Fuori concorso da "La Cittą della gioia" di Dominique Lapierre
Io ci sono stato.
È uno dei quartieri più poveri e sovrappopolati di Calcutta, dove settantamila persone vivono nelle strade in uno spazio grande come tre campi di calcio. Si chiama Anand Nagar, che significa 'Città della gioia', e solo chi ci è stato, come me, può capire il perché di quel nome, così apparentemente assurdo.
Lì vivevano intere famiglie che arrivavano dalle campagne sconvolte dai monsoni o arse dalla siccità, e in quell'inferno vedevano l'unica speranza di sopravvivenza. Li ho visti cercare un pezzo di marciapiede dove 'alloggiare', sono entrato nelle baracche dove molti vivevano: bugigattoli di un metro per due, senz'aria né luce, tra eserciti di topi che si inseguivano sui bambù del soffitto. Ho assistito al risveglio del quartiere, dello slum. Ho fatto tre ore di coda per arrivare alle latrine, a cielo aperto, una ogni 2.500 abitanti. Ho assistito al quotidiano rituale della pulizia personale. Gente che aveva passato la notte in uno stambugio infestato di insetti si incamminava nelle stradine sommerse di fango, lungo il corso pestilenziale di una fogna, per raggiungere una delle dieci fontane. Si lavavano curandosi di non svelare le nudità, le donne indossavano il sari e si pulivano, si ungevano di olio, si pettinavano i lunghi capelli. I vecchi si lisciavano la lingua con fili di iuta, le madri insaponavano vigorosamente i piccoli corpi dei loro bambini. A ogni alba era la stessa esplosione di vita.
La notte mi è accaduto di sentire dei pianti che si trasformavano in rantoli. Un piccolo mussulmano di dieci anni stava morendo di tubercolosi. Ero disperato, mi chiudevo vigliaccamente le orecchie per non sentire. Mi chiedevo perché un innocente dovesse soffrire così, in un tugurio come quello, senza medicine che potessero alleviare i suoi dolori. Ho visto sua madre con le altre tre figlie confezionare sacchi di carta con vecchi giornali, un'attività con cui doveva andare avanti e mantenere la sua famiglia. Il sorriso non l'abbandonava mai. Intorno a lei ho visto un alternarsi di assistenza e di amicizia che rendeva più sopportabile la disgrazia.
Ho visto morire una giovane vedova, lasciava quattro figli. Ma subito dopo quei bambini avevano nuovi genitori: nella Città della gioia i bambini non venivano mai abbandonati. La gente della bidonville era abituata ad aiutarsi sempre, a spartire il cibo con chi era ancora più povero, a rispettare il dolore, la razza, la vecchiaia.
Una mattina ho seguito un uomo, Hasari Pal che correva felice verso il centro di Calcutta, dove aveva trovato un lavoro. L'ho visto unirsi ad altri uomini che, attaccati come cavalli al loro risciò, trasportavano ogni giorno turisti e ricchi viaggiatori. Faticavano, passavano dal sudore delle corse al freddo delle attese nel micidiale inverno bengalese. Il loro organismo denutrito ne risentiva, ma portavano a casa riso per tutti.
Ho scoperto altri mestieri ugualmente disperati e redditizi: vendere il proprio sangue, ad esempio, a commercianti astuti e senza scrupoli. Ho visto una donna incinta di sette mesi costretta a vendere il proprio feto a chi le offriva duemila rupie per sfamare gli altri figli: un commercio clandestino per gli istituti di ricerca genetica.
Sono entrato in un ospedale di Calcutta: centinaia di malati senza speranza né assistenza, tre partorienti e i loro neonati su un unico materasso, sporcizia, sangue ed escrementi, e tutta l'aria di un ambiente sovrastato da incuria e corruzione. Ho saputo che in India c'erano circa cinque milioni di lebbrosi. Li ho visti. I loro volti erano sfigurati, gli arti ridotti a moncherini, avevano piaghe infestate di vermi: un orrore che li condannava all'emarginazione assoluta. Sono andato a visitarli alla Casa del cuore, una costruzione situata vicino a un antico braccio del Gange, la porta sempre aperta per accogliere chiunque cercasse aiuto. Non ho sentito paura là dentro. Gli ospiti avevano trovato l'affetto e la pace. Ho conosciuto la donna che li curava raccogliendoli dalle strade: in sari di cotone bianco orlato d'azzurro, decisa, infaticabile. L'India e il mondo intero conoscevano quella santa: era Madre Teresa.
Un giorno ho assistito a una festa nella Città della gioia. Le donne si erano ornate con qualche fiore fresco trovato chissà dove, gli uomini tendevano festoni multicolore. Celebravano la nascita di Maometto con inni e canti che trasformavano quel quartiere di miseria in una folle kermesse. Ho visto anche la festa per la notte più buia dell'anno, Diwali, che segnava l'arrivo dell'inverno: serpentine colorate illuminavano il cielo tra i fragori dei petardi; la festa per il dio che dà il riso Vishwakarma; quella per l'arrivo della pioggia: ragazzi che ballavano e ridevano facendo le capriole sotto la magica doccia, donne che si lasciavano inondare i sari, anche le palme sembravano partecipare alla gioia, facendo dondolare le foglie nel vento. Ho giocato con i bambini a far volare aquiloni colorati sopra i tetti delle grigie baracche, ho visto il popolo resuscitare in una fantastica esplosione di felicità, di esuberanza, di vita.
Io ci sono stato.
Ecco la sensazione che ho avuto quando ho finito di leggere il romanzo 'La Città della gioia' di Dominique Lapierre. La descrizione così realistica mi ha fatto immedesimare nella figura del protagonista, un sacerdote cattolico francese che si è stabilito nella bidonville per dividere la vita di povertà dei suoi abitanti. Mi è sembrato di vivere le sue esperienze, ho provato infinite sensazioni tutt'altro che scontate. In una realtà così allucinante, sarebbe ovvio provare pietà e rabbia. E invece no. La mia condizione di straniero in quella terra, di cittadino del ricco Occidente, di ragazzo abituato agli agi e al consumo, non mi appariva più come una condizione così incontestabilmente superiore. Ho sentito invece una sorta di imbarazzo: la consapevolezza di aver tanto da imparare proprio da chi non possiede nulla, da chi deve contare solo sulle proprie forze interiori. Cosa avrei potuto insegnare io a quella gente?
Nella lettura è cambiata la mia visione del mondo, ho cominciato ad apprezzare quei benefici che fino a quel momento mi sembravano dovuti. Ho capito che cos'è il coraggio, l'eroismo, la solidarietà, l'orgoglio. Ho capito che il sorriso vince sempre sulla desolazione.
Da questa esperienza letteraria sono uscito dunque un po' più ricco. Qualcosa di nuovo, e di bello, è entrato nel mio patrimonio personale e culturale. Credo sia lo scopo più nobile di un libro.
Per questo mi è rimasto particolarmente impresso, per questo ringrazio l'autore (che per raccontarci questa realtà in India ci è stato davvero, che ha devoluto gran parte dei suoi guadagni ai lebbrosi e ha promosso iniziative di solidarietà). E ringrazio soprattutto gli abitanti della Città della gioia, la cui straordinaria energia ha saputo arrivare fino alla vita di un ragazzo italiano che vive nel benessere e soddisfa molti dei suoi desideri non certo primari, e gli hanno regalato qualcosa che quaggiù nessuno avrebbe potuto donargli. E loro non lo sapranno mai.
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