggi al giorno, per un totale di 16-18 ore lavorative trasportando terra dove costruivano strade. Una di queste era situata a Prato, a pochi passi da casa di mia madre. I nonni riconoscono questo giovane camionista, loro compaesano, e lo invitano a cena. Così mio padre e mia madre si vedono, si parlano e cominciano a conoscersi. Poi una domenica il camion del babbo si ruppe; gli occorreva necessariamente per il lunedì successivo; così si rivolse alla famiglia di mia madre. Questa fu la prima volta che si videro da soli. Iniziò tra loro un lungo colloquio che ancor oggi continua. Dopo quattro anni di fidanzamento infatti si sono sposati.
Costruivano un tratto di autostrada al Galluzzo, in provincia di Firenze, e così il lavoro portò mio padre a Cerbaia Vai di Pesa: con il suo camion caricava materiale alla Ginestra F.na e lo portava sul cantiere. Per mangiare e dormire si fermava a metà strada e così conobbe il nostro paese. Cerbaia gli piacque. Un piccolo paesino dove si stava bene. Si mise a cercare casa e ne trovò una piccola ma confortevole. Mia madre andò a vederla e le piacque. Era situata proprio al centro del paese. Si saliva una rampa di scale e si giungeva in un corridoio molto ampio. La cucina era spaziosa e terminava con un grande balcone dove mio padre aveva sistemato tanti vasi con gerani. Una camera da letto, dalla quale si saliva in soffitta, dove, dopo la mia nascita, furono messi tutti i miei giocattoli. Vi era anche una stanzina molto irregolare; lì i miei genitori avevano sistemato una scaffalatura dove tenevano fiaschi e bottiglie. Il bagno era piccolo, ma anche la famiglia era piccola e perciò bastava. In questo appartamento è nato e cresciuto mio fratello maggiore Gianluca. Ci stava molto volentieri perché trovandosi proprio sopra la piazza del paese, bastava che si affacciasse alla finestra, per parlare o invitare qualcuno a salire. Poi man mano che il tempo passava, il posto diminuiva. Mio babbo cambiò lavoro. Decise infatti con il suo più fedele compagno di lavoro di intraprendere un'attività per conto proprio. Aprì così una draga e da quel momento fu lui a dar lavoro agli altri camionisti. Gli affari andavano molto bene così i miei genitori decisero di costruirsi una vera casa, fatta tutta a loro gusto e piacere. Comprarono un grosso appezzamento di terreno, interpellarono diversi architetti ed infine fecero realizzare da uno di loro un progetto tridimensionale in legno. Una sorta di piccola casa per le bambole che riportava perfettamente la struttura della futura costruzione. Il progetto fu approvato in pieno ed una ditta appaltatrice cominciò i lavori. Per finirla vi misero molti anni, anche perché tanti lavori sono stati fatti da mio padre e mia madre nei pochi momenti liberi. Nel frattempo si comprarono un vigneto situato sulle colline circostanti (le colline del Chianti Fiorentino), mio padre fece costruire a Prato un negozio per aprire una piccola attività che gli avrebbe garantito entrate sicure ed infine sopra il negozio fece edificare un palazzo composto da otto appartamenti tra cui uno, dopo aver venduto tutti gli altri, è tuttora di nostra proprietà. Oggi, dopo trentacinque anni che mio padre e mia madre sono sposati, e che siamo nati mio fratello Gianluca ed io Mara, la piccola di casa, possiamo avere una casa tutta nostra (cosa che non tutti hanno!). Siamo tutti innamorati della nostra "reggia". Si tratta di una villa a tre piani con piscina e circondata da un enorme giardino. A piano terra il box per le auto ed i motorini, la cucina ed una sala molte grande con il camino, dove spesso la sera ci riuniamo con gli amici; da questa tramite una piccola porta si scende in una cantina colma di bottiglie di vecchia data, damigiane, barattoli di conserve, pomodori e marmellate. Al primo piano, cui possiamo accedere sia dalle scale della sala sia da un altro ingresso che porta all'entrata secondaria di casa, si trovano quattro camere da letto: quella dei miei genitori, la mia, quella di mio fratello ed una per gli ospiti, due bagni ed una sala per i ricevimenti. Sopra ancora la mia simpatia: la mansarda, grande e luminosa. Dalla mansarda si accede infine al tetto che, in modo molto singolare, è stato coperto a terrazza: un'enorme terrazza spaziosa dalla quale non solo si riesce a vedere tutto il paese e le colline che lo circondano ma dalla quale, nelle notti più limpide, sembra che basti allungare una mano per toccare il cielo e le sue stelle.
Sì, hanno ragione i miei genitori quando dicono che la vita è stata generosa con loro!
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