Le affinitą, il viaggio, la memoria
Stanotte, Dio, ho pianto.
Ho urlato alla dolce luna che venisse giù da quel suo castello di silenzio,
ma nulla.
Ho chiamato le stelle: mi guardavano dall'alto del loro mare d'aria infinita,
ma nulla.
Ho scongiurato gli uccelli del cielo perché ne prendessero una e me la portassero giù,
ma non mi hanno voluto rispondere.
E allora mi sono chiusa nella mia città di dolore e ho vissuto cullandomi in un quadro di cui sono solo spettatrice.
Lasciami tuffare, o Dio, nella tua piccola fiera di giocattoli celesti, lasciami vivere ancora un attimo in quel colorato presepe di mondi.
Sole, luna, stelle tutte del cielo blu sangue, ascoltatemi: io non abito più qui.
Mi cullo in un esilio di automobili e vetrine, di immagini e suoni, e precipito in un vortice senza fondo che spira al margini del vostro candido universo.
Il mio, o astri del cielo, è qui. Qui tra le lamiere di una periferia urbana, qui tra i grattacieli che svettano più alti. Non lasciare, bel cielo, che essi ti feriscano con la loro dura mole.
Ne sarei ferita anch'io.
Cos'è una periferia?
Cos'è un grattacielo?
Solo immagini di un pallido dolore nascosto da un cumulo di macerie tenute insieme dall'umana indifferenza.
Ma io, o Dio, non voglio e perciò in questa notte, in questa tua notte, le mie lacrime inondano questo foglio che profuma dell'aria che ho respirato a Parigi e ha il colore del prato dove correvo da bambina.
Guidami, o Dio, sulle spiagge di mille mari, conducimi tra deserti rosi dal tuo sole, fammi urlare, piangere, pregare la luna che vengano ancora dieci, cento, mille notti e che io possa di nuovo volare come sto facendo in questa.
Stendi, cielo, il tuo manto di velluto, perché io dal mio tombino possa guardarlo splendere per sempre. E poi la mattina, o invidioso sole, sarò di nuovo qui, in questa gabbia di cemento, e conterò ogni ora, ogni minuto e ogni secondo che tu scappi, e che di nuovo arrivi la mia dolce luna.
Non tagliare, o caldo sole, la sua coperta di stelle. La tua è cento, mille volte più accecante. Mi bruci, sole crudele, mi togli il respiro mi soffochi, mi seppellisci sotto montagne di auto colorate.
E io, o sole, vivo all'ombra di un ricordo.
Sono vestita da foglie di un bosco che - dove sarà - e ho i capelli colore di un mare prosciugato.
Cammino per strada tra la gente scrivendo cose che non hanno senso.
Poi penso al mio piccolo, pallido pezzo di passato, e allora sgorga da me un fiume di poesia e la mia penna diventa come ali di un aquilone sospinto da un soffio di nuvola.
Cantate ancora, onde del mare, il vostro antico incanto.
Rischiarate, stelle, le statue di uomini illustri.
Raccontate, o insetti della madre terra, delle battaglie che vi hanno calpestato.
Non vi ascolteranno, e vi calpesteranno ancora.
Ma io, vita mia, vi raccoglierò e vi farò parlare e scriverò fino a non avere più occhi.
Vivo in mezzo al popolo del sole, coperta da un pezzettino del tuo mantello, o cielo, e guardando con occhiali per non rimanere cieca.
Ma di notte, dalla mia piccola finestra, la luna mi tende una scala e io volo lassù, sotto la sua coperta di stelle. E lì, nascosta dal suo dolce volto, prendo un foglio di nuvole e polvere di stelle, e scrivo.
Poi mi addormento e sogno di un mondo lontano lontano e di una strada che mi pare di aver percorso tanti e tanti anni fa e di cui vedo la fine, ma il cui inizio si perde tra le acque di un mare di ghiaccio.
Ti ricordi, o Dio?
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