Io sono Bandini!
Mi svegliai quando la luce rossastra del tramonto che filtrava dalla tapparella raggiunse i miei occhi. Cinque di pomeriggio, inverno a Los Angeles. Non ricordavo assolutamente niente della sera precedente, ma potevo ritenermi fortunato: ero pur sempre nel mio letto, giovane e sano. Questo pensiero mi rese allegro. Scesi di scatto dal letto e sentii una fitta di dolore al piede destro e allora mi ricordai cosa avevo fatto la sera prima: bersagliato il poster della ragazza di Agosto di Playboy con le bottiglie vuote della birra. Mentre mi asciugavo il sangue e riflettevo sulla necessità di disinfettarmi mi resi conto che in casa non avevo alcool di nessun genere.
Saltellai verso l'armadietto che serviva da dispensa, ostinandomi nel cercare qualcosa che sapevo non esistere. Niente da fare: niente birra, niente vino, solo un pezzo di pane di segale che mi guardava stupidamente con occhi di mollica. Decisi di punirlo per la sua stupidità facendolo a pezzi e trangugiandolo, lì in piedi. Ma non potevo rimanere tutta la sera aggrappato a quella mensola. Senza niente da bere e da fumare la prospettiva della serata nella stanzetta mi riusciva agghiacciante. Sentivo i muri pronti a stringersi intorno a me, desiderosi di schiacciarmi, io, l'unico essere vivente al mondo, un insulto alla potenza delle cose inanimate. Avevo proprio bisogno di uscire.
Dieci minuti dopo zoppicavo nella nebbia verso la biblioteca comunale. Non ci tornavo dall'ultima volta che ero rimasto al verde. La biblioteca era il mio rifugio, l'unico posto dove potessi stare senza bere e senza deprimermi, almeno quando trovavo qualcosa di interessante. Ma non avevo la chiave per scegliere a colpo sicuro ciò che poteva piacermi. Nei giorni che avevo passato là dentro tiravo giù un volume dietro l'altro, passavo dalla sala della narrativa a quella della filosofia, ma quasi sempre le prime righe mi respingevano tanto da farmi chiudere il libro disgustato. Sembrava che gli scrittori contemporanei avessero giurato di non parlare di ciò che succedeva nelle strade, e si fossero concentrati unicamente sullo stile. Ma dello stile a me non importava, nei libri io cercavo la vita. Quando scoprii Dostoevskij, per l'entusiasmo esaurii in tre giorni tutte le sue opere che la biblioteca possedeva, e mi ritrovai a fissare file interminabili di libri che erano ancora meno espressivi dei muri della mia stanzetta. Quando arrivai, mezz'ora prima della chiusura, mi trovavo di fronte ad un'impresa disperata: dovevo trovare un libro abbastanza bello da sostenermi psicologicamente nella lunga notte che avrei trascorso a casa prima di andare, alle cinque del mattino, a cercare un lavoro giornaliero al porto. Senza un libro sapevo che mi sarei addormentato per svegliarmi verso mezzogiorno, senza speranza di racimolare gli spiccioli che mi servivano per mangiare.
Lo spettro della mensa dei poveri mi aleggiava intorno. Lo scacciai e presi a costeggiare gli scaffali leggendo i titoli sui dorsi e, se questi mi attiravano, sfogliando le prime pagine. Non trovavo niente. Doppiai l'angolo della D accarezzando i libri del vecchio Fëdor Michailoviç. Alla vista della moltitudine di volumi nella sezione dalla E alla H fui quasi tentato di riprendere Delitto e castigo. Ero alla F quando sentii il campanello che annunciava che mancavano cinque minuti alla chiusura. Affranto, con in mano un libro di Faulkner che avrebbe potuto soltanto conciliarmi il sonno, mi guardai attorno disperatamente cercando un titolo a cui aggrapparmi e fu allora che trovai Ask the dust (Chiedi alla polvere). Con un unico movimento estrassi il libro e rimisi al suo posto quello di Faulkner. Aprii tremando la prima pagina e i caratteri neri volarono dalla carta direttamente al mio cervello trafiggendomi gli occhi: "Una sera me ne stavo a sedere sul letto della mia stanza d'albergo, a Bunker Hill, nel cuore di Los Angeles. Era un momento importante della mia vita; dovevo prendere una decisione nei confronti dell'albergo. O pagavo o me ne andavo. Era un bel problema, degno della massima attenzione. Lo risolsi spegnendo la luce e andandomene a letto".
Verso le tre del mattino ero anch'io sdraiato sul letto, il libro sul petto, chiuso. Avevo finito di leggerlo e non ero più la stessa persona. Non ero più solo. Da qualche parte viveva quest'uomo, John Fante, che pochi anni prima di me, nella mia stessa città, aveva lottato contro gli stessi muri, le stesse strade, senza soldi, senza donne, picchiando una macchina da scrivere per tirare fuori quella cosa oscura che mi portavo dentro anch'io. Il ragazzo di cui parlava il suo libro, Arturo Bandini, era come me, e se ce l'aveva fatta lui, potevo farcela anch'io.
Trovai un lavoretto quel giorno, e poi un posto fisso come guardiano notturno. Con i soldi arrivò una donna, che beveva anche più di me. Ubriachi, facevamo delle liti furiose.
"Bukowski, sei un figlio di puttana!" mi disse un giorno, e lei credette che fossi pazzo quando saltai su e le urlai "Non chiamarmi figlio di puttana! Io sono Bandini, Arturo Bandini!"
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