Un'esperienza di lettura
La casa tace. La luce è bandita da ogni angolo. Nella camera dei suoi, Luca percepisce il sonno. È dunque libero di fare ciò che vuole. Accende una minuscola abat-jour sul comodino, già legge. È il bel libro di un narratore famoso per lo stile cinematografico e per l'arguta costruzione delle storie. Luca gira una pagina, di scatto per non perdere il filo dell'elaborato periodo. Ne legge altre trenta. Ha perso il senso del tempo, perché‚ l'orologio digitale che campeggia al centro del comodino pulsa, con sospetta fissità: mezzanotte, mezzanotte, mezzanotte. Interrompe la lettura, chiude il libro tenendo il segno col dito, riflette. Stephen King nel "Il gioco di Gerald" racconta di una donna ammanettata per gioco al letto dal marito, colto da infarto qualche minuto dopo. Jessie resta dunque bloccata al robusto letto di mogano, in una casa isolata sul lago, lontana almeno cinque miglia da qualsiasi anima viva. I pensieri della donna sono tutto il romanzo. D'un tratto la mente di Luca, spesso più lucida nei periodi di veglia notturna, è percorsa da un flash. Metti caso che una donna si trovi in situazione analoga - casa isolata, marito morto - ma non sia ammanettata. Metti caso che, come nel libro, di notte la casa sia visitata da una figura ostile e misteriosa. Come se la caverebbe Stephen King? Meccanicamente, Luca emerge dal piumino, tanto ormai il sonno è del tutto andato, si siede alla scrivania. Ha davanti un foglio, e sembra esista solo quello: il resto della casa è immerso nel buio e nel silenzio. Inizia a scrivere.
Arva lo fissò fremendo di rabbia e impotenza.
- Perché‚ non avrei dovuto farlo? - chiese Gerald, beffardo. - Non mi andava a genio. -
La parte superiore del corpo di Gerald affondava nell'ombra: quella di Arva era una casa alta, e di notte la luce veniva soltanto da una bassa finestra. Dalla cintola in su, Gerald era un'ombra più cupa delle altre, invisibile nel nereggiare della notte.
Ma le mani erano illuminate, lorde di sangue.
Riverso, inondato dalla luce della luna, stava il corpo di Jonathan, sanguinolento, immobile. Diede ad Arva l'impressione di un vecchio pino ritorto, abbattuto al suolo a colpi di accetta.
- D'altra parte, lo sai anche tu: - fece Gerald in tono leggero, - di questi tempi, chi è forte può far proprio quel che vuole. -
Arva era rannicchiata in mezzo ai cocci di vasellame e alle croste d'intonaco. Il suo corpo magro e tremante era coperto da un solo indumento, una sottoveste, che biancheggiava nell'ombra. I capelli erano incollati al viso smunto; negli occhi, dilatati a dismisura per l'orrore, guizzavano lampi di odio. Si stringeva le braccia nude, disperata per Jonathan, terrorizzata per sé.
Luca butta l'occhio all'orologio, ma quello non lo può aiutare: mezzanotte, mezzanotte, mezzanotte. Sprofonda nuovamente nella lettura; segue Jessie nei ricordi, nella solitudine, nella disperazione. A tre quarti del libro, Luca smette di leggere. Coltiva una sottile apprensione: non è meglio dormire? Domani ho scuola. Bah. Che mi frega. E torna ad Arva. Rieccolo, con la biro in mano.
Poi Gerald disse una cosa che sul momento Arva non capì: - Arrivederci -.Si ritrasse nell'ombra della casa con un lieve scricchiolio dell'impiantito. Arva, tratteneva il fiato. La porta cigolò nell'aprirsi. Entrò un soffio d'aria fredda che, complice l'accozzaglia di emozioni, le fece accapponare la pelle.
Con il freddo entrò un fascio di luce smorzata. La colluttazione aveva lasciato i segni.
Un attimo prima che Gerald sbattesse la porta dietro di sé Arva lo vide bene. L'immagine dell'uomo vestito di verde, i lunghi capelli bianchi, il volto da mastino, le si stampò nella retina.
