Emozioni e riflessioni in margine alla visita al lager di Dachau
"ARBEIT MACHT FREI" = il lavoro rende liberi.
Nella realtà di oggi si afferma che il lavoro nobilita, è garanzia di indipendenza, di autonomia, di maturità, cioè presa di coscienza delle proprie responsabilità, di realizzazione personale... potrei andare avanti all'infinito esprimendo concetti che purtroppo muoiono in quella frase, una frase che spalanca le porte d'ingresso all'orrore della morte vissuta non solo in senso fisico, ma come morte della propria dignità, della propria anima, dell'essere e del sentirsi umani, con la prospettiva di un futuro quanto mai fragile di tristezza e lacrime.
Davanti a questo cancello è come se gli innumerevoli documentari visti e le informazioni acquisite lungo il corso degli anni, prendessero forma ed entrassero in contatto con me.
È ben diverso vedere documentari, leggere notizie, ascoltare testimonianze, dall'oltrepassare quel cancello e sapere che milioni di persone hanno camminato sui tuoi stessi passi, ma non per capirne di più o per riflettere, ma per dire addio alla vita, alla propria esistenza, un addio costretto alla propria libertà
Una volta entrata nel lager la parola "vita" ti appare come la cosa più preziosa che esista, che difenderesti con tutte le armi possibili, ma che purtroppo ti viene strappata come se non fosse tuo diritto viverla.
Queste sensazioni si sono riconfermate nel museo dove erano esposte le immagini più significative degli avvenimenti concernenti la persecuzione antisemita e la vita nel campo. Potrei parlare per ore di ogni volto che esprimeva tristezza, di ogni bocca immortalata nell'attimo in cui sta per chiedere aiuto per poi rassegnarsi e abbandonarsi ad un destino troppo crudele, tale da non potersi opporre ad esso.
Ma, in particolare, vorrei soffermarmi sull'immagine di un bambino vestito di stracci con una scodella vuota in mano. Al contrario di quanto comunemente avviene al giorno d'oggi, quel bambino non è simbolo di vita, di speranza o di futuro; la sua scodella è vuota: non manca solo il cibo, manca l'amore, la tolleranza, la comprensione, perché all'inferno regna l'odio, l'intolleranza e il terrore.
Sono rimasta allibita e incredula di fronte ad un volto che non ha spazio per lasciar trasparire un sorriso perché i suoi occhi hanno visto troppo, e la sua anima ha già subito troppe ingiustizie.
Non è assurdo affermare che un bambino ha già vissuto troppo? Chi darà a questo bambino la possibilità di fare ciò che ho potuto fare io nella mia infanzia?
Queste domande senza risposta mi hanno letteralmente sconvolta, ma le sensazioni fino a quel momento provate erano destinate ad acuirsi nel momento in cui avremmo dovuto visitare direttamente le baracche, non più di assistere comodamente in poltrona ad una realtà apparentemente cosi lontana, ma di introdursi realmente in ciò che è stato per capire che l'umanità, in quanto tale, non può permettersi di commettere un simile errore, né far valere la connivenza che ha dominato in quegli anni.
È difficile tentare di descrivere gli ambienti e i locali (se così si possono definire), forse solo le sensazioni e le emozioni provate in quegli istanti riescono a dare l'idea di quella realtà così crudele.
È assurdo parlare di letti, dove non c'è spazio per il riposo, per il relax; le poche ore "libere" non aprono la mente verso la pace, ma non servono ad altro che a pensare ripetutamente alla triste giornata, vanificando l'illusione che il prossimo risveglio si prospetti migliore, che il sole possa tornare a risplendere sulla giustizia.
Attraversando il cosiddetto piazzale principale ho pensato intensamente alle ore trascorse dai prigionieri per l'appello, e la pioggia si tramuta in lacrime, quelle lacrime che era inutile versare, o che venivano risparmiate con la speranza di piangere per la gioia della libertà, o che non si aveva più la forza di versare.
Ultima tappa: camere a gas e forni crematori, dove la morte domina sul silenzio e prende la forma di un'illusione: risvegliando nei prigionieri quell'istinto umano che porta alla pulizia, per poi distruggere questa ultima speranza e sterminare senza pietà milioni e milioni di persone.
Di fronte a questo orrore la prima cosa che ti viene voglia di fare è dimenticare, elidere quelle immagini perché è doloroso ricordare, ma dimenticandosi sarebbe inevitabile correre lo stesso rischio e non si può permettere all'umanità di sbagliare ancora.
Si deve conoscere il passato per capire il presente e creare le fondamenta per un futuro all'insegna dei valori propri dell'umanità, perché il ricordo di ciò che è stato sia un incentivo a rivendicare il proprio diritto alla vita.
A Dachau, paradossalmente, l'uomo trovava la propria libertà e la vita solo dopo la morte e sul cancello, per questo, avrebbe dovuto esserci scritto: "La morte rende liberi".
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