I Promessi Sposi: la mistificazione della parola nel romanzo
di Marco Magni
Menzione d'onore
Ne I Promessi Sposi Alessandro Manzoni rappresenta il potere non nelle immagini più alte o nei personaggi maggiori della storia ufficiale, ma dà spazio a figure intermedie e minori, che gli consentono però di mettere in luce una fitta rete di connivenze e di solidarietà di classe. Lo stesso Don Rodrigo, che costituisce il motore dell'intreccio, non è presentato come l'azione solitaria di un malvagio, ma come segno di costume di una classe sociale. Tema centrale del romanzo è la raffigurazione del potere come macchina dell'artificio, che si afferma tramite la manipolazione del linguaggio, che diviene strumento della finzione. Il primo manipolatore della parola che compare nel racconto, anche se non è un potente, è un servo del potere: Azzecca-Garbugli, un vero giocoliere della parola, spregiudicato e abile nel manovrare le gride, che ingombrano il tavolo del suo studio: "A saper maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente". La disinvoltura cinica del dottore pecca di scarsa cautela, tanto che è sufficiente la forza della parola-verità di Renzo a bloccarne il flusso impetuoso. Smascherato, Azzecca-Garbugli non sa far altro che aggredire Renzo. Quando, poi, il personaggio ricompare alla tavola di don Rodrigo, non ha un ruolo di protagonista nella "dotta disputa" tra il conte Attilio e il podestà. La sua loquacità è chiamata in causa solo per sostenere il doppio e contrastante valore della parola (il primo in Chiesa e il secondo nella società mondana) di fronte al "debole" ma fermo parere di padre Cristoforo e, ulteriormente, per pronunciare l'elogio del vino offerto dal suo potente ospite in un brindisi declamatorio ed appassionato. Loquaci più che eloquenti sono a quella stessa tavola il podestà e il conte Attilio, dei quali il narratore mette in evidenza l'ignoranza: il conte Attilio scambia i feciali con gli ufiziali degli antichi Romani, mentre il podestà, volendo presuntuosamente correggere il suo interlocutore, storpia l'esotico cognome del famoso condottiero Wallenstein in Vagliensteino. La parola del conte Attilio può diventare però anche pericolosa: è lui che si prende l'incarico di proteggere il cappuccino per insegnargli come si parla ai pari nostri e che poi con abili maneggi dialettici suggerisce al conte zio la via da seguire per togliere di mezzo padre Cristoforo.
Nel "gran teatro del mondo" tre sono, essenzialmente, i personaggi di potere che si distinguono per l'esercizio della loro autorità tramite la parola. Confrontandoli, si coglie un crescendo di malvagità nel loro comportamento. Il gran cancelliere Antonio Ferrer svolge un ruolo di primo piano nei tumulti di Milano: costretto a confrontarsi con la piazza, non può, di fronte alla babilonia dei discorsi, organizzare la propria abilità oratoria. Deve invece improvvisare e farsi regista consapevole di un dramma affidato a poche parole: pane, giustizia, prigione, che devono raggiungere e convincere la folla. Si aiuta con i gesti, con la mimica di un vero teatrante e trova un compenso nella sua verità privata, alternativa a quella pubblica, nell'uso abile del doppio linguaggio (lo spagnolo opposto all'italiano). Manzoni mette in evidenza la manipolazione della parola, il sapersi far gioco del popolo, ma concede una certa dignità a questa figura, alla quale dedica un rapido ritratto: una decorosa vecchiezza, conturbata un po' dall'angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo dalle angosce mortali. Diversa è la situazione in cui il Signor conte zio del Consiglio segreto esibisce la sua calcolata arte della parola; egli si trova all'interno del suo palazzo di fronte ad un interlocutore, il padre provinciale, già sconfitto in partenza. Viene presentato dal narratore come un teorico della dialettica: Il conte zio, togato e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito... io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole arabe, e dentro non c'è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Anche se Manzoni lo deride, presentandolo come uno strumento nelle mani del furbo nipote Attilio, il conte zio sa condurre il colloquio con il suo antagonista in modo mirabile: non ha bisogno di ricorrere a gesti o ad una mimica eccessiva (salvo il suo soffiare); gli basta la parola calcolata: il suo è un parlare sospeso, rassicurante, che culmina nella sentenza conclusiva: "Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire". Frutto di "un grande studio" e "di una grand'arte" la parola per lui non è pura esibizione oratoria, è piuttosto esercizio di potere. Basti pensare all'effetto immediato che riesce ad ottenere: fare andare a piedi padre Cristoforo da Pescarenico a Rimini.
