Un'esperienza di lettura
Riportare alla Scala un'opera come la "Forza del Destino" è senza dubbio un'impresa rischiosa sia per quanto riguarda le aspettative del pubblico scaligero sempre esigente, sia perché lo spettacolo necessita di una regia e di un'esecuzione che riescano a mettere in secondo piano alcune carenze drammatiche e di concertazione che qua e là costellano quest'opera, dimostrando come Verdi non fosse ancora nel pieno della sua maturità.
"La Forza" mancava alla Scala ormai da ventun anni, e l'ultimo allestimento era quello che schierava artisti del calibro di José Carreras, Montserrat Caballé, Piero Cappuccilli, Nicolai Ghiaurov, Sesto Bruscantini, Giuseppe Patanè e Lamberto Puggelli; l'eredità da sostenere era dunque molto pesante, ma Riccardo Muti è riuscito, almeno per quanto lo riguardava direttamente, a reggere il confronto in modo più che dignitoso; è necessario premettere però che la rappresentazione a cui ho assistito non era la "prima" (che pure ho ascoltato per radio), ma la "terza" di sabato 20 febbraio; questo ha portato a qualche variazione nel "cast": la parte di Leonora era interpretata da Ines Salazar invece che da Georgina Lucac, il Padre Guardiano era Andrea Papi invece di Giacomo Prestia e il ruolo di Fra Melitone era sostenuto da Roberto De Candia invece che da Alfonso Antoniozzi.
Ritornando quindi al maestro Muti va anzitutto sottolineato come abbia saputo tenere costantemente sottomano ognuno dei numerosi episodi della "Forza" legandoli tra di loro con estrema naturalezza e continuità senza mai perdere la visione d'insieme del dramma; il maestro ha sempre ottenuto dall'orchestra scaligera (la cui prestazione è degna di lode) un suono pulito, compatto e omogeneo per tutte le sezioni strumentali sia che si trattasse di gestire grandi sonorità (come in alcuni passi della sinfonia e alla fine del duetto tra Leonora e il Padre Guardiano) sia quando erano necessari "pianissimi" quasi inconsistenti come nel finale dell'opera; questa sicurezza che Muti ha dimostrato in ogni istante gli ha permesso di staccare tempi molto più rapidi di quelli indicati dalla partitura, senza che però si avesse l'impressione di ascoltare una banda (rischio che lo stesso maestro ha sottolineato) e senza che la narrazione acquistasse un ritmo nevrotico.
Eppure nonostante questi elementi molto positivi provenienti dal "golfo mistico" la rappresentazione non è riuscita a essere veramente emotiva, fermandosi semplicemente a una buona teatralità. La colpa è senza dubbio attribuibile principalmente alla compagnia di canto (ma qualche responsabilità è forse anche dello stesso Muti); al giorno d'oggi il reperimento di veri cantanti verdiani è sicuramente ostico se non addirittura impossibile, ma nonostante questa amara constatazione mi è impossibile accettare senza riserve i cantanti che circolano attualmente sui palcoscenici, soprattutto paragonandoli a certi miti di un passato neanche troppo remoto che si possono ascoltare nei dischi. Ines Salazar, che si era ritirata dalla "prima" fingendosi indisposta a causa delle contestazioni avanzate dal maestro Muti durante le prove, possiede una voce di buon timbro e di sufficiente potenza, ma troppo disuguale nei registri, troppo corta (alcuni si bemolli e si naturali erano al limite del grido) e inficiata da un'emissione impropria che sembrava voler imitare (senza alcun successo) certi colpi di gola e portamenti di una Scotto peraltro senescente; conseguentemente la capacità di modulare è ridotta al minimo, tanto che ne "La Vergine degli Angeli" un "pianissimo" le si è letteralmente spezzato in gola, per non parlare poi dell'aria "Pace, pace, mio Dio" eseguita quasi costantemente rimanendo sul "mezzoforte"; sebbene poi la dizione fosse accettabile, è ovvio che in queste condizioni vocali ogni minimo tentativo di interpretare non approda a nulla.
José Cura, che sosteneva il ruolo di Don Alvaro, ha dimostrato di possedere potenzialità naturali che ai giorni nostri non possono che essere invidiabili: voce bella, scura, estesa e sufficientemente omogenea, ottima presenza scenica, pronuncia chiara e adeguata conoscenza musicale; il problema è che poi manca tutto il resto: la tecnica di fonazione è estremamente precaria, soprattutto nella zona del "passaggio" e degli acuti che, per mancanza di una adeguata copertura, sono privi di squillo e di lucentezza rimanendo "indietro"; inoltre la voce non ha la straordinaria potenza di Del Monaco (che Cura cerca invano di imitare), ma non ha nemmeno la stessa energia nell'accentazione che, al contrario, risulta a lungo andare monotona perché manca un vero approfondimento psicologico; ogni tanto addirittura certe parole vengono troncate in modo strano come se venissero solfeggiate invece di essere pronunciate. Il punto forse peggiore, che rasentava la parodia, è stato toccato con il duetto "Solenne in quest'ora" in cui il tentativo di cantare a mezzavoce per simulare di essere moribondo sfociava in qualcosa che andava al di là del bene e del male.
