"Antigone" di Sofocle
In apertura della tragedia Antigone di Sofocle, compare un significativo confronto tra due importanti personaggi, accomunati, ancor prima che da uno stretto legame di parentela, dal fatto di essere donne.
Nonostante il saldo legame che li unisce, i due sono profondamente divergenti tra loro, in quanto portatori di angolazioni ideologiche opposte: conoscendo, infatti, la società misogina che li circonda, all'interno della quale sono entrambi oggetto di una subordinazione maschile, reagiscono differentemente dinanzi alla causa maggiore del senso di oppressione che, da sempre, stritola la loro esistenza, riducendola ad uno squallido vivere, basato sullo sfruttamento della donna.
Le protagoniste alle quali mi riferisco sono la ribelle Antigone e la debole Ismene, figlie di Giocasta e di Edipo e per tal motivo segnate, fin dalla nascita, dall'ineluttabile maledizione abbattutasi sulla stirpe dei Labdacidi.
La cosiddetta "trasgressione" che anima le azioni di Antigone, non è dettata, a mio parere, solamente dal desiderio di rivendicare il proprio diritto a seguire la legge morale della coscienza e, quindi, a seppellire il cadavere disonorato del fratello Polinice. L'ostinazione dell'eroina è, soprattutto, il prodotto di un rifiuto, molto più articolato, nei confronti delle imposizioni date dal potere e dalla cultura, asservita agli interessi di coloro che detengono il dominio.
Le gesta di Antigone, così impavide ed incorruttibili, sono compiute dalla donna in nome di valori universali quali la pietà, l'amore e le leggi inviolabili che regolano i rapporti all'interno di un clan o di una famiglia, secondo le quali la figura di un fratello, per quanto egli possa essersi comportato empiamente, è insostituibile e va, quindi, onorata anche a costo di sacrificare se stessi al raggiungimento di tale scopo. Tuttavia non tutti, mossi da convinzioni tanto rigide da non poter essere scalfite, trovano il coraggio di opporsi ai decreti immorali di colui che, come Creonte, regna accecato dalla necessità di mantenere saldamente in pugno la propria tirannide; esiste una parte di popolazione, della quale Ismene è il modello perfetto, che alla tracotanza di un superbo risponde con silente indignazione, che non possiede sufficiente forza interiore e, conseguentemente, si limita a tacere e a piegare il capo in segno di tacito assenso verso le istituzioni.
La frase della tragedia che maggiormente mi ha colpito, rende esplicita, dunque, questa condizione, ponendo Antigone ed Ismene su binari discordi, sebbene entrambe rappresentino il prodotto, ugualmente triste, dell'antica civiltà greca. Dice Ismene, con tono accorato e querulo: "Noi siamo nate donne, non possiamo con gli uomini competere, non possiamo non obbedire agli ordini di chi è più forte di noi, a questi a ad altri ancora più dolorosi".
È altrettanto interessante osservare come due identiche battute, pronunciate l'una da Ismene e l'altra da Antigone, siano indirizzate ad esprimere concetti completamente dissimili; Ismene rifiuta l'aiuto ad Antigone nel seppellire Polinice, evitando così di volgersi contro Creonte e adduce come pretesto a tale decisione un'amara considerazione riguardo alla solitudine, dentro alla quale le donne vengono brutalmente relegate dalla componente maschile della società. La solitudine è, invece, intesa da Antigone come un aspetto di cui andar fieri, quasi che fosse la dimostrazione della veridicità delle proprie idee.
Sono rimasta particolarmente impressionata dalla freddezza con la quale Antigone abbraccia il suo futuro nel regno dei morti, e dietro alla quale talvolta traspare, attraverso improvvise considerazione dalle valenze quasi cristiane, la dolce umanità della giovane.
Una dolcezza direttamente sfociata dall'inesauribile fonte amorosa presieduta dal dio Eros, la divinità considerata dagli antichi come principio di passionalità, sia fisica che spirituale. È, infatti, l'amore a dirigere i voleri delle donne, come degli uomini, in ogni loro legame affettivo, nell' Antigone come nell' Eneide di Virgilio.
Qui, il prototipo di essere passionale è incarnato dalla regina cartaginese Didone, la quale si oppone addirittura ai fati e al volere divino, al fine di coronare i suoi sogni d'amore con l'eroe Enea.
Il fallimento di tali propositi, sommato ad una sua naturale inclinazione verso sentimenti smisuratamente coinvolgenti, la porteranno praticamente a perdersi in una radicata follia d'amore.
Un fenomeno certamente indicativo della cultura antica greca rispetto alle tematiche femminili è la formazione di un gruppo di donne, denominate "Baccanti" (o "Tiadi", o "Menadi"), le quali celebravano sui monti sacre feste triennali e notturne, dette "Baccanali". Tali riti si svolgevano secondo modalità orgiastiche, tanto che queste donne, giungevano, al culmine del culto, ad addentare vivo il cerbiatto che portavano in grembo e che fungeva da fulcro delle cerimonie.
Erano di tale natura le feste del dio Bacco, il dio dell'eccitazione dei sensi e dell'impulsività degli istinti, carnali e mentali.
Personalmente, interpreto le manifestazioni delle Baccanti come un aspetto, ampiamente discutibile, del mondo femminile di allora; immagino che la costante repressione di ogni comportamento, che potesse in qualche modo distinguere la donna da un qualsiasi oggetto, fosse la principale causa dello sbocciare e del fiorire del personaggio "Baccante". Credo, infatti, che un'eccessiva costrizione possa generare un'eccessiva esternalizzazione dei sentimenti, non appena si presenti l'occasione per esprimersi.
Mi sembra, inoltre, spontaneo contestare coloro che, trovandosi di fronte ad una personalità tanto incisiva come quella di Antigone, cercano di dipingerla al pari di una donna che gioca ad interpretare un uomo, che si appropria delle caratteristiche e dell'impeto, secondo il modo di sentire comune, tipici del maschio.
Costoro, con tale paragone, sminuiscono la reale identità dell'indomita Antigone: ella è, semplicemente, una splendida donna che lotta per sé e per le persone che ama.
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