La figura del principe padre di Gertrude è oggetto di totale condanna: ancora una volta il potere, malvagio e crudele, si esercita attraverso l'uso della parola, capace di mistificare la verità e di sostenere l'azione violenta. Il principe non affronta mai direttamente la figlia e così non le consente di trovare il modo e il momento di opporsi. Egli si esprime tramite minacce e allusioni astratte; le sue parole mascherano sempre l'impulso di una necessità fatale. Il suo discorso non appare mai come un gioco, ma è un implacabile strumento di dominio. Gertrude è esclusa dal mondo della parola: una congiura si attua contro di lei in famiglia, dove nessuno le parla, così come nel convento, dove la madre badessa riflette l'atteggiamento di collera del principe. Appena Gertrude pronuncia un monosillabo, il padre ne approfitta per inchiodarla ad una decisione non scelta. Il principe (non ci regge il cuore, scrive Manzoni, di dargli in questo momento il titolo di padre) non solo domina con le sue parole la figlia, ma la corrompe, insegnandole a mentire, come avviene del resto nel colloquio con il vicario delle monache, in cui "l'esaminatore fu prima stanco di interrogare, che la sventurata di mentire. In tutti i personaggi di potere presenti ne I Promessi Sposi emerge quindi evidente un rapporto con il linguaggio deformato della finzione. Le parole, elaborate, eloquenti, sonore, allusive, diventano un mezzo per controllare la realtà: ad esse si contrappone la voce chiara e popolare del narratore, che intende smascherare il vuoto ed il pericolo che in quelle si nasconde. I personaggi che utilizzano il privilegio della loro condizione per compiere il bene, devono assumere un atteggiamento anticonformista, abbattere le barriere dei pregiudizi: il cardinale Borromeo rifiuta fin da giovane i privilegi del lusso nobiliare; l'Innominato, dopo la conversione, affronta apertamente i suoi bravi, dichiarando le proprie nuove intenzioni: questa scelta si riflette anche nell'uso della parola. Quando entra nel romanzo, l'Innominato appare chiuso nella solitudine e segregato nel silenzio. Se già egli vive una crisi interiore, non arriva a confessarla neanche a se stesso. Quando poi questa crisi affiora ed esplode, è proprio la parola che lo induce ad una verifica. Sono le parole di Lucia a mettere in moto la fase conclusiva della sua conversione: "Oh ecco! Vedo che si muove a compassione; dica una parola; la dica. Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!". Queste parole torneranno a farsi sentire nel silenzio e nella desolazione della notte, e diverranno punto saldo di conforto e di speranza. Quando ha scoperto la forza della parola, l'Innominato comprende l'orrore della propria solitudine, avverte la mancanza di un colloquio che lo conforti, e, all'alba, vedendo la schiera di popolo che si volge verso l'incontro con il cardinale, cerca un nuovo approdo: le soavi parole di Federigo incrinano e spezzano finalmente il silenzio del brigante. Allora è lui che trova il modo adatto per parlare con umiltà e coraggio ai suoi bravi, che ne avvertono ancor di più la grandezza. Dopo tanto tempo di corruzione morale ritrova in sé, in un raccoglimento ben diverso dalla precedente solitudine, le parole da rivolgere a Dio: le preghiere ch'era stato ammaestrato a recitare da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l'una dopo l'altra come sgomitolandosi. L'esperienza del cardinale Federigo è rappresentata da Manzoni come un modello a cui guardare a proposito del valore della parola. Il ritratto, che occupa l'intero capitolo XXII, è basato sulla corrispondenza tra parola e azione: "la vita è il paragone delle parole". Il cardinale si esprime con un'oratoria magniloquente, come naturale per un uomo ricco di cultura, ricca di citazioni bibliche, ma nel suo parlare non c'è volontà di esibizione: le sue parole sono "belle", ma non sono solo belle parole, come osserva il sarto del villaggio, commentando la predica appena ascoltata. Federigo vive nel mondo, non lo rifiuta, ma si impegna a riformarlo con l'esempio: trova così il modo di comunicare, attenendosi alla verità, un messaggio di bene sia al selvaggio signore, che si umilia dinanzi a lui, sia alla semplice Lucia. Cosa ancor più difficile, riesce a penetrare la scorza di Don Abbondio, che, "come lo stoppino umido e ammaccato d'una candela" alla fine "s'accende e bene o male brucia". La sua voce non è contaminata dai discorsi del mondo, ma si propone come modello alternativo e consolante in opposizione al dominio sociale della parola corrotta.
La classe dominante presentata da Manzoni sembra possedere il controllo delle legislazioni e dei vari strumento di comando che si traducono, in forma scritta, nelle leggi, negli editti e nei dispacci. Il popolano Renzo, quando arriva a scoprire l'esistenza di una legge che lo riguarda direttamente, ne può usufruire solo grazie al dottor Azzecca-Garbugli, che poi risulterà legato alla classe dominante. La situazione diviene più clamorosa a Milano, dove le parole delle gride, nel caso della carestia, significano miseria e fame, e nel caso della peste e del celebre delirio, che ad essa si collega, significano tortura e morte. Nonostante il rimbombo delle loro parole, i testi della legge restano per lo più un pezzo di carta attaccato alle cantonate, che fa paura solo ai deboli, mentre chi possiede la forza può ridersene. Si nota un contrasto tra l'impotenza dei loro autori e la loro inefficienza; la forma in cui viene presentato qualcuno di questi proclami appare comica: è il caso dei provvedimenti relativi al rincaro del pane poco prima della sommossa popolare di Milano. I componenti della giunta nominata da don Gonzalo si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni... conclusero di rincarare il pane. L'azione della giunta sembra buffa, ma la forza di cui dispone è reale e le sue disposizioni producono effetti drammatici concreti. Un altro episodio in cui il narratore presenta in forma giocosa il linguaggio autoritario del potere si presenta all'inizio del capitolo XVIII, con l'arrivo al podestà di Lecco di un dispaccio contenente l'ordine di aprire un'inchiesta per scoprire se un certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino scappato dalle forze praedicti egregi domini capitanei sia tornato palam vel clam al suo paese. L'informazione si sviluppa tra il latino burocratico e la parlata ossequiosa, ma in volgare, come se qualcuno a tratti leggesse il testo e a tratti lo commentasse, cambiando tono ed espressione. Il bilinguismo è animato dalla malizia e dalla fantasia del narratore, ma l'inquisizione e la debita diligentia consistono in un atto tutt'altro che legale: la casa di Renzo viene vandalicamente perquisita, come in una città presa d'assalto. La parola della legge e lo scritto del potere si traducono nuovamente in violenza. Esaminando gli scritti privati, alcuni dei personaggi che appartengono alla classe dominante ricorrono nel romanzo alla scrittura, scrivendo delle lettere. Il primo caso si verifica per la giovane Gertrude, il cui cammino verso la forzata monacazione è segnato da tre lettere, che costituiscono tre diversi errori, che la poveretta deve penosamente scontare. In questa situazione la comunicazione epistolare è presentata nella sua forma più intima (anche se le lettere non sono direttamente riferite), come invocazione di un'anima ancora ingenua: proprio perché Gertrude non conosce il mondo, né sospetta le tortuose trame alle quali è capace di ricorrere il padre, quelle sue lettere ottengono effetti disastrosi. Nella prima la giovane scrive al principe, per manifestargli i suoi dubbi sulla propria vocazione; inutilmente Gertrude aspetta una risposta che non venne mai; soltanto dalla badessa apprende oscure notizie d'una gran collera del principe e non osò domandar più in là. Il ritorno a casa, per trascorrere il periodo prescritto in attesa dell'esame del vicario delle monache che avrebbe dovuto verificare l'autenticità della decisione di prendere il velo, avviene nelle condizioni peggiori. Nell'isolamento totale solo un paggio si dimostra gentile con lei ed ecco il secondo errore: un biglietto per il paggio, che passa dalle mani della cameriera a quelle del padre. Gertrude è ancor più reclusa e, per disperazione, scrive ancora: questa volta una lettera di sottomissione, di richiesta di perdono piena d'entusiasmo e di abbattimento, d'afflizione e di speranza. La ragazza mostra apertamente la sua debolezza di carattere, l'inesperienza