Emozioni e riflessioni in margine alla visita al lager di Dachau.
.Oltrepassare i cancelli a ritrovarsi in un altro mondo, dove il tempo si è fermato al 1944. Una fotografia in bianco e nero e subito compaiono nella mente immagini sfuocate di corpi straziati o ridotti a scheletri. Si oltrepassano due recinzioni per giungere al cospetto di quell'enorme piazzale sul quale con un pizzico di suggestione riappaiono migliaia di persone in file perfette, vestite di cenci a strisce bianche e nere; gli occhi infossati, lo sguardo spento fisso nel vuoto. Poi appaiono figure scure, portatrici di morte, votate alla violenza, che passeggiano davanti a questa massa con tranquillità inaudita. Gli edifici che si stagliano contro il cielo plumbeo, geometrici, perfetti nel loro contrasto bianco/nero. Cancelli e reti metalliche ovunque; non uno spiraglio di libertà, non una apertura sul resto del mondo. La pioggia cade conferendo al luogo ancora più tristezza e desolazione. In un angolo un cancello nero e una frase: "Arbeit macht frei" (Il lavoro rende liberi) che risuona sarcasticamente per tutto il campo. Poi un tuffo nel passato; in uno degli edifici vive il ricordo. Fotografie, oggetti, cartine, numeri che riescono a trasmettere disperazione. Le immagini in bianco e nero colpiscono appena si riesce a coglierle nella loro interezza. Una enorme campeggia nel centro della sala. Un intreccio di corpi difficili da pensare in cui ogni singolo perde la sua dignità di uomo per creare una massa. Tutti corpi scarni, nudi, rasati, abbandonati in un'enorme fossa in posizioni innaturali. Da una parte un'immagine di carri trainati da cavalli che con passo flemmatico, stanco di tanta violenza, portano corpi accatastati come legna da ardere. Una fila di carri che sembra non finire mai. Per ultima una tavola bianca su cui spiccano lunghe file di piccole cifre nere che racchiudono dolore. In una stanza appartata un'enorme massa di oggetti che custodiscono in sé tante lacrime sparse per amore, per un'atrocità degna di demoni. Poi si ritorna all'esterno, ma non si riesce a tornare alla realtà, si rimane intrappolati tra quelle immagini scure e si può cogliere tutta la disperazione che il campo è in grado di trasmettere. Attraverso un lungo viale spoglio, affiancato soltanto da un fossato vuoto, si giunge a quel luogo che sprigiona morte dai due enormi camini che emergono da una costruzione che altrimenti rimarrebbe nell'anonimato, nascosta. Subito all'interno si stagliano davanti a me grandi costruzioni squadrate e al loro interno, attraverso quella piccola apertura sembra rivivere ancora la fiamma che tanti corpi ha ridotto in cenere e che solo così riuscivano a riconquistare la libertà, uscendo per i camini, volando nel vento. Solo la morte poteva liberare da un incubo divenuto realtà. Si percorre un altro lungo viale e l'unico rumore che si riesce a cogliere è quello dello stridere delle pietre che si muovono sotto i nostri piedi. Poi una fotografia che si ripresenta nella realtà. Una lunga strada alberata; anche gli alberi spogli e neri nelle loro cortecce impregnate di freddo e pioggia custodiscono l'odore della carne bruciata, che permeava l'aria pesante e appestata. Le baracche non ci sono più, ma al loro posto ci sono dei perimetri in cemento e un grosso blocco con inciso un grande e freddo numero nelle cui ombre si nascondono centinaia di volti che con sguardi supplicanti chiedono di essere svegliati per scordare quell'incubo e riprendere a vivere. Trenta è l'ultimo numero che esprime in sé quell'enormità di individui ammassati tra quattro reti metalliche armate di filo spinato e affiancate da un piccolo filo nero tanto insignificante quanto portatore di morte. Nelle baracche, soltanto un intreccio di assi di legno rovinate, che formava una massa di letti dove il riposo era l'unico a donare un poco di libertà, almeno nel sogno. Poi si lascia il piazzale e si esce ritornando alla realtà, ma un piccolo angolo del cuore rimarrà là insieme a loro.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni