Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
3ª edizione - (2000)

Il viaggio la memoria le affinitą

L'erba scorreva ansiosa, qualche metro sotto i suoi zoccoli. Mancava qualcosa. La destinazione forse - o il senso. Nitrì e corse via più veloce. Più veloce.

Oscurità. La via era larga, spaziosa ma l'aria intorno – l'aria – era come nebbia densa e soffocante. Camminò a lungo, calpestando rabbiosamente, ad ogni passo, gli aridi ed inerti sterpi della vegetazione intorno, morta per sempre. Improvvisamente un senso di ansia lo pervase, e cominciò a correre. Odiava quel luogo, era fin troppo familiare. Ricordava perfettamente la luna scarlatta che lo osservava, ossessionante sfera di sangue, spietata musa dei suoi atti, e poi c'era quella cantilena – richiamo di immensi, crudeli dei. Un sottile fuoco correva sotto la sua pelle, le sue orecchie più non udivano, e foschia sotto le palpebre. Orribili assassini. Si fermò, la strada si era improvvisamente – strano, avrei giurato che un attimo fa... - interrotta. Ora riusciva a vedere. Qualcosa. Le uniche fonti di luce erano le sfocate scritte rosse che lampeggiavano ai lati della statua egizia posta al di sopra del vano in fronte a lui. Infilatosi nello sporco orifizio si illuse di aver trovato l'uscita – lo fissavano senza pietà, dall'alto dei loro volti incappucciati – ed il suo corpo intanto, penetrato da scariche elettriche, si gonfiava di schizofrenica adrenalina. Soffi di luce cremisi irradiati da una grottesca lampada simile, troppo simile ad una testa umana (dio misericordioso, è mio figlio, mio figlio) lo circondavano di una surreale patina sanguigna. Corse, corse via sicuro – sogno follia, o ingenua speranza – di riuscire, esausto, a trascinarsi da qualche parte.

(Soffriva. Soffriva anche lui.
Ogni volta - pensava spesso - ogni volta muore una parte del mio cuore. Ogni volta si pietrifica per sempre un lembo della mia anima. Quel corpo, quelle ferite erano specchio della sua lacerata interiorità, ed ogni lesione che aggiungeva al pezzo di carne che stava lì, ora, di fronte a lui, corrispondeva a devastare ancora di più la sua vita, passata e futura. In un certo senso amava quel dolore, lancinante dolore fisico, tanto intenso da riuscire a creare nella sua mente un'esplosione di colori dilaniati, isteriche immagini di un orribile ma dolcissimo - lui - amore - e la sua vittima - fraterno.)


Una radura angusta, accerchiata da abeti giganteschi, e lui, insignificante simulacro umano, nel centro. In ognuno di quegli immensi tronchi si dimenava, imprigionata, una creatura infernale. Dolore, dolore nei loro deformati, minacciosi volti ululanti. Un monito nei loro occhi spenti - non fatemi del male.
Si inoltrò nella selva – avrebbero fatto di tutto pur di saperlo – attraversata da distorti lampioni gialli fosforescenti che, ad intermittenza, emanavano tanto accecanti quanto epilettici fasci di luce, illuminando l'opprimente atmosfera sottostante. Desiderio di vendetta – cos'altro c'è di più puro, più antico, più vero della vendetta – lo aveva mosso. Suo figlio... E poi c'era quella maledetta luna rossa, il colore del sangue, che lo aveva ispirato. Ora stava pagando. Ma chi, chi lo aveva giudicato colpevole ...quegli assassini. E lui era diventato come loro. Le scosse elettriche, divenute sempre più intense – non si sarebbero mai fermati – gli impedivano di camminare spedito, ed il bosco sembrava non finire mai. Chiuse gli occhi.

(Solitudine. Pareva sprigionata da quei mobili, partecipi testimoni di sinistri lutti. Quella polvere, sottile, con lucida freddezza disegnava cronache antiche e l'uomo con la cicatrice, ignaro, dormiva. Sognava il tetro scantinato dove stavano torturando lo sciagurato – quanto, quanto dolore - padre. Sognava ciò che aveva appena visto. Sognava tutto come fosse reale, quasi pareva di vivere una pazzesca replica – solo un particolare era differente. Quel volto, orribile, schiacciato contro il sudicio vetro della finestra non c'era prima. Nelle guance scavate di quel vecchio, sulle quali erano incisi i terribili traumi di una vita passata a guardare, famelico, i secondi, i minuti, le ore da dietro le sbarre, poteva leggere non solo il suo avvenire, ma anche il passato delle sue vittime. Tutta una vita a cercare di... ...a tentare in ogni modo di... ...URLARE... una voce antica – quella di un pazzo – squarciò l'aria.
Aprì gli occhi. Li richiuse. Il vecchio era lì, di fronte a lui, e lo scrutava coi suoi tenebrosi occhi azzurri.)


Un cubo – latte sporco – incastrato in una pianura fangosa, invasa da sterpi. Intorno grigio, marrone, verde ma la tetra magione, sia dentro che fuori, era bianca; le asettiche pareti circolari delle stanze scrutavano sospettose l'ignaro visitatore e le forme astratte infisse sulle pareti - morbillo degenerato - infettavano la razionalità del luogo. Valicò l'immenso portale di fronte a lui - il coltello... dio mio... ...salvami... ...non ho mai creduto in te ma... ...allontanami da quella lama... - e si ritrovò in un lungo corridoio, sul quale si affacciavano nove porte. Nella prima camera un impetuoso uragano devastava lascive, supplicanti giovinette, scaraventandole con sovrumana potenza contro i ruvidi muri. A fatica si catapultò fuori, ma subito - doveva trovare l'uscita, scappare - si ritrovò in una seconda stanza, forse peggiore della precedente. Una fitta ed irosa pioggia di grandine e neve torturava - vi prego... basta... uccidetemi, non resisto più a questo dolore... - le carnose creature presenti. Fuggì dalla folla urlante, non voleva, non poteva prestare aiuto agli sventurati, imploranti – avevano deciso che lui, maledetto, avrebbe sofferto come mai nessun altro... dovevano sapere chi, chi lo aveva inviato... - abitatori dello spaventoso loco. E così via, di corsa, attraverso zone di eterni supplizi: avari che spingevano sassi enormi, irosi stipati ed affogati nel fango, adulatori immersi nello sterco. E poi finalmente, affranto, fuori.
Il mesto viaggio stava ormai per terminare. Lo poteva intuire facilmente. Poco mancava ormai alla meta...
Si accorse di essere in una città, in mezzo al deserto. Dune di sabbia alte come grattacieli si alternavano a rudimentali, squadrati edifici in marmo nero. Il caldo era torrido, l'aria soffocante. Le strutture erano avviluppate da una patina grigia dall'essenza onirica, e non poteva esimersi dal fissarle incantato. Subito comprese - non so niente, lo giuro, niente - di essere giunto nella grande città - non capisco... voglio solo riposare... - nella quale il vero ed il falso, il giusto e l'errato - vi prego... non lasciatemi così... - la bontà e la malvagità - ora... - non avevano più senso - ...

Ora che aveva capito, ora che era libero, fece ondeggiare la fulva criniera alla dolce brezza e spiccò il volo - verso pascoli lontani...


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010