che la rende vittima del ricatto paterno. La scrittura di Gertrude, nonostante sia una nobile, non è uno strumento di potere, in quanto per i pregiudizi dell'epoca e per la responsabilità del padre è una vittima debole e sprovveduta, che crede poco nella forza dei sentimenti e della verità. Il silenzio e la reazione del principe a queste lettere mostrano come sia impenetrabile ad ogni appello alla comprensione, che interpreta solo come un ostacolo ai suoi piani. Altri due personaggi potenti sono colti dal narratore nell'atto di scrivere, anche se si tratta di un rapida carrellata. Da un lato il conte zio: questi, quando viene informato da Attilio che padre Cristoforo trova più gusto a contrastare Rodrigo proprio perché è suo nipote, preso da un cassetto di un suo tavolino un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando quel povero nome. Collegate a questo scritto sono la lettera di Attilio a don Rodrigo, con la quale lo assicurava che la trama era ben avviata a proposito del suo piano e, successivamente, quella conclusiva del padre provinciale al guardiano di Pescarenico, che accompagna l' obbedienza, cioè l'ordine per padre Cristoforo di lasciare il convento. In modo parallelo l'Innominato, quando don Rodrigo gli chiede di rapire Lucia dal chiostro di Monza, come se un demonio nascosto nel suo cuore glielo avesse comandato... Prese l'appunto del nome della povera Lucia. In tutti questi casi la scrittura fissa una volontà del male e accompagna un'azione violenta ai danni di due umili incolpevoli. Per quanto riguarda l'Innominato, egli, dopo la conversione, utilizza la scrittura per un'opera di pietà: scrive, infatti, una lettera al cardinale, che accompagna il dono di cento scudi d'oro per servir di dote alla giovine o per qualsiasi uso che ad esse (Lucia ed Agnese) sarebbe parso migliore. Lo scritto esprime con parole semplici sentimenti ricchi di carità. Non tutti i personaggi d'alto affare sono però in grado di padroneggiare la scrittura: donna Prassede possiede una cultura modesta, in quanto Ferrante, consegnandole la dettagliata lettera che ha preparato, dietro richiesta della consorte, per il cardinale, le raccomanda l'ortografia e il narratore ritrae Prassede intenta a ricopiare diligentissimamente, cioè con estrema, faticosa lentezza. Questa lettera, anche se ornata di molti fiori, contiene poca sostanza, ma ha un senso positivo: è l'offerta di accogliere Lucia a Milano, per proteggerla da ulteriori pericoli. Anche se questo atto di carità non è tutto oro, le intenzioni di fondo sono buone e per questa volta la scrittura non è collegata ad un abuso di potere. Nemmeno l'autore della lettera, don Ferrante, è un potente che si serve della cultura e della parola scritta a danno degli altri; per la sua incapacità di mettere in discussione le proprie idee e le proprie conoscenze, è la caricatura del dotto del Seicento, ma non è oggetto solo di critica negativa da parte dell'autore: "Se, pregato, prestava l'ufizio della penna, era perché ci aveva il suo genio; del rimanente anche in questo sapeva dir di no...". Manzoni, essendo un intellettuale romantico, considera don Ferrante come uno che spende vanamente la sua falsa cultura e la sua vita, ma apprezza la sua autonomia: quando dà notizia della morte dei due coniugi, riserva loro un trattamento ben diverso. "Di donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto". La sua mania filantropica non lascia eredità d'affetti né di memorie. A don Ferrante, dandone responsabilità all'anonimo, Manzoni dedica uno straordinario elogio funebre, che, pur in termini comici, evidenzia l'eroicità del personaggio, il quale rappresenta una dottrina non priva di un suo equilibrio; il dramma di una cultura privilegiata ma lontana dalla verità. La sua morte è vista come la scomparsa di un eroe del Metastasio: Manzoni rifiuta la prospettiva soggettiva, la quale coglie la realtà solo in modo parziale ed utilizza un tono letterario lontano dalla quotidianità dei personaggi de I Promessi Sposi. La scelta di utilizzare nel romanzo il linguaggio volgare, cioè una lingua liberata dalle vecchie convenzioni accademiche, conferisce uno stile vivace ai Promessi Sposi, caratterizzato dalle voci degli umili: concretezza dei paragoni, ripresa dei modi di dire dell'uso quotidiano e della tradizione. Gli umili personaggi del paese hanno nei confronti della parola un atteggiamento diverso dai popolani di Milano. Nel paesello si è ancora convinti che alle parole corrispondano i fatti; possono sorgere dei cicalecci, delle ciarle, ma una parola decisa basta a troncarle. Quando le comari incuriosite dal rinvio delle nozze di Lucia, si recano fino alla canonica per verificare quanto è accaduto, basta la trista parola di Perpetua: "Un febbrone!" per tacitare le loro congetture. Ciò significa che questi umili associano parola ed azione, ignorando ragionamenti subdoli e complessi. I paesani, inoltre, si intendono assai bene tra loro, perché vivono all'interno di una stessa cultura e si esprimono ad un livello omogeneo, pur nelle varianti personali: non ci vuol molto a Renzo per spiegarsi con Tonio a proposito del matrimonio per sorpresa e, parallelamente, Agnese sa bene con quali argomenti catturare Perpetua e tenerla lontana dalla canonica. I guai cominciano quando gli umili devono comunicare con estranei e specialmente con persone di rango superiore: allora avvertono un senso di inferiorità; la barriera costituita dall'essere gente di nessuno si traduce nella consapevolezza di non possedere il dominio e il controllo della parola. La comare chiacchierona Agnese di fronte alla Signora nel monastero di Monza afferma nel suo confuso discorso: "mi perdonerà se parlo male". Non è comunque vero che non sappiano esprimersi, ma si rendono conto che la parola ha un potere di cui essi non dispongono come la classe dominante; da questa insicurezza è escluso ogni ricorso al raggiro e alla menzogna. Anche tra gli umili del contado può però verificarsi una deformazione della verità, ma per questo occorre che qualche grande avvenimento, passando di bocca in bocca assuma aspetti diversi: il gran caso della notte degli imbrogli acquista, al mattino successivo, una versione romanzesca, oppure il gran fatto della conversione dell'Innominato assume l'aspetto di un miracolo a causa dei racconti popolari, mentre le voci dei novellisti di professione costruiscono un quadro tragico, quando riferiscono come un bollettino tremendo le notizie relative all'esercito invasore. In questi casi il moltiplicarsi dei punti di vista fa emergere il valore relativo della parola e della verità che essa esprime, pur rimanendo intatta la buona fede dei personaggi. Nella comunità cittadina un piccol numero di vocaboli diviene il materiale di tanti discorsi: a Milano, nei giorni della sommossa per il pane, le parole servono a sostenere con sicurezza le opinioni più svariate; nasce così una babilonia di discorsi, che sembra un gioco ma può ad un tratto trasformarsi in pericolo. Il rapporto tra parola e verità si è spezzato a causa del prevalere delle passioni. La conseguenza più grave di questa frattura si ha con il dilagare della peste, quando, pur di non ammettere la verità del contagio, gli umili (come i signori e gli stessi medici) ricorrono a qualsiasi compromesso verbale, a quella che Manzoni chiama trufferia di parole. Anche senza giungere a queste situazioni eccezionali, il contrasto tra apparenza e verità, che domina nella realtà cittadina, è messo in risalto tramite le figure dei furbi di professione, che si distinguono per l'abilità con cui si destreggiano nel parlare: appartengono alla classe sociale umile, ma nel racconto appaiono asserviti al potere. Secondo il narratore, la loro abilità non sempre li salva: Ambrogio Fusella è un furbo vincente, che traduce in azione concreta a danno di Renzo la sua parola intrigante, ma il notaio criminale, che confida troppo nella sua scaltrezza e nella ingenuità del reo buon uomo, fallisce miseramente il suo scopo. Un particolare spazio, che sempre appartiene al mondo degli umili, è rappresentato nel romanzo dal basso Clero, personificato da due personaggi che sono tra i più grandi sul piano artistico: il modesto curato del villaggio e l'umile cappuccino di Pescarenico, don Abbondio e padre Cristoforo. Contrapposti tra di loro per scelta di vita e di temperamento, si distinguono anche per il loro diverso utilizzo della parola. Don Abbondio, in coerenza con il suo sistema di neutralità disarmata, finché può, sceglie il silenzio, un baluardo protettivo che gli consente di non compromettersi con nessuno. Se si concede di parlare è per sfogare il mal umore lungamente represso e criticare chi non si regola come lui. Il curato arriva anche a imporre i suoi mezzi dialettici quando ha di fronte Renzo (un giovanetto ignorante), che non gli fa paura: allora sfoggia il suo lessico ecclesiastico (impedimenti dirimenti) o addirittura ricorre all'uso del latino, che fa infuriare Renzo. Ma basta che il giovane alzi la voce che don Abbondio si arrende. Il bisogno di comunicare di don Abbondio si esprime solo nel monologo interiore, compenso del silenzio cui si sente condannato dal mondo. Solo al culmine del colloquio con il cardinale Federigo sbotta in un'esplosione di vitalità: "Gli è perché le ho viste io quelle facce...". Il suo sistema è un sistema di servitù volontaria: non semplicemente accettato da una posizione di forza, da una posizione di indipendenza, qual era quella di un prete nella Lombardia spagnola del secolo XVII. Un sistema perfetto, tetragono, inattaccabile. Tutto vi si spezza contro (Leonardo Sciascia). Nel finale del capitolo conclusivo, libero dalla paura di don Rodrigo, il personaggio si ripaga con una gran parlantina della sofferta rinuncia alla parola, che ha avuto un solo spazio: il perenne battibecco con Perpetua. In conclusione, è anche lui un umile represso e discriminato dalla società repressiva, pur avendo i mezzi verbali per sostenere le sue ragioni. Don Abbondio sta lì, nelle ultime pagine del romanzo, vivo, vegeto, su tutto e tutti vittorioso e trionfante: su Renzo e Lucia, su Perpetua e i suoi pareri, su don Rodrigo, sul cardinale arcivescovo. Il suo sistema è uscito dalla vicenda collaudato, temprato come acciaio, efficientissimo. Ne saggiamo la resistenza anche noi, oggi: a tre secoli e mezzo dagli anni in cui il romanzo si svolge, a un secolo e mezzo dagli anni in cui Alessandro Manzoni lo scrisse (Leonardo Sciascia).
Il rapporto di padre Cristoforo con la parola sta alla base del passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo. Il giovane Ludovico usa parole convenzionali, parole di prammatica nel suo scontro con il nobile soverchiatore, mentre con la conversione scopre la forza della parola-verità, semplice e autentica, che corrisponde alla sua fede, al ruolo che assume e che persegue con tenacia. Di fronte ai discorsi del mondo la sua voce non riesce a farsi sentire; alla tavola di don Rodrigo il suo resta un debole parere, ma non si piega ai compromessi. Nel successivo colloquio con don Rodrigo resta sconfitto sul piano pratico, ma la sua parola ("Verrà un giorno...") lascia una profonda incisione nella coscienza dell'avversario. Padre Cristoforo non è uno sprovveduto, egli sa bene che le parole dell'iniquo penetrano e sfuggono, ma questo non incrina la sua fiducia nella parola, che per lui è un dono divino. Egli trova le parole adatte per le varie situazioni e i vari personaggi: per Lucia, che sa farne tesoro, per Renzo, che da lui è guidato fino al perdono di don Rodrigo. Le sue parole si traducono in fatti, e trovano il loro culmine nel suo congedo dai due sposi, che è anche il suo congedo dal mondo. Al contrario di don Abbondio, è il profeta della parola: possiede una cultura che filtra attraverso l'amore, efficace strumento di comunicazione.
