Heléne
Il flusso di pensieri si interruppe bruscamente.
"Domn, vuoi cambiare i tuoi dollari a buon prezzo?"
Le scarpe. Ecco cosa avevo dimenticato.
Mi avevano perfino rifilato un paio di orribili mocassini anteguerra:
"Sarà meglio che ti metta questi quando esci", avevano detto.
Le scarpe sono la prima cosa che notano: se hai belle scarpe significa che sei straniero, e se sei straniero puoi godere del privilegio di essere tormentato da una ventina di marmocchi pietosi.
Avevo giusto il tempo di lanciare un'occhiata disperata alle mie scarpe da bravo ragazzo nordamericano e tentare di richiamare all'ordine le mie nozioni di rumeno per sfoderare una risposta da stronzo pidocchioso d.o.c.: "Non ho niente, mi dispiace".
Stranamente, i ragazzini sembrarono credermi sulla parola; cominciarono a seguire i miei passi con assoluta naturalezza cantilenando in italiano una canzone che dovevano aver sentito alla tv. A Bucarest si trasmettevano più programmi italiani che nazionali, dannazione.
Ben presto fu palese che ero diventato l'oggetto delle attenzioni del più grande:
"Perché te ne vai in giro così tardi? E con quelle scarpe, poi. Sembri uno con la grana. Rischi grosso, lo sai? Davvero grosso. Sei americano?"
"Gi..."
"Lui sa parlare americano." indicò col mento uno spaventapasseri di quattro o cinque anni che stava impiegando tutte le sue forze a tenere il passo degli altri: il bambino, sentendosi chiamato in causa, sorrise mostrando tre denti anneriti e farfugliò qualcosa che suonava più o meno come: "Clinton cazzone."
Le risate sguaiate dei ragazzini rimbombarono lungo la strada per poi cessare ad un cenno del leader:
"Allora, Domn americano, cosa ci fai in questa topaia?"
Una vocetta si levò dal gruppo:
"Secondo me sta facendo beneficenza".
Il leader fulminò il malcapitato con lo sguardo, poi riprese a squadrarmi:
"Ha ragione lui?"
"Non faccio parte di nessuna associazione, se è questo che volete sapere."
"Non dirmi che sei un turista."
"Ho paura di sì."
Il gruppetto scoppiò di nuovo a ridere.
"E bravo il mio amico americano". Il leader mi appoggiò una mano sulla spalla mentre con l'altra si asciugava un occhio: "Visto che mi hai fatto ridere ti offrirò da bere."
Si passarono di mano in mano qualcosa che assomigliava molto ad una bottiglia di vodka; non doveva certo essere molto fresca, ma meglio di niente.
I ragazzi fecero a loro volta un giro di sorsate, poi ripresero a camminarmi accanto: li ascoltavo e osservavo l'asfalto sotto le mie scarpe, fulminato dall'improvvisa certezza di essere io a seguire loro.
Qualche istante dopo il leader mi piantò nuovamente addosso il suo sguardo scuro:
"Dove stai?"
Lo guardai senza capire la domanda.
Il leader se ne accorse e mi lanciò un'occhiataccia spazientita:
"Voglio sapere dove stai qui. Sei in un albergo?"
"No, mi ospitano dei... parenti."
Il suo sospetto crebbe:
"È per questo che sai parlare?"
"Già. Sono in Romania da circa cinque mesi."
"Ah!"
Ripensandoci, non so ancora spiegarmi per quale remota ragione avevo seguito un gruppetto di piccoli disadattati in piena notte e per di più in una città sconosciuta.
Ero davvero così solo da desiderare la loro compagnia?
Un istante dopo il mio cervello connesse un nome: Helène.
Dovevo trovarla, ma allo stesso tempo mi riusciva impossibile lasciare i ragazzini: credo che ciò fosse da addebitare più all'inerzia che alla carità.
"Noi dormiamo là."
Cercai di scrollarmi di dosso ogni pensiero: il mio sguardo seguì l'indice del leader finché non inciampò su un'enorme visione che definire spettrale sarebbe stato un eufemismo.
Lentamente la sagoma sembrò stagliarsi dall'oscurità accecante in cui era immersa, e la sua figura mi balzò nitidamente agli occhi:
"Oh, sugar...!"mormorai osservando il palazzo abbandonato:
"Io conosco questo posto..."
Dopo alcuni istanti di stupore raggiunsi a grandi passi i ragazzini e, senza sapere ciò che stavo facendo, entrai con loro da una finestra.
I vetri rotti scricchiolarono sotto i miei piedi e, annaspando nel buio, scrutai l'ombra silenziosa di una cassettiera di legno e il riflesso nero di uno specchio.
Uno spettro mi toccò il braccio. Mi voltai di scatto: il leader mi fissava con aria forzatamente seria:
"Se ci hai seguiti fin qui ci sono due possibilità:" si toccò il pollice "o fai parte di una cazzo di associazione..." pronunciò la parola "associazione" facendo schioccare la lingua con aria di importanza "...oppure sei uno sfigato che non ha altro da fare."
Sorrisi involontariamente alle parole del mio nuovo amico:
"Scelgo la seconda." non smettevo un attimo di guardarmi attorno, abituando gradualmente gli occhi all'oscurità:
"Qui dentro ci deve essere un giardino..."
I ragazzini, che avevano sentito, mi guardarono sgranando gli occhi, e un mormorio si levò dal gruppetto:
"Come fa a saperlo?"
Mi giustificai in fretta: "Le persone che mi ospitano sono vissute qui più di cinquant'anni fa."
"Allora è gente con la grana."
Il leader li mise a tacere:
"Non ci frega niente di chi è stato qui, adesso la casa è nostra e sono troppo stanco per continuare ad ascoltarti" poi si rivolse direttamente a me e con un'aria quanto mai ispirata mi disse: "Tu sei strano."
Probabilmente una replica lo avrebbe innervosito, quindi rimasi zitto osservando il pavimento grigio e vagando con i pensieri al di fuori di quella stanza, lungo un breve corridoio che mi avrebbe portato in una sala più grande: immaginai di guardare oltre le portefinestre ammuffite e
di scorgere il piccolo giardino.
Forse l'avrei raggiunto camminando in una foresta di erbacce, e mi sarei fermato ai piedi di una palma dal tronco incurvato... avrei perfino potuto allungarmi per accarezzare le sue foglie rinsecchite: forse anche la nonna di Helène le aveva accarezzate, quel pomeriggio autunnale verso l'inizio degli anni Trenta, mentre nel giardino decine e decine di invitati inamidati brindavano al suo fidanzamento.
Avrei voluto andare da quella palma e gridare contro i suoi rami che uno scemo di americano laureato con lode a Berkeley si era ritrovato improvvisamente solo, dopo aver scritto un libro idiota che aveva turbato certe comunità del Kentucky.
Dio, quanto volevo raccontare al suo tronco la mia storia: il matrimonio di mia madre con un certo monsieur che mi aveva permesso di restare un po' in Europa e di conoscere sua nipote... come avrei potuto descrivere degnamente Helène? Probabilmente avrei detto a quella pietosa palma che Helène aveva degli occhi straordinari, che quando era arrabbiata mescolava imprecazioni francesi al rumeno, che ascoltava musica epic e le piacevano la luce del sole filtrata dagli abeti della Transilvania, i buchi neri e passeggiare per Bucarest di notte.
Insomma cara palma, le avrei detto: "È la persona che odio e amo di più al mondo, e se solo stanotte la trovassi le potrei dire che finalmente è diventata una parte del mio passato..." ma forse era la vodka che mi faceva parlare.
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