Parole nere – da "Destinatario sconosciuto" di Katherine Kressmann Taylor
di Margherita De Toma
Primo premio
Presi le chiavi dallo svuotatasche in corridoio, un ciuffo di capelli solleticava la punta del naso, mi avviai con un passo lento alla porta e la aprii. Il cattivo umore aveva piantato saldamente le radici nella mia testa e ogni azione rispecchiava la lentezza mentale e la poca voglia di fare qualsiasi cosa, quel giorno. Scesi le scale, piano, strisciando i passi, e arrivai davanti alla porta della cantina dove non andavo mai, forse a causa di qualche rimasuglio delle paure infantili. Girai la chiave e dopo un attimo avvertii l'odore delle cose vecchie e care, sentii il buio polveroso accogliermi: i pochi ricordi materiali della famiglia erano lì, buttati negli angoli. La mia famiglia parlava poco del suo passato. I genitori di mia madre vivevano lontani, il mio nonno paterno era morto molti anni fa, e avevo una vaga immagine del suo viso solo grazie a una foto in un cassetto che lo ritraeva da giovane, vestito con una delle tenute tipiche dell'Italia fascista del suo tempo. La mia nonna era ancora viva ma non amava parlare spesso di quando era giovane. Rivedere tutti quegli oggetti abbandonati lì, con la promessa di rinnovarli e la pigrizia che non aveva mai permesso di farlo davvero, mi fece pensare a quante cose non sapevo, giornate, mesi e anni trascorsi di cui ignoravo tutto ma che erano intrappolati lì, nel legno delle angoliere, nel metallo delle vecchie brocche e tra le tazze di porcellana sbiadita. Dimenticai per un momento perché ero scesa e mi avvicinai con cautela a tutti quei pezzi più o meno grandi di arredamento, protagonisti nella vita dei miei nonni e ora circondati dal pulviscolo. Restai un po' lì, muovendomi come una bolla di sapone, e cominciai poi a toccare le lampade, la bicicletta da bambino, le due pentole. E da lì l'armadio, i libri nello scatolone, la cassettiera nell'angolo più buio, in fondo. Mi sedetti davanti senza badare alla polvere che vorticava intorno e mi accostai di più ai cassetti. La curiosità dei diciotto anni non tace finché non è soddisfatta e lentamente tirai il pomello del cassetto verso di me. Vuoto. Prevedibile del resto, chi lascerebbe qualcosa dentro per trent'anni? Il secondo era vuoto, di nuovo, e così il terzo. Mi preparavo ad aprire e richiudere subito anche il quarto, quando invece mi accorsi che dentro c'era una scatola di latta, come quella dei biscotti della mattina, sulla quale non riconoscevo il disegno. Ed era una scatola senza biscotti, ma piena di lettere. Erano lettere di carta bianca e rovinata, alcune dentro a una busta sgualcita, altre piegate e basta, un paio più consumate, tutte con una calligrafia tonda e a prima vista femminile. Pensando di avere tra le mani la corrispondenza degli auguri di buon Natale e buona Pasqua tra bisnonni e amici del paese vicino, mi preparavo a portarle in casa, quando decisi di dare un'occhiata, almeno rapida. Presi la prima lettera e senza troppa fatica lessi Caro Andrea. Lettere al mio nonno paterno quindi, e ripetendo nella mente il suo nome non potei far altro che ricordare la sua fotografia. La distanza da te diventa di giorno in giorno maggiore e incolmabile, e mentre il mio cuore lamenta la separazione, il mio corpo non può che procedere come se nulla accadesse. Erano da parte di mia nonna evidentemente, e mi sembrò così di aver trovato un pezzo importante di un puzzle intricato ed enorme da ricostruire. Continuai a leggere finché non giunsi alla firma conclusiva, dove mi aspettavo di vedere scritto Margherita e dove invece lessi Nicoletta. Lì per lì credo che sorrisi pensando a mio nonno da giovane, ancora incosciente del suo futuro, mentre scriveva lettere d'amore a una ragazza come lui. L'occhio cadde sulla data, 1939, mio nonno aveva ventidue anni e sapevo che ai tempi aveva appena iniziato a frequentare mia nonna. Questo mi fece sorridere meno, ma presi in mano un'altra lettera, era sempre di quella