Finché si muove nel suo borgo, Renzo appare ben capace di esprimersi e reagire alle parole degli altri: se resta disorientato di fronte al parlare di don Abbondio, è in grado di rifarsi con Perpetua e riesce a costringere don Abbondio a rivelare il suo segreto, con l'aiuto della propria aggressività. Ma gli basta giungere a Lecco nello studio del dottor Azzecca-Garbugli, per scoprire che la sua parola vale ben poco di fronte a chi sa giocare con l'arte del discorso come un giocatore di bussolotti. Nella conclusione di questo episodio Renzo usa sconsideratamente la parola: "a questo mondo c'è giustizia finalmente!". Egli è sostanzialmente ingenuo e inesperto, ma con qualche spunto di furbizia; la gran collera ostentata nei confronti di Lucia, attraverso la quale ottiene il consenso per il matrimonio clandestino, rivela un suo modo particolare di utilizzare la parola. Il rapporto con il mondo cittadino provoca una trasformazione nel personaggio: in un primo momento il giovane montanaro reagisce con il buon senso all'irrazionalità del tumulto e, poco dopo, dinanzi alla violenza sanguinaria del vecchio mal vissuto, reagisce apertamente, spinto dal suo amore di giustizia e dal suo sentimento cristiano. Ma è proprio la sete di giustizia che lo trae in inganno alla vista di Ferrer: Renzo, confondendo le giuste esigenze del popolo e la propria causa personale, a poco a poco si esalta, smarrisce la prudenza e rivive in lui la fiducia nella parola, tanto che arriva a tenere in pubblico un infiammato discorso. Il furore comunicativo di Renzo tocca il massimo nell'osteria della luna piena, esaltato dalle generose bevute. L'euforia è destinata a durare poco: il brusco risveglio ad opera del notaio criminale comporta la caduta di un'illusione: non basta credere in una verità e affermarla a parole, per vederla tradursi in fatti concreti. Renzo, allora, al parlare scomposto del giorno precedente, oppone un'attenta economia di parole, riscattandosi così dal suo errore. Egli sta imparando a proprie spese, ma non basta la recuperata prudenza a salvarlo da una più amara delusione. Nell'osteria di Gorgonzola, attraverso l'oratoria del mercante, Renzo scopre la corruzione della parola e questa scoperta lo porta prima allo sfogo del soliloquio e poi al rischio della disperazione nella drammatica notte alla ricerca dell'Adda. L'amara esperienza non sarà dimenticata da Renzo. Tornato a Milano per cercare Lucia, usa le parole con estrema cautela, adatta i suoi interventi ai vari interlocutori: alla donna segregata in casa con i suoi bambini Renzo promette di occuparsi del suo caso; sul carro dei monatti, che lo hanno salvato, si guarda bene dal partecipare alla turpe conversazione. Occorre però che egli ritrovi padre Cristoforo, per recuperare attraverso di lui una fiducia più profonda e matura nella verità. Solo allora Renzo sarà in grado di superare i limiti della sua passione e concluderà la sua esperienza con quella preghiera fatta di una confusione di parole arruffate, di frasi interrotte, di esclamazioni, di lamenti, di promesse. Renzo passa, dunque, attraverso una serie di illusioni e delusioni che lo maturano: anche sul piano della parola si ripete il dinamismo che caratterizza la sua figura. Egli esce dal romanzo con una rinnovata fiducia nella parola, anche se non possiede più l'ingenuità originaria. A conclusione della sua storia, tra l'altro, affermerà: "ho imparato a guardare con chi parlo".
