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1ª edizione - (1998)

Un'esperienza di lettura da "Per la pace perpetua" di Kant e dalla critica di Hegel

 Leggendo Per la pace perpetua (1795) di Kant ed alcuni passi dei Lineamenti di filosofia del diritto (1821) di Hegel, mi ha colpito l'attualità del dibattito filosofico tra guerra e pace ivi contenuto, rendendomi conto di come organizzazioni quali l'ONU e l'UE si muovono nella direzione da Kant indicata pur incontrando quelle difficoltà denunciate dalla critica hegeliana su questo tema. Ancora oggi, quindi, in un mondo in cui i potenti della terra spesso parlano di pace e lavorano per la guerra, mi sembra utile e doveroso soffermarmi sulla riflessione di due così grandi pensatori, mettendoli a confronto e criticandoli costruttivamente, in modo da cercare di dare qualche risposta alla dialettica guerra-pace.

1. Definizione del problema
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Guerra e pace sono due termini antitetici, pur fortemente legati nel divenire della storia: Caino e Abele si sono fino ad ora sempre avvicendati nel corso dell'umanità, secondo un conflitto dialettico che li ha visti mutuamente prevalere l'uno sull'altro. La filosofia che sempre rispecchia i moti e le inclinazioni della storia e dell'uomo, ha trasferito questo conflitto all'interno della propria indagine razionale esprimendo, per un verso, una filosofia della pace, per l'altro, una filosofia della guerra. Due dei massimi esponenti-antagonisti di tali contrapposti teorie sono appunto Kant e il suo continuatore-detrattore Hegel: il primo sostenitore di un "progetto filosofico" "per la pace perpetua"1, il secondo assertore della necessità storica della guerra.

2. Argomentazione
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a) Kant: "Filosofia della pace". Secondo Kant il perseguimento da parte dell'umanità della pace perpetua è un imperativo etico, anzi forse è il dovere morale che insieme al monito "sapere aude"2 più deve essere presente dentro ogni uomo. Infatti nella sua visione finalistica e provvidenzialistica della storia "è la natura stessa, con il meccanismo delle tendenze umane, a garantire la pace perpetua, con una sicurezza che certo non è sufficiente a farne presagire (teoricamente) l'avvento, ma che però basta al fine pratico e fa diventare un dovere l'adoperarsi a questo scopo (che non è semplicemente chimerico)"3. Se tale è la pace allora la guerra è un'offesa alla ragione e al diritto: essa non è assimilabile e giustificabile come procedura giuridica, in quanto non fa vincere chi ha ragione, ma dà ragione a chi vince. Cosicché la pace può venire solo da un mutamento radicale, che ponga la forza al servizio del diritto e non viceversa, che veda "ogni politica piegare le ginocchia davanti alla morale". Per porre le relazioni internazionali su nuovi pilastri, che si ergano sicuri e fermi dinanzi al vento della guerra, è indispensabile un cambiamento della cultura politica improntato al conseguimento della pace come imperativo categorico e non come risultato di una alchimia diplomatica. Un cambiamento che muove i suoi passi dalla "rivoluzione" illuminista come uscita dell'uomo dalla minorità verso la realizzazione di una società giuridica internazionale garante della pace perpetua. Partendo da questi presupposti, allora centrale nella teoria della pace è il "secondo articolo definitivo" contenuto in "Per la pace perpetua": "il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di liberi Stati"4. Quella federalista è la forma della società degli uomini liberi a cui prima accennavo; garantita come causa finale della storia, non può prescindere dalla causa efficiente, dall'intenzione dell'uomo, che (come ampiamente chiarito) la deve assumere quale dovere morale. Nella sua argomentazione Kant riprende il contrattualismo e il giusnaturalismo hobbesiano affermando la necessità di estendere tale modello dai rapporti tra individui ai rapporti tra Stati: se i singoli individui che, vivendo nello stato di natura (cioè nell'indipendenza da leggi esterne), si ledono a vicenda già per il solo fatto della loro vicinanza5 hanno potuto unirsi tramite un contratto sociale dettato da un imperativo categorico in stati di diritto e passare allo stato civile, allo stesso modo i singoli Stati possono concordare un trattato internazionale in cui a ognuno siano garantiti eguali diritti e richiesti eguali doveri nei confronti degli altri membri. Nella formulazione di tale federazione, tuttavia, il progetto di Kant sembra essere incerto e poco attuabile: ad un "pactum societatis" che promuova la collaborazione e ad un foedus pacificum che prometta il perseguimento comune della pace universale, il filosofo prussiano non fa seguire nella sua teoria giuridico-politica un pactum subiectionis che sottoponga ogni impegno alla pace alla garanzia di un organo super partes, federale appunto, dotato di poteri maggiori vincolanti i singoli Stati. Il pensiero di Kant apparentemente vacilla non appena si rende conto di star sospeso tra due baratri. Da un lato c'è la guerra ma dall'altro c'è un abisso non meno spaventoso, quello del più orribile dispotismo6, il qual "non lascerebbe spazio alla pace perpetua che nel gran cimitero del genere umano7. Non si tratta solo di salvare la pace: insieme ad essa bisogna salvare la libertà, altrimenti avremo sì la pace, ma la pace dell'ingiustizia o degli schiavi. Ecco perché Kant dà grande importanza al primo articolo per la pace perpetua: La costituzione civile di ogni stato deve essere repubblicana8. Laddove la costituzione repubblicana basata sui principi della libertà dei cittadini, della dipendenza di essi dalla legge (espressione della volontà pubblica) e dell'uguaglianza giuridica, essendo l'unica costituzione che derivi dall'idea del contratto originario su cui ogni legislazione giuridicamente valida di un popolo deve fondarsi 9, è l'antitesi del governo dispotico, in cui i poteri sono tutti concentrati nelle sole mani del sovrano. La repubblica come garanzia di effettiva libertà diviene quindi anche condizione necessaria e strettamente integrante della federazione di Stati: tale accordo nato con l'handicap della mancanza di un organismo giuridico deliberante internazionale può funzionare solo se stipulato tra nazioni che per la propria costituzione (quella repubblicana) sono avversi alla guerra. In uno stato repubblicano nulla è più naturale del fatto che, dovendo decidere di far ricadere su se stessi tutte le calamità della guerra [...], [i cittadini] rifletteranno a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco10. Un ordine internazionale pacifico può nascere solo da un patto di rinuncia alla guerra che parta da nazioni pacifiche repubblicane, e si allarghi progressivamente, basato sul rifiuto di una morale utilitaristica della guerra (funzionale e organica a una politica di potenza e conquista) e sulla convinzione dei vantaggi che la pace offre. Insomma, tirando le fila del discorso, accantonato un governo mondiale considerato pericoloso per la libertà, il palcoscenico kantiano è occupato dalla trasformazione dello stato in senso repubblicano, dalla lega dei popoli e dalla legalità internazionale. Legalità internazionale che viene chiarita nel terzo articolo definitivo della pace perpetua: Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell'universale ospitalità11. Tale universale ospitalità infatti, prevedendo tra l'altro l'abbandono da parte di ognuno del diritto di conquista, disconosce la guerra come esplicazione del rapporto tra individui di uno Stato e di un altro Stato, promuovendo al suo posto lo spirito commerciale, possibile incentivo all'unione federale e, quindi, alla pace perpetua. Il commercio è allora per Kant uno di quei nuovi pilastri, su cui si deve fondare un ordine internazionale pacifico, a cui accennavo all'inizio di questo saggio: il commercio unisce popoli naturalmente divisi dalle diversità razziali, linguistiche, religiose, culturali, ecc. quando invece la guerra acuisce ogni motivo di separazione e differenziazione. Alla fine del settecento una legalità internazionale così connotata però non esisteva e Kant, uomo di ogni tempo nonché uomo del suo tempo, se ne rendeva bene conto: il diritto internazionale di quel tempo si riferiva a una situazione giuridica di guerra cioè di assenza di legalità mondiale. Ecco perché il filosofo prussiano fece precedere agli articoli definitivi per la pace perpetua degli articoli preliminari, che potessero ritrarre da una situazione di passaggio. Nel senso che questi ultimi non escludono del tutto la guerra, ma al tempo stesso preparano la pace. Il primo articolo preliminare si muove in questa direzione affermando che pacta sunt servanda e che un trattato di pace deve essere un trattato di pace, quindi non una semplice tregua, un prendere tempo per dar fiato alle truppe ed escogitare nuove strategie in vista di una ripresa più favorevole delle ostilità. Tema che si lega strettamente alla necessità della pubblicità12 (oggi si direbbe trasparenza) dell'arte politica e delle massime che la ispirano, cui è indicata la seconda appendice. Nei seguenti quattro articoli sono contenuti gli importanti principi della personalità giuridica degli Stati, di come gli uomini non possano essere usati come macchine o strumenti nelle mani di un altro (lo Stato)13, ed una certa realistica considerazione della necessità dell'equilibrio e del rispetto dello status quo. Ma importantissimo è quanto espresso nel sesto ed ultimo articolo: nessuno Stato, in guerra con un altro deve permettersi degli atti di ostilità tali da rendere impossibile, al ritorno della pace, la confidenza reciproca14. Sulla via che, secondo Kant, necessariamente porterà alla pace universale di una società giuridica di tutti gli uomini, la norma fondamentale del diritto internazionale deve essere quella di non rendere impossibile una stabile pace futura, nell'unica forma pensabile, quella di una lega di popoli il cui scopo e contenuto sia l'accettazione di una legalità cosmopolitica basata sul commercio e sul rifiuto della guerra.