ragazza. Volevo saperne di più dopo che mi era capitato tra le mani quello squarcio di ricordo così grande. La calligrafia questa volta era leggermente diversa, sembrava più veloce, come se il foglio fosse stato scritto in una posizione scomoda o di corsa, e quello che lessi mi fece capire il motivo. Caro A., non posso dirti dove mi trovo, potrebbe essere rischioso per me come per te. Desidero però che tu sappia che sto bene, che per quanto abbiamo paura tentiamo di agire con forza d'animo. Il viaggio è stato lungo e scomodo, abbiamo camminato ore attraverso i tracciati meno conosciuti, le strade sterrate erano piccole e difficili da percorrere, specialmente dai bambini, ma ora siamo qui al sicuro, almeno per un poco. Ho pensato a te durante tutto il viaggio, non so quanto a lungo saremo costretti a scappare, fortunatamente un amico dei miei genitori ci ha permesso di occupare questa stanza per qualche tempo. Non voglio che tu ti arrischi a cercarmi, sarebbe pericoloso, ed è meglio che prosegui fingendo di aderire ad ogni attività per non suscitare sospetti, ho sentito notizie orribili di molti uomini imprigionati a causa di calunnie. Non rischiare, te ne prego. Datata 1942. Impiegai poco leggendo le altre lettere a capire di cosa si trattasse. Nicoletta era ebrea, mio nonno serviva il fascismo. Si erano innamorati molto giovani e la loro felicità si era incrinata e spezzata con le leggi antisemite: l'amore non ne aveva risentito ma da quando Nicoletta era scappata con la famiglia poteva essere trasmesso solo attraverso lettere sempre più veloci e disperate, affidate ad amici di nascosto, con la speranza che si perdeva nei giorni lenti e pieni di paura. Caro A., questa notte siamo stati svegliati di soprassalto e siamo fuggiti con solo poche cose. I bambini piangevano in silenzio, terrorizzati dalla frenesia dei movimenti e dallo sguardo vuoto di mia madre. Mio nonno nel frattempo si era sposato, ma la corrispondenza era continuata ancora, l'amore sembrava più cauto, ma non che fosse stato messo in un angolo, c'era e si avvertiva anche se sonnecchiava sotto la narrazione delle paure e delle corse sempre più veloci e frequenti da un posto all'altro. Oggi abbiamo camminato cinque ore, il posto dov'eravamo non è più sicuro, hanno detto. E non lo era nemmeno quello seguente che dopo poco veniva abbandonato. Erano trascorsi tre anni e mezzo dall'invio della prima lettera, era il 1943, e quelle carte avevano visto la serenità e i progetti di una vita d'amore affondare in un mare di paure e silenzi, di fughe e terrore, di finzioni e di promesse, mentre il cielo si tingeva sempre più di nero sopra all'orizzonte di quel sentimento. E di colpo, nel modo più doloroso, le lettere terminarono. L'ultima era in una busta ancora chiusa, con una calligrafia diversa, quella di mio nonno. Una lettera inviata da lui, che poi doveva essergli stata restituita. Intuii il motivo e ci passai una mano sopra. Pensai che avrei potuto sapere ancora qualcosa su di loro, avrei capito il punto di vista di mio nonno, l'avrei sentito più vicino, ma non la aprii, forse per rispetto, forse perché capivo di aver riaperto una ferita già dolorosa senza dover infrangere anche quell'ultimo urlo cartaceo e silenzioso. Pensai a mia nonna, mi chiesi se sapesse, non mi diedi nessuna risposta. Pensai a mio nonno, diviso tra una promessa a un partito in cui non credeva e l'amore per chi non doveva essere amato. Pensai a Nicoletta di cui non avevo nessuna immagine, pensai a lei che una notte del gennaio '43 correva con i fratelli per mano. Rimisi le lettere al loro posto, richiusi la scatola. Lasciai che quelle parole restassero lì al sicuro in attesa che qualcun altro le scoprisse, le rileggesse, in attesa che qualcun altro riuscisse ad aprire anche l'ultima. Risalii piano le scale, mi aprì mia nonna; la abbracciai, come se bastasse quello per abbracciare nello stesso momento anche mio nonno e Nicoletta.
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