L'alba di un nuovo giorno
In cielo non c'era una nuvola, l'enorme disco solare spiaccicato in mezzo al blu immacolato mi regalava una nuova, sana doccia di sudore.
Mentre camminavo le mie ossa schiacciate e doloranti si ribellavano al movimento. Tutta colpa di un letto troppo duro. Maledissi quel pezzo di marciapiede perfettamente asciutto, sbalorditamente pulito (una rarità visto che la maggior parte dei marciapiedi sono lerci di sterco) e asfaltato che ieri mi sembrava un paradiso dove trascorrere la notte.
Cercai di stiracchiarmi senza svegliare la piccola marmocchia che mi portavo dietro.
Sì, sto parlando di mia figlia. Della mia disgrazia.
Quel fagotto mi aveva complicato la vita, non è che prima andava molto meglio, ma almeno me la spassavo. La bambina aveva solo tre mesi ed era nata il giorno del mio diciassettesimo compleanno.
Un incubo. Da quel giorno ho dovuto portarmela ovunque, e per colpa sua avevo perso tutto: gli amici, la famiglia e gli studi che non ho potuto più riprendere.
Ora non sapevo più cosa fare con lei, aveva bisogno di attenzioni, che non potevo darle, di vestiti puliti troppo costosi per le mie tasche, e soprattutto di mangiare cose sane. Non potevo alimentarla con il pacchetto di sigarette e il bicchiere di rum che erano diventati ormai il mio unico pasto quotidiano.
E pensare che non le avevo trovato ancora un nome adatto. Il mio l'avevo preso in eredità da mia zia Lusy. Ma mia figlia se doveva avere un nome doveva essere importante, particolare, unico.
"Che cosa stupida perdere tempo a cercarle un nome quando sto per abbandonarla" pensai mentre mi sedevo sulla mia solita panchina di fronte al centro di assistenza per le madri disperate e incapaci di prendersi cura dei propri figli. Passavo seduta lì quasi tutti i pomeriggi combattuta, incapace di prendere una decisione, potevo entrare e risolvere tutti i miei problemi in una volta sola, ma c'era qualcosa che mi fermava, che mi impediva di farlo.
Eppure così mia figlia avrebbe potuto trovare una vita migliore di quella che potevo offrile io, ma non riuscivo a staccarmi da lei, dai suoi grandi occhi verdi identici ai miei, dalle sue mani microscopiche e ossute.
È vero, non era stato per niente facile da quando ero diventata una ragazza-madre, nessuno si era più preoccupato di me o della bambina neanche il suo dannato padre che si era dato a gambe levate quando non potevo più abortire. Ero sola. Eravamo sole.
Forse era proprio quello che mi fermava, la paura di perdere anche lei, la paura di non riuscire più a ricominciare dopo quello che avevo passato. Dopo tutto quella bambina era il mio unico legame con il mondo che mi circondava, l'unica che avesse mai trascorso così tanto tempo con me anche se inconsciamente.
Il caldo era diventato insopportabile, la mia unica maglietta era completamente zuppa e il mio fagotto si stava svegliando dal suo lungo sonno. Fra poco il suo stomaco avrebbe chiesto a gran voce di essere sfamato e io non potevo fare altro che offrirle quel poco di latte materno che avevo nel corpo.
Non potevo continuare così, non avevo un becco di quattrino ed era evidente che la bambina era malnutrita e sottopeso. Se avevo intenzione di tenerla dovevo darmi da fare.
Avevo bisogno di aiuto. Di molto aiuto.
Pensai che l'unica soluzione per il momento avrebbe potuto essere l'ospitalità del convento della città, almeno finché non avessi trovato un posto fisso dove stare. Ci avevo già pensato in passato di chiedere aiuto alle suore, ma il convento era rimasto chiuso per parecchio tempo per i lavori di ristrutturazione, ed era il momento di andare a vedere se avessero finito. Non è che l'idea mi attirasse poi così tanto, non avevo un buon legame con la religione né tantomeno con le suore ma non avevo altra scelta, non potevo continuare a vivere per la strada.
Mi incamminai per la strada che era dissestata e deserta; il vento alzava grumi di polvere e polline, e l'unico rumore che accompagnava il mio passo era il flebile sussurrio del vento.
Dopo una buona mezz'ora a camminare dondolando cercando di far riaddormentare la piccoletta, che iniziava ad agitarsi, scorsi in lontananza una grande porta di legno e vetro colorato che disegnava per terra macchie di colori sgargianti.
Non sapevo se stavo facendo la cosa giusta, non ero mai stata legata alla religione neanche da bambina, e ora mi dava una sensazione strana entrare in un convento dove sicuramente mi sarei trovata a disagio.
Suonai diverse volte il campanello in attesa di una risposta, cercando intanto di calmare la bambina che aveva iniziato a piangere. Quando finalmente la porta si aprì, una suora di bassa statura ci accolse all'interno del convento chiedendomi cosa mi avesse condotto fino a lì.
Cercai di spiegare come meglio potevo la mia situazione sottolineando che avevo l'assoluto bisogno di un posto provvisorio dove stare e di aiuto con la bambina.
La suora mi rispose "Siamo sempre pronti ad aiutare le persone in difficoltà, non ti devi preoccupare". Così mi condusse all'interno del convento. C'era un via vai di suore impegnate nei loro lavori mattutini, il retro del convento dava su un giardino pieno di aiuole fiorite, e la luce penetrava dai vetri decorati dipingendo i muri di puntini colorati. Dopo tutto non era così spaventoso come mi aspettavo e non mi sentivo poi così tanto a disagio; cominciava a piacermi, e anche la bambina sembrava tranquillizzata. "Potresti intanto che resti qui svolgere dei piccoli lavoretti per noi, e magari potremo trovarti un lavoro, che cosa ne pensi?" disse la suora sorridendomi. Non chiedevo di meglio. Mentre mi guidava alla porta della mia stanza provvisoria, mi sentii rincuorata, felice e soprattutto sollevata: stava iniziando una nuova vita per me, per la mia bambina. Ora sapevo come chiamare mia figlia. Fioralba.
Sì, così stava accadendo per noi. Stava sbocciando una nuova alba. L'alba di un nuovo futuro dove non ci saremo più divise.
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