b) Hegel: Filosofia della guerra. In aperta rottura con quella di Kant è la teoria della pace e della guerra hegeliana: è la guerra il momento strutturale su cui fa perno la Storia nella dialettica tra i popoli, non la pace. Nella sua argomentazione, contenuta nei Lineamenti di filosofia del diritto e nelle Lezioni di filosofia del diritto, il filosofo tedesco muove dalla concezione di una storia del mondo razionale ove una volontà divina domina poderosa nel mondo, e non è così impotente da non saperne determinare il gran contenuto15, il cui fine è che lo Spirito universale giunga al sapere di ciò che esso è veramente e realizzi questo sapere incarnandosi negli spiriti dei popoli che si succedono nella storia stessa, ovvero incarnandosi nella libertà dello Stato, intesa quindi come fine supremo. Lo Stato hegeliano, che dal punto di vista interno assume una connotazione assoluta come incarnazione suprema della moralità sociale e del bene comune, nel momento in cui si rivolge esternamente a sé vede la sua totalità etica, la [sua] autonomia [...] esposta all'accidentalità16. Sul piano internazionale ogni Stato (cfr. par. 336 Lineamenti di filosofia del diritto) in confronto con gli altri si presenta come volontà particolare che deve perseguire il suo benessere in generale17: questa per Hegel è la legge suprema nel comportamento dello Stato con gli altri18, la quale si fonda sul concetto di bene effettivamente oltraggiato o minacciato nella sua particolarità determinata19. Quindi il conflitto tra gli Stati, in quanto le volontà particolari non trovano un accomodamento, può essere deciso soltanto dalla guerra20, che trova qui la sua giustificazione di momento necessario della dialettica tra i popoli: essa infatti risolve, appunto dialetticamente, l'antitesi tra i diversi Stati rispondendo al disegno razionale della Storia. Di conseguenza perciò storicamente vince chi ha ragione (al contrario di quanto afferma Kant, vedi al punto a)), laddove il piano della realtà e del dover essere coincidono e non lasciano spazio ad alcun dubbio della ragione. La guerra quindi vanta il primo grande merito di permettere la realizzazione dello Spirito nel trionfo del popolo migliore (quello tedesco?), ma ancora più grande importanza riveste come momento etico che garantisce la salute etica dei popoli 21. Essa è vita per i popoli, come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione nella la quale ridurrebbe una quiete durevole, come vi ridurrebbe i popoli una pace durevole, o, anzi perpetua22. La polemica con Kant esce allo scoperto: una pace perpetua non solo sarebbe destinata a fallire, ma non è neppure auspicabile, perché non può che essere un ristagno per gli uomini [...], la morte23 o quanto meno rimane un puro ideale della ragione. Polemica che si fa ancora più evidente e mirata pochi passi più avanti: non c'è alcun pretore, arbitro supremo e mediatore tra gli Stati, e anche questi sono solo in modo accidentale, cioè secondo la volontà particolare. La concezione kantiana d'una pace perpetua mediante una lega degli Stati, la quale appiani ogni controversia e, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni dissensione, e quindi renda impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone l'unità degli Stati che dipende [...] da una volontà sovrana particolare e quindi resta afflitta da accidentalità24. Brano che nello stile contorto di Hegel muove quella critica alla mancanza di un giudice, un terzo super partes, che fa della lega dei popoli un accordo accidentale, fragile, riproposta anche in questo saggio. Se impossibile è giungere ad un "trattato internazionale della pace perpetua, ciò non toglie che debbono essere presenti nell'ordine mondiale dei principi delle guerre giuste e dei trattati giusti. Ovvero anche per Hegel, come per Kant negli "articoli preliminari alla pace perpetua, in guerra non tutto è permesso, ma questa deve sottostare a dei vincoli che siano il rispetto degli ambasciatori, delle istituzioni interne, della famiglia e delle persone private. Inoltre allo stesso modo sunt servanda quei trattati giusti in cui sia conservata la possibilità della pace25, di una pace però che