L'albergo
Qualcuno ha scritto che il mondo è una nave troppo grande. Un viaggio troppo lungo.
Una donna troppo bella. Un profumo troppo forte. Una musica che non so suonare.
Tuttavia esso è imperfetto, di conseguenza deludente.
Alcuni si accontentano
altri no.
L'albergo Almayer fu costruito nel lontano 1933 nel cuore del bosco centrale, e si diceva che fosse lo splendore della terra di mezzo.
La prima volta che lo vidi risale a molti anni or sono, e non potrò mai dimenticare una tale visione. Sotto un pallido cielo notturno punteggiato da qualche stella precoce si stendeva innanzi a me un ampio spazio senza alberi, silente nella quiete serale. Sulla destra vi era un profondo fossato immerso in una tenue ombra, ma l'erba sull'orlo appariva ancora verde, memore dell'ardore di un sole da poche ore scomparso. Ancor oltre si ergeva un morbido colle ove si affollavano gli alberi d'oro più imponenti che avessi visto in tutto il paese. Impossibile precisare la loro altezza: giganteggiavano nel vespero come torri viventi.
Sulla sinistra il lieve edificio, fondendosi con le ombre della sera, non osava imporsi con forza sul paesaggio, risaltare aspramente tra le meraviglie naturali. Sembrava persino non respirare per non spezzare l'incantesimo presente in quel luogo. Taluni pensavano che solo un dio avesse potuto creare una sì candida perfezione: nessuno infatti sapeva quale geniale architetto avesse progettato l'albergo e molte leggende circolavano circa tale argomento. Questa però, è un'altra storia.
Iniziai quello stesso giorno la mia attività di albergatore, curioso di vedere se mi sarei prima o poi stancato di tanta bellezza e perfezione. Ero succube della magia del luogo, e l'incantata atmosfera seppe plasmarmi fin dal primo istante: imparai ben presto, ad esempio, ad ascoltare le persone non più a sentire la loro voce, a leggere le cose, non più a vederle.
Ricordo con affetto alcuni tra i clienti: mi colpirono i loro sguardi, i loro movimenti, il loro tono di voce ed i loro volti, la loro leggiadria e riservatezza: la loro immortalità.
Angelica arrivò un giorno d'estate, leggera come una piuma cullata dalla brezza mattutina, era impercettibile nei soavi movimenti e nel suo delicato e fragile essere. Tutti invero si accorsero velocemente della candida presenza, ed un'atmosfera ancor più sognante si impadronì dell'albergo. Dopo aver desinato, ogni giorno Angelica bella soleva passeggiare sulla soffice erba degli intricati sentieri del bosco, ed ogni uomo (me compreso) sognava di trascorrere amabilmente insieme a lei quelle prime ore pomeridiane, discorrendo all'ombra di un alto faggio dorato ed osservando felici le graziose allodole zampettare sulle sponde di un ridente ruscelletto. A volte qualcuno osava seguirla, a debita distanza, ma immancabilmente smarriva sia la via che la graziosa fanciulla, la quale correva felice per i prati, comparendo e scomparendo alla vista del malcapitato inseguitore, disorientato nella verde selva. Ed il desiderio di lei non faceva che aumentare con l'impossibilità di ottenerla, incrementando la gelida sensazione dell'amore non ricambiato.
Lei infatti non aveva occhi che per lui, "il poeta". Steso sull'erba, osservava sognante il suo Albatro, sovrano dei cieli, volare nell'azzurro solcando l'etere con le maestose ali bianche. Egli arrivò all'albergo un pallido pomeriggio d'autunno: proveniva da un rozzo paese di marinai, desertica e sconfortante landa, nella quale soffriva pene inimmaginabili, lui, animo troppo sensibile per vivere tra gli uomini. Sul suo volto era rimasto indelebilmente impresso il tormento degli oscuri anni trascorsi nel nefando luogo, lontano, tremendamente lontano dall'azzurra leggiadria della sua patria. Quasi interamente coperto da abiti neri, tra la caliginosa sciarpa e l'irsuto cappello di lana, si intuiva un viso solcato da innumerevoli cicatrici. Queste però non potevano celare la fierezza dei lineamenti, la ripida bellezza del volto: una soffice aureola contornava il suo capo, infondendo lui un fascino regale. Mentre lei, Angelica soave, lo osservava vogliosa lui, noncurante, scrutava le multiformi nuvole sognando in esse un volto femminile che, dopo un interminabile, elettrico sguardo pieno di meravigliose aspettative, scompariva tra la folla, anonimo e costipante parto della modernità. Ed egli si crogiolava nel mal d'amore, sapendo di non poter consumare le promesse della sospirata visione, perfette in quanto mai realizzate. Continuava il suo perverso gioco, sicuro che nella vita alcuna esperienza amorosa mai sarebbe potuta essere migliore.
Infine, l'ultimo dei villeggianti che ricordo con ardore è un giovane monaco francese, dalla voce profonda e lo sguardo acuto.
Una mattina, spolverando la sua stanza, lessi incuriosito alcuni tra gli scritti che si trovavano sull'ampio comodino in mogano di fianco al suo letto. Pile di giallognoli fogli si ammassavano su di esso, stracolmi di lettere ordinatamente schierate con calligrafia illeggibile, tipica degli studiosi. Uno di questi mi colpì nel profondo: "Non so chi mi abbia messo al mondo, né cosa sia il mondo, né cosa sia io stesso. Sono in un'ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quel che dico, che medita sopra tutto e sopra se stessa, e non conosce sé meglio del resto. Vedo quegli spaventosi spazi dell'universo che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in un angolo di questa immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui, né perché questo po' di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro, tra tutta l'eternità. Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come un ombra che dura un istante, e scompare poi per sempre. Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare."
Non potei far altro che appuntarmi queste righe, per poterci riflettere ogniqualvolta avessi voluto. Provai forse anche un po' di invidia verso quel monaco. Persone capaci di precedere con tale forza i tempi, di formulare con una così ovvia semplicità problemi di tale dimensione mi disarmano completamente. Nulla avrei potuto contro un uomo simile.
Non vidi quello strano giovane più di due o tre volte durante la sua permanenza nell'albergo, e mai più in seguito; non riesco quindi a ricordare il suo volto, perso ormai tra mille altri. Tuttavia rimembro ancora la sua voce: profonda, lenta, melodiosa. Simile a quella di un dio, spiccava con maestà tra le altre. Mi innamorai subito di quel suono. Purtroppo è passato molto tempo, e dispero di rivederlo ancora, anche se questo luogo mi ha insegnato, tra le infinite altre cose, anche a non rinunciare mai alla speranza.
Molti altri personaggi furono, e continuano ad essere significativi per me, tuttavia è giusto che la mia storia termini qui, con coloro che di più in questo momento della mia vita mi appartengono.
No, questi uomini non dimorano qui per più di qualche mese. Saltuariamente, Nel corso degli anni, ritornano, portando con loro nuove esperienze e nuove storie da raccontare.
Sì.
Sono viaggiatori. O forse no, non proprio...
credo...
sognano.
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