Restò ferma per molto tempo ancora: non riusciva a muoversi, non voleva farlo. Forse coltivava la speranza che si trattasse d'un sogno. Controllando sarebbe diventato irrimediabilmente vero, e non si sarebbe più potuta svegliare. Jonathan non l'avrebbe più svegliata, con quei bacetti piccoli piccoli che usava per darle il buongiorno. Succedeva nei dolci mattini d'estate che s'avvicendavano lieti prima della catastrofe. Non erano ancora giunti i tempi del terrore. La disperazione che l'attanagliava ora, mentre fissava il corpo del compagno morto, allora non l'avrebbe neppure saputa concepire.
Una lacrima le rigava le guance. Se ne stava rincantucciata sul fondo della stanza come un animaletto preso al laccio. Le labbra tremavano convulsamente e ogni tanto ripetevano: - Jonathan... -. Non riusciva a pensare che alle fresche mattine, quando l'acqua arrivava ancora alle case e il gas permetteva di cucinare senza fatica.
Poi, con lentezza, cominciò ad alzarsi. Udì distintamente lo schiocco simultaneo delle ginocchia e in quel momento un pensiero la ferì: avrebbe potuto fare qualcosa di più, opporsi in qualche modo?
Vacillò. Alzandosi, le gambe l'avevano retta senza fatica,contrariamente a quel che s'era aspettata, ma a quel pensiero erano diventate malferme. Jonathan... oddio, sicuramente non era morto a causa sua, però Arva si sentiva lo stesso un po' in colpa. Ora infatti sapeva come Gerald avesse colpito, come si fosse presentato con l'accetta in pugno, ricordava ogni movimento del suo attacco rapido e brutale. Pensandoci adesso non si sarebbe rifugiata in un angolino, né avrebbe urlato come se fosse stata lei a morire. No, si disse Arva, se potessi tornare indietro, te lo tirerei addosso io l'armadio dei piatti, brutto stronzo, ti finirei io con l'accetta per manzi!
Sì, ma non poteva tornare indietro. Adesso era in piedi, accanto all'armadio che Gerald e non lei aveva schiantato al suolo.
E, per Dio, Arva mai e poi mai si sarebbe scordata il rumore che quell'armadio aveva prodotto schiantandosi sul suo povero amore.
Aveva paura di non potersene mai liberare completamente le orecchie. Aveva creduto che non potesse esistere niente più forte. Era lo schianto dell'universo, l'esplosione totale, la bomba di Dio. Lo era perché‚ riguardava Jonathan, perché‚ Jonathan c'era dentro.
Poi Jonathan era emerso dalla montagna di ceramica e Gerald lo aveva afferrato per la camicia per trascinarlo sotto la finestra. Nell'oscurità si distinguevano per il loro biancore i capelli di Gerald e la sottoveste di Arva. Jonathan gemeva debolmente, trascinando i cocci.
Allora Arva ricordava distintamente di avere urlato, strappandosi lembi della sottoveste e ferendosi le natiche.
Per un istante, l'aggressore aveva interrotto l'esecuzione per guardarla meglio. Aveva visto una donna. Ma, per occuparsi di lei in santa pace, doveva stendere l'uomo.
Arva, ammutolì, si fece piccola pensando Non dovevo urlare, mi sono giocata da sola... adesso mi ucciderà subito. Ciò che l'aveva spaventata sopra ogni cosa, in quel momento, era stata l'assoluta immobilità di Gerald. Era ora in controluce e Arva poteva distinguere ogni grinza del volto. Non muoveva un muscolo, con la mannaia levata, pronta a colpire. I suoi occhi la inchiodavano. Sono fatti per dominare, ricordava di aver pensato..
Il silenzio era quasi completo. Dopo la catastrofe l'arida steppa si estendeva per un lungo tratto attorno all'edificio.
Poi Gerald era tornato all'opera. Senza quello sguardo addosso aveva ripreso a gridare, come liberata da un maleficio. Urlava disperatamente a Jonathan di reagire, di non farsi ammazzare così. Ma Gerald aveva già calato il colpo mortale.
Come lo schianto dell'armadio anche il suono della lama sulla schiena di Jonathan tracciò un marchio indelebile nel cervello di Arva. Jonathan aveva smesso di gemere, ma Gerald continuava a macellarlo, violentemente.
Dopo mille anni tutto finì. - Arrivederci -, aveva detto, Arva lo ricordava bene. Perché‚ non mi ha uccisa subito? pensava piangendo.
Luca alza la testa dal foglio. Il cielo comincia a schiarire. Con la testa pesante, agguanta "Il gioco di Gerald" e si getta a capofitto nelle ultime cento pagine. Scopre che il senso del romanzo è la liberazione non dalle manette, ma dalle paure. Una storia di doppia redenzione. Ormai ha metabolizzato lo stile di King ed è affezionato al suo racconto. Vuole concluderlo in modo personale. Torna al manoscritto ormai convinto di doverlo risolvere in chiave psicanalitica. Il thriller non lo soddisfa più. Ha un'idea da mettere alla prova.
Arva mosse qualche passo in direzione di Jonathan. Al secondo movimento, un pezzo di vetro le affondò nel piede. Dopo la prima fitta Arva non sentì più dolore. L'alluce sinistro era afflosciato e inerte. Le si era tagliato un nervo.
Dolorante, Arva arrivò a Jonathan, lo voltò. Giaceva ora in una pozza di sangue.
Inebetita si lasciò di nuovo cadere. Mozziconi di pensieri le si affollavano disordinatamente nella mente. Era sempre stata una ragazza buona. Da bambina, se i suoi compagni le rubavano il gelato, lei chinava il capo docilmente, e diceva loro:- Prendete pure: ci rinuncio volentieri, se è per farvi piacere. - Non era mai stata animata da sentimenti di vendetta: anzi, le sue amiche dicevano che era tonta, e approfittavano di quella mitezza esasperante per ottenere da lei tutto quello che volevano.
Ora per la prima volta in vita sua, Arva provò il disperato bisogno di fare giustizia. In quel tempo, dopo la catastrofe, si poteva fare ciò che si voleva, giusto? L'aveva detto Gerald!
Arva fu colpita dalla propria fredda determinazione: ma ne avrebbe avuto il coraggio?
Guardò Jonathan, e decise di sì. Si rialzò velocemente, il cuore le batteva forte: tentava di non pensare, altrimenti sarebbe stata sopraffatta da ciò che stava per fare e avrebbe desistito subito. Giustizia! le chiedeva ogni fibra del suo essere.
Aprì la porta. Guardò fuori. Davanti a lei il mondo si stendeva arido e monotono. Era un desolato deserto di roccia, qua e là erano sparse macerie di pietra. Il vento della notte sollevava la polvere da terra e ricamava lo scuro grigiore circostante. Il silenzio sarebbe stato totale se il vento non avesse continuato con il suo sommesso sussurro malinconico.
Dovette fare una smorfia per non lasciarsi sopraffare dai singhiozzi. La luna si fece fosca, velata, per due grosse gocce che le colarono lungo le guance. In quell'istante si ricordò che Gerald era un personaggio dell'unico libro che avesse mai letto, scritto prima della catastrofe. Arva ne era rimasta assai turbata e ricordava con fastidio il nome dell'uomo che aveva ammanettato la protagonista al letto.
- Che coincidenza, - pensò. - Se avessi dovuto immaginare un cattivo, proprio così l'avrei chiamato -.
Strizzò gli occhi per liberarli dalle lacrime, donò un ultimo sguardo alla luna. Sulla soglia, proprio sotto di lei, stava l'accetta, sporca del sangue di Jonathan. Il suo battito cardiaco aumentò notevolmente.
Si chinò rapidamente ed afferrò l'arnese, gelido tra le mani. Devo fare in fretta, pensò, prima che Gerald possa colpire ancora.
Inspirò profondamente. La brezza fresca della notte sibilava dolcemente. I muscoli tesi come le corde di un violino, il cuore palpitante come un coniglio in fuga; disse - Ora! - e si piantò la lama nel ventre.
Emise un gemito ovattato come attraverso un muro di cotone. Il sangue le sprizzò con violenza dalla ferita. Arva rimase per qualche secondo a bocca spalancata. Aveva quell'espressione di attonito stupore di chiunque muoia di morte dolorosa.
- Giustizia è fatta - riuscì ancora a dire prima di cadere bocconi nella polvere, con un morbido tonfo. Dentro di lei, Gerald la vide e se ne compiacque. Era un'altra rovina fra le tante, dopo la catastrofe.
Un fascio di luce striscia fino alla scrivania ad illuminare un discreto mucchio di fogli scribacchiati e una testa sopra appoggiata. È l'alba di un nuovo giorno e di un nuovo racconto.
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