Il vero punto di forza della serata è stato senza dubbio il baritono Leo Nucci che vestiva i panni di Don Carlo di Vargas come oggi (ma non solo) nessuno saprebbe fare: la voce è piena, potente, sicura, omogenea e quasi sempre fluida, e gli acuti sono facilissimi, ma alle non poche lacune naturali Nucci riesce a ovviare con una tecnica, se non perfetta, quantomeno da serio professionista: sa attuare in maniera corretta il passaggio di registro con il giusto oscuramento del suono (ne è un esempio lampante il buona notte del secondo atto in cui il cantante passa dal si al mi con la massima naturalezza), non si avvertono difficoltà di respirazione e la voce è sufficientemente immascherata; inoltre in questa occasione Nucci si è lodevolmente astenuto da certi vezzi di stampo verista a cui è di solito abituato, come l'uso eccessivo del declamato e di un'espressione costantemente torva; qui al contrario questo baritono si è sforzato, con grande successo, di analizzare bene tutti gli aspetti del carattere di Don Carlo che vanno dal tormento personale alla difesa del senso dell'onore, dalla smania di vendetta alla riconoscenza; per far questo Nucci ha sottolineato ogni elemento coloristico e di fraseggio presente nella partitura verdiana, impegnandosi a fondo anche nei piccoli particolari come i mordenti prima dei re acuti della ballata di Pereda del II atto che molto difficilmente si sentono cantare in modo così nitido.
Buona anche la prova di Luciana D'Intino nel ruolo di Preziosilla: malgrado la sua voce non abbia molti armonici e risulti quindi un po' secca specialmente in zona acuta, questa cantante ha saputo destreggiarsi dignitosamente nella difficilissima parte della zingara sfruttando al meglio le proprie potenzialità tra cui un registro di petto facile e corposo; non gradevolissimi, ma sicuri, si sono dimostrati gli estremi acuti (ivi compresi il terribile do sovracuto nella volata del "Rataplan" e quello della scena col coro "Venite all'indovina"), e l'interprete si è sforzata di adeguarsi ai voleri del direttore, come dimostrava il modo in cui "strappava" alcuni mi nel "Rataplan" assecondando perfettamente il gesto di Muti. Anche il giovanissimo basso Andrea Papi ha ostentato una voce timbrata, potente ed estesa, dando vita a un Padre Guardiano altero e sicuro, anche se, psicologicamente, non troppo approfondito. Simpatico poi il Fra Melitone di Roberto De Candia che ha saputo esprimere il lato buffo del personaggio con una buona vocalità (solo il sol dell'acciaccatura e il successivo fa acuti dell'aria del III atto erano poco belli) senza mai essere troppo caricato. Eccellenti anche le parti di fianco con particolare menzione per l'impareggiabile Ernesto Gavazzi che ancora una volta è riuscito a imporsi come miglior comprimario spiccando nella caratterizzazione precisa e ricercata di Mastro Trabuco, mettendo in luce gli aspetti meschini e patetici del personaggio, senza contare poi che nel piccolo concertato del II atto la sua voce emergeva molto gradevolmente.
La prestazione del coro scaligero è stata senza dubbio ottima grazie alla compattezza che Roberto Gabbiani ha saputo imprimere alle varie sezioni sia quando cantavano singolarmente, sia quando cantavano insieme; considerando che nella "Forza" il coro gioca un ruolo fondamentale come in molte altre opere del primo Verdi, la perfetta riuscita sonora delle scene in cui esso era presente è stata senza dubbio uno degli elementi più positivi della serata.
Per quanto riguarda la regia, le scene e i costumi firmati da Hugo De Ana devo precisare che dal lato del loggione in cui mi trovavo mi era impossibile vedere buona parte dei fondali e una piccola porzione laterale di palcoscenico: da qui ritengo opportuno astenermi da un giudizio sulle scenografie; ma, nonostante tutto, la regia e i costumi mi sono sembrati non più che convenzionali e perfino con qualche incongruenza di troppo con le didascalie del libretto.
Molto contrastanti i giudizi dei loggionisti e degli habitué scaligeri sia nei confronti dei cantanti (eccetto l'unanime stroncatura del soprano), sia in quelli della regia, ma, al contrario della "prima", non ci sono state contestazioni durante le uscite degli esecutori, anche perché, come qualcuno ha giustamente constatato, "come si fa a fischiare se tanto ormai non si riesce più ad avere esecuzioni migliori di queste?".
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni