Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
4ª edizione - (2001)

Remembrance. Ovvero un tango.
di Gabriele Moschin
Primo premio ex aequo

Quel tango, così lento, così mansueto, scivolava sul giradischi col passo sensuale di una venere mora. Remembrance, mi pareva che fosse quel brano. Ricordi, ah ricordi, dolci e strazianti assieme, rimpianti di profumi lontani, fotografie di esotiche donne opulente, cartoline di terre riarse.
Forse nostalgia? Sì, lo ammetto, la mia vita non era più quella di una volta. Allora avevo speranze. Oggi si sarebbero dovute avverare, eppure… no, un’altra delusione, un’altra inutile corrida. Oh, Venere danzante, come non potevo osservare la tua bellezza sinuosa mentre staccavi il piede leggero dal nero vortice che emetteva quella melodia: mi faceva sognare di te, un’altra volta.
Troppo stanco, avevo ceduto alle lusinghe di quelle note che non ascoltavo da molto tempo.
Anche il disco era stato comprato in una giornata di pioggia, come quella che adesso mi tormentava il cuore, poco prima che le nuvole rendessero tutto opaco…
La solitudine di questa casa mi lasciava ogni volta più perplesso. Ogni volta che vi entravo, dopo lo starnuto malato della mia serratura, era il Silenzio a salutarmi in un nero frac, il mio maggiordomo personale e assolutamente fidato, muto. Su di lui, come su di uno specchio dei più maledetti, risplendevano le nove tenebrose del mio animo incerto, della mia coscienza spaccata. Volevo essere in un colpo eremita e dandy, amante ed amato, piaga e lama insanguinata. Ed il Silenzio mi diceva tutto questo e molto altro ancora, mi sconfortava, mi costernava, mi derideva e per ognuno dei suoi improperi e per ognuna delle sue irrisioni io calavo in un baratro di disinganni. Ed era laggiù che, sempre più in fondo, sempre più difficile a trovarsi, io recuperavo la mia anima caduta, lacera.
Stappai una bottiglia di rosso e riempii il bicchiere tre volte, sorseggiandone trasognato le essenze mistiche e inebrianti. Magra voluttà… Rimasi vestito così com’ero entrato nel mio odiato nido. Intanto la musica continuava a muovere le vesti di quella dea, le faceva compiere abili volteggi e giravolte mozzafiato che penetravano nel cuore. Il secondo brindisi fu per quel volubile demonio. La sua carne latina, liscia come la porcellana, aveva la perfezione classica d’una statua, le sue braccia tornite l’indolenza del fascino, e fluttuavano assieme alle vesti confondendosi nel loro candore perlaceo. I capelli vellutati, folta criniera d’un nerissimo destriero, spumeggiavano come la chioma puntuta d’un agrifoglio sempreverde. Rimasi rapito da quel ballo così audace, dalle membra di quella olimpica tiranna, discesa per punire gli uomini selvaggi per l’amore che lei stessa aveva dischiuso, come tuorlo acido d’un uovo, nel loro petto ferito.
Le passionali figlie di Dioniso mi cullarono tra sussurri che ormai sapevo a memoria alla finestra del mio salotto. Ed io vi andai, le seguii tra i loro baci dati per metà, un poco inebetito. Fuori pioveva, ma il rumore dell’acqua non passava all’interno, nemmeno s’intuiva tra le amare scudisciate della mia danza. La mia mano, senza che me ne fossi accorto aveva toccato il vetro umido e vi avrebbe lasciato un’impronta di calore.
Laggiù, dove il mio sguardo precipitava tra le sfumature grigiastre del selciato, l’acqua, colando dai cornicioni, si raccoglieva in grottesche pozzanghere. Poche foglie borghesi venivano risucchiate e trascinate via da piccoli torrentelli ai lati della strada. Ma era impossibile seguirle. M'accorsi di quant’altro si muoveva in strada: la folla concitata che scalpicciava, tutta impazzita per quel diluvio – c’era anche una vecchia barbona infreddolita e un garzone in corsa – continuava a rimestarsi ed infittirsi così come ribolle la spuma del mare. La piazza era davvero gremita. Quel floscio acquazzone aveva reso tutti più frenetici e la piazza, austera facciata d’uno sbiadito neoclassicismo, era per metà occupata. Uomini avvolti in mantelli urtavano contro altri uomini privi d’un volto sotto i loro ombrelli… un oceano d’ombrelli anonimi, neri come lo poteva essere l’inchiostro, la pece o la piuma d’un corvo.