Kant più correttamente avrebbe chiamato tregua. Finora nella mia trattazione ho parlato della guerra come esplicazione dei rapporti tra Stati in contesa e discordia, senza accennare ai singoli cittadini ed al loro ruolo, cittadini che nella repubblica kantiana (vedi punto a) decidevano se fare o meno la guerra. Questo perché secondo Hegel la sovranità dello Stato deriva dallo Stato medesimo, [...] non è fondata sugli individui, ma sull'idea di Stato, ossia sul concetto di un bene universale.26 Quindi lo Stato, se così si può dire, è superiore agli individui, proprio come il tutto è superiore alle parti che lo compongono. Ma qual è allora il ruolo del cittadino? La guerra per i singoli individui è un dovere sostanziale27, quello di conservare con pericolo e con sacrificio della loro proprietà e della loro vita e, senz'altro, della loro opinione e di tutto ciò che è compreso nell'ambito della vita, quest'individualità sostanziale, l'indipendenza e la sovranità dello Stato28.Ogni individuo è figlio del suo popolo [...], nessuno può saltare oltre lo spirito del suo popolo più di quanto possa saltar via dalla terra29, questo afferma Hegel: la guerra è una delle astuzie della Ragione che lo Spirito usa per progredire nella Storia verso la sua autorealizzazione. I singoli uomini, ed in particolare la devotaclasse del valore militare30, sono disposti a rischiare la vita per interessi personali, particolari, ma l'esito del loro agire si inserisce nel ritmo universale della Storia. Lo stesso vale per gli individui cosmici, eroici, che per le loro particolari doti impongono con successo la loro volontà a tutti gli altri, soddisfacendo le proprie ambizioni. In realtà anch'essi sono solo pedine dell'astuta Ragione che sfrutta le loro passioni per raggiungere il proprio fine, che è poi quello della Storia universale. La Storia universale nel trattare la quale il pensiero hegeliano incorre in una evidente aporia: se la guerra è il momento negativo razionale della dialettica autentica tra i popoli, allora la pace dovrebbe essere il momento positivo razionale della sintesi che nello Spirito del mondo trova compimento.
 
3. Conclusione.
Le differenze tra la filosofia della pace di Kant e la filosofia della guerra di Hegel sono immediatamente evidenti (la concezione della Storia, dei rapporti internazionali, del cittadino, ecc...) cosicché in questa sintesi mi preoccuperò soprattutto di portare quelle argomentazioni che mi fanno parteggiare per la teoria pacifista kantiana e rifiutare quella bellica hegeliana. Bisogna tener presente molto bene le parole di Hegel citate alle note 22 e 24: mentre nel secondo passo in questione si sostiene in modo obbiettivo che la pace perpetua non è possibile perché tra le nazioni manca un organismo super partes, che ne garantisca una realizzazione efficace e duratura, nel primo passo secondo me si asserisce una tesi molto più forte e pericolosa: anche se fosse possibile, una pace perpetua non sarebbe desiderabile, e proprio dal punto di vista etico. Priverebbe, infatti, i cittadini del più convincente elemento che li costringe, volenti o nolenti, ad adeguarsi all'universale, a sollevarsi dal miope egoismo della condizione particolare al ethos del cittadino-soldato (così fortemente osteggiato da Kant nei suoi articoli preliminari), che non si limita timidamente a fare discorsi patriottici, ma può con coraggio accettare di morire per la propria patria. Compare all'orizzonte della storia e dell'umanità infausta legittimazione della guerra e della violenza come tali; seppur ancor lontani dalla loro esaltazione tipica di molte ideologie di fine Ottocento e inizio Novecento, il viale del tramonto della ragione e del buon senso è stato imboccato (soprattutto quando nella concezione statalista hegeliana si subordinano i principi della morale alla politica) e verrà purtroppo percorso fino in fondo. Una risposta possibile ad Hegel viene allora, da un lato, dal sottolineare l'incoerenza presente nel suo pensiero stesso (cosa già fatta al termine dell'argomentazione b)), dall'altro ponendo questa domanda: perché bisogna identificare il conflitto dialettico-etico dei popoli con la guerra? Anche ammettendo infatti, come ammette del resto Kant, che la vita umana sia necessariamente intessuta di conflitti, non è detto che quella particolare forma di tensione agonista e antagonista tra Stati debba rimanere per sempre incatenata a quei caratteri sanguinosi e tragici che le si riconoscono fin dall'antichità: che l'elevazione all'universale non possa avvenire per altra via meno cruentae barbara, ad esempio il commercio e la conseguente globalizzazione e mondializzazione della cultura e dei costumi. Una globalizzazione intesa non come livellatrice e uniformatrice, ma quale unità delle genti nelle loro diversità. Cosa molto importante, ancor di più forse, è anche un'altra: il pensiero di Hegel può avere un effetto terribile sulla prassi, quello di togliere la speranza e quindi l'impegno per un possibile mutamento. Affermando che "le cose sono sempre andate così si può pericolosamente concludere che dunque non possono andare altrimenti e accettare in definitiva che realisticamente è vano darsi da fare per cambiarle. È forte il pericolo che la presunzione di possedere nell'idealismo la chiave della Storia, porti all'inazione, quell'inazione da Hegel invece attribuita alla pace perpetua di Kant, simboleggiata come si è visto da un mare in perenne bonaccia. Una pace stagnante in realtà è certamente estranea al pensiero del filosofo prussiano, per il quale essa è invece qualcosa di compiutamente dialettico; e soprattutto non è spegnimento delle forze, anzi più viva attivazione e comprensione di esse: una maturazione collettiva dell'umanità portata avanti, come abbiamo osservato, da processi reali (sviluppo del commercio e della prosperità, evoluzione degli Stati in senso repubblicano, crescente consapevolezza dei mali della guerra) e catalizzata dal rischiaramento promosso dai filosofi, del quale sarebbero divenuti col tempo protagonisti masse sempre più vaste di cittadini, sino a modificare l'azione stessa dei governi. Non quindi eliminazione del conflitto, che è tutt'uno con la vita e con la libertà (in questo senso nulla vieta di interpretare l'espressione pace perpetua in modo autoironico), ma trasferimento della stessa su un altro piano, quello della legalità cosmopolita, più adeguato all'evolversi di una civiltà che tende alla sempre più piena attuazione di un ideale etico mediante il diritto. Insomma Kant, a differenza di Hegel, ha capito che chiarire la funzione storica della guerra non significa affatto legittimarla giuridicamente o moralmente. Kant intravede una prospettiva che mi sembra essere sfuggita ad Hegel e che a noi, dopo due guerre mondiali e cinquant'anni di guerra fredda è ben chiara: la possibilità cioè che la guerra, ben lungi dal mantenere la vita, finisca per sopprimere se stessa insieme alla vita dell'uomo, nel gran cimitero del genere umano31; che l'umanità, che è riuscita a superare le prove più difficili imposte dalla natura, finisca vittima di se stessa allorché non faccia di tutto per controllare la propria aggressività all'interno di un ordine pacifico internazionale efficace.
 
1 titolo e sottotitolo di Per la pace perpetua di I Kant, Ed. Riuniti, Roma, 1996
2 Kant, Risposta alla domanda: Che cos'è l'Illuminismo, in G. Bedeschi, Kant, Laterza, Roma-Bari 1992, 76.
3
Kant, Per la pace perpetua, Ed. Riuniti, Roma, 1996, pag. 32.
4
ivi, pag. 16.
5
ivi, pag. 16.
6
ivi, pag. XVII.
7
ivi, pag. 10.
8
ivi, pag. 12.
9
ivi, pag. 13.
10
ivi, pag. 13.
11
ivi, pag. 21.
12
ivi, pag. 50.
13
ivi, pag. 6.
14
ivi, pag. 7.
15
Abbagnano/Fornero, Filosofi e filosofia nella storia, Paravia, Torino, vol. III, pag. 139.
16
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821), par. 340.
17
ivi, par. 336.
18
ivi, par. 336.
19
ivi, par. 337.
20
ivi, par. 334.
21
ivi, par. 324.
22
ivi, par. 324.
23
E. Gaus, Lezioni, par.188-324.
24
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, par. 333.
25
ivi, par. 338.
26
Abbagnano/Fornero, Filosofi e filosofia nella storia, Paravia, Torino, vol. III, pag. 137.
27
Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, par. 324.
28
ivi, par. 324.
29
ivi, par. 325.
30
ivi, par. 325.
31
ivi, par. 325.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010