Il moto di quella nerastra macchia di petrolio, marea incontrollata sospinta da venti vespertini, incupiva ancor più le strade. Ai crocicchi, ferma per un istante, era pari ad uno stagnante detrito depositato da un fiume d’autovetture.
Il mio sguardo penitente risalì al cielo. Un’indefinita nube color seppia s’increspava tra gli orizzonti e copriva d’antracite il cemento già scuro mentre i goccioloni che colavano come mala pittura stiracchiavano quella tela di bianchi e neri, sempre più, fino a scomparire nell’immensa pozzanghera che invadeva la città. Eppure la mia attenzione, mossa per lo più dal malvagio Fato di cui ero amico, ricadde su di una donna ferma al bordo d’una via. Aveva in mano il suo ombrello e non voleva sporcarsi i piedi delicati tra gli umori della strada, pareva incerta se proseguire, ma doveva farlo. La sua indecisione sparì quando il volto fece una capricciosa smorfia di rassegnazione. Ah lusinga, il tuo nome è donna!
Si tuffò, col suo ombrello, nel mare d’ombre che popolavano sotto casa mia.
Pareva, più che donna, una ragazza, molto bella, molto simile alla mia Venere mora, alla baiadera che la mia fantasia poc’anzi aveva visto danzare sul giradischi. La tenni d’occhio, senza allentare il mio sguardo un solo attimo. Le stavo appresso collo sguardo, come un amante troppo opprimente, che finisce con l’uccidere la propria compagna per non concederla mai a nessun altro – lui, sultano d’harem –.
Questa creatura così deliziosa e ben vestita – con eleganza e buon gusto – d’una raffinatezza tutta parigina, cercava col piede snello e aggraziato, il terreno dove non vi fosse alcuna insidia. Sarebbe stato veramente un peccato vederla sporcarsi. Lasciai che avanzasse mentre la spiavo dall’alto, mentre il tango lamentoso le cingeva la vita colla sua baldanza latina. E lei pareva proprio che seguisse quello straziante pentagramma, scorreva agile sulle sue note più osate, la sua gamba si fletteva per evitare il pericolo, come una tigre ammansita giocava a far la ruffiana.
Attorno a lei soffiava un’aura sognante di cui facilmente ci si sarebbe innamorati. Le sue movenze mischiavano luce colla mia musica, prediletta, figlia della lascivia; e lei non si lasciava turbare, solitaria e capricciosa quanto una regina d’Egitto. Trasaliva nel mezzo della via, e ad ogni saltello, oh dolce sussulto del mio cuore!, un palpito sommesso e soffocato mi infiammava l’alcol che avevo nelle vene. Quel suo tango m’umiliava in seno, ad ogni picco dell’ottava ecco una ferita stipata nel cuore aprirsi e gemere nuovamente, bruciare e sanguinare, per la lussuria d’un tempo, ch’ebbe tutta per sé, gaudente.
Riuscii quasi a piangere per quella mestizia che m’invadeva, avrei voluto che quel flagello mi desse un colpo più forte, decisivo. Avrei voluto che il mio carnefice fosse più crudele col suo strumento, una volta per tutte. Ahimè, voglio morire, l’amore mi tenta…
Quell’amore perfido che maschera l’effimero con l’eternità, quell’amore di patti che si suggellano e poi si strappano, di promesse insensate. Ah, non era che un altro sbaglio! Un altro di quei giochi che appassionano gli animi selvaggi, l’ebbrezza incontenibile d’una stagione amorosa.
Una nuova turba di gente, improvvisamente, come un’onda che scavalca tutte le altre, s’infranse tra i marciapiedi scivolosi, si gettò per la via, s’ingrossò; eccole, come riversatesi da tutte le traverse, le persone si mescolavano coi loro ombrelli sporchi. Ed era un’immane moltitudine d’automi quelli che vedevo, intenti a proteggere con gli ombrelli i loro ingranaggi dalle ruggini. Ma io seguivo la celestiale danzatrice profilarsi su quel cupo paesaggio. Bevvi un goccio di rosso, ancora.
Vedevo che la folla la premeva da ogni parte, più agguerrita ora che era aumentato il vento; la calca fremeva tutta e scalciava come in una buia bolgia cavernosa. Vedevo che lei s’impauriva per quella frenesia inspiegabile, che il suo tango toccava i vertici più drammatici. Per tre volte lei sembrò perduta e trascinata via come una foglia d’acanto. Per tre volte sembrò smarrirsi nel caos invadente. A stento teneva alzato il suo ombrello tra i mille altri che s’affollavano. La mia danzatrice, quella celestiale creatura! Il suo braccio era disteso per non lasciarselo sfuggire, bianco come peccaminose lenzuola, e in cima lottava contro il vento che voleva strappare via la sua difesa, soccombeva contro gli altri ombrelli che la superavano nella via, che la scuotevano. E lei fu scossa, come una soave creatura, dal suo nimbo, fu assaltata dall’incognita folla di gente, fu stretta, e gemette, fu spintonata e si tese ancor più sulla punta del piede, la tumultuosa marea l’accerchiò e lei s’arrese: impigliato negli altri innominati ombrelli il suo le fu portato via.
Nessuno si fermò per restituirglielo, nessuno badò a quella donna tanto bella abbandonata sotto la pioggia. Il suo ombrello continuò da solo il suo cammino, lasciandola dietro, scoperta.
Sul volto di lei si dipinse lo sconforto.
Pareva che da un momento all’altro cadesse a terra, priva di sensi, svenuta, col volto che iniziava ad essere rigato dalle sacrileghe gocce che cadevano.
Ma più di tanto non pianse. Si volse, come richiamata da una voce che non potevo udire, e per me, per il mio tango, fu solo una giravolta delle tante. I suoi occhi, così tristi e disperati divennero, d’un sol tocco, splendidamente spalancati, una bifora vetriata. Il suo sorriso, come un rosone, avrebbe illuminato il più tetro dei cuori. Ma era per il cuore d’un sol uomo. Dal marciapiede discese lui, quel lui che l’aveva salvata, avvolto anch’egli in lungo impermeabile corvino. Lei gli andò incontro, lui la precedette. S’incontrarono nel mezzo della strada. Lui la protesse col suo ombrello e quell’unico ombrello che li copriva m’impedì d’osservare il loro bacio vizioso. Stettero così, intensamente, per un lungo istante. Bloccarono il tempo, la città continuò a fluire attorno, ma era come se fosse colta nell’imperituro sguardo di Dio.
Poi si staccarono. Lui mostrò a lei qualcosa che aveva dimenticato, lei lo prese, lo ringraziò con un sorriso ancora più radioso, ancora più scottante. Infine, si salutarono: lei era ancora turbata, ma per altro. Si guardava intorno, con occhiate tanto rapide che lui non decifrava, che non notava, neppure.
Ci furono ancora alcune parole ambigue e controverse, sussurrate in quella serata piovosa: lui voleva certezze, lei lo nutriva d’oppio. Era un gioco seducente, e lei lo vinceva sempre; era la punitrice, poteva disfarsi di lui quando più le sarebbe piaciuto. Avrebbe gettato da un momento all’altro il cuore di quell’uomo debole – prigioniero d’Eros – sul piatto argenteo, ancora sozzo del precedente pasto, del suo levriero prediletto. Si voltò, sulla punta, e corse via, leggiadra come sempre, come la tigre domestica che in lei già avevo visto. Corse verso l’entrata dell’edificio dove abitavo, in alto, nel mio piccolo abituro, io, che l’avevo braccata come un segugio affannoso; lei, la donna sublime, lei la ninfa leggera, l’angelo fatuo, incorporeo. La mia donna. La traditrice del mio cuore. Mi sedetti con calma dietro la quiete della mia scrivania. Appoggiai il bicchiere vuoto e cercai colla mano il cassetto. Non avevo pensieri. Lo aprii. Dentro si trovava la mia pistola, una rivoltella artigianale, un pezzo notevole. Era già pronta, era sempre stata pronta, già carica. Lei, invece, era sempre stata una traditrice. Allungai la mano per afferrare l’arma. L’avrei uccisa. Sentii il suo passo felpato avvicinarsi, era sulle scale. Ma in fondo ero io che mi ero innamorato solamente della sua Bellezza. Lei non aveva colpe. Le aprii la porta. Era bella come sempre, non era possibile che il peccato avesse dimorato sulle sue labbra. Richiusi il cassetto. L’avrei baciata, allora. Mi sentii un vile… un’altra volta.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010