Lucia assume una posizione di silenzio nel romanzo, legato non alla paura, come nel caso di don Abbondio, ma alla riservatezza e al pudore: quando deve esprimersi, non ci sono nel suo linguaggio variazioni e maturazione, come avviene per Renzo: la sua parola è costantemente nitida, rigorosa, perché è sempre legata all'affermazione della verità. Lucia non è per questo un'eroina, che compie in nome della verità vistose battaglie, ma è convinta di quanto dice e non è contaminata dalla corruzione della parola. In genere, non interviene per sua iniziativa, ma, costretta dalla situazione, è decisa, pur nella sua debolezza. Dinanzi alla rozza e disinvolta parola di Agnese, a proposito del matrimonio clandestino, la reazione di Lucia si esprime in poche parole, ma tali da non lasciare dubbi: "Se è cosa che non istà bene... non bisogna farla". Ma quando Agnese si trova a mal partito davanti a Gertrude, Lucia non esita a intervenire per difenderla. Ancora una volta sono le parole di Agnese, la quale, riferendo la storia di quanto accaduto, non rivela per intero la verità al cardinale, a spingere Lucia a intervenire, a precisare, nonostante le occhiatacce della madre, anche il particolare dell'impresa notturna del matrimonio. E se la giovane tace di fronte alla curiosità di Gertrude, sa ben reagire, pur con turbamento e dolore, per difendere Renzo dalle maligne insinuazioni di donna Prassede. La fiducia di Lucia nella forza della parola si afferma soprattutto nel suo incontro con l'Innominato; per lui la fanciulla, pur non possedendo la cultura di padre Cristoforo o del cardinale Borromeo, sa istintivamente trovare le espressioni che fanno breccia nel suo animo inquieto: "Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!". In genere, la parola chiara e decisa di Lucia ha un peso fondamentale per tutti gli altri: anche quando Renzo la ritrova nel lazzaretto "quella voce soave" sta pronunciando parole di conforto per la mercantessa. Nella pagina conclusiva del romanzo, dopo il parlare saccente di Renzo, il narratore affida a Lucia le parole più significative: "e io, cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercare me. Quando non voleste dire... che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi". In conclusione, gli umili dei "Promessi Sposi" sanno parlare, ma possiedono limitati registri espressivi. Anche per questo motivo sono deboli di fronte a chi detiene con il potere una varietà e una ricchezza di parole che li relega ai margini della società. La parola scritta rappresenta per gli umili un ostacolo, che impedisce loro di difendersi, di farsi le proprie ragioni, di fornire o ricevere informazioni necessarie a risolvere i problemi della loro esistenza. Il non saper leggere o scrivere diventa una barriera insormontabile, che li esclude dal partecipare da veri protagonisti alla vita sociale. Renzo vive drammaticamente in prima persona questa dolorosa situazione: di fronte alla grida che Azzecca-Garbugli gli mostra nel suo studio, sembra che abbia un facile rapporto con il testo scritto. Segue a stenti la lettura, ma capisce bene e prende per sacrosante parole quelle della legge. Quando parla con chiarezza viene insultato e respinto; viene accusato di non saper parlare. Renzo non sa ancora distinguere la differenza tra il senso letterale della giustizia e la sua realizzazione: proprio dal dottor Azzecca-Garbugli apprende il distacco tra astratto e reale. La sete della giustizia e la fiducia nella legge sopravvivono in lui, tanto che a Milano si sbraccerà per difendere Ferrer, la cui firma aveva visto in calce alla famosa grida e, nel suo appello al popolo, sosterrà che "le gride ci sono... fatte benissimo", anche se sospetta che ci sia una lega che ne impedisce l'attuazione. In realtà Renzo non si fida della parola scritta, tanto più se essa assume una forma dotta: fin dall'inizio avverte un'insidia nel latinorum di don Abbondio, in "quel latino birbone... che viene addosso a tradimento, nel buono di un discorso". Per lui quel linguaggio ha qualcosa di magico e oscuro per il solo fatto di sentirsene escluso. Un sentimento analogo si riferisce ad ogni tipo di parola scritta e soprattutto al gergo legale, particolarmente sibillino. Il culmine dell'avversione di Renzo in proposito si esprime nel corso della sceneggiata nell'osteria della luna piena, quando, già mezzo ubriaco, dichiara guerra all'oste, che porta "carta, penna e calamaio" perché egli denunci le proprie generalità. La scrittura, per Renzo, è simbolo di un potere insindacabile dalla parte della povera gente e per di più è un labirinto di enigmi incomprensibili. Essa sostituisce il linguaggio naturale con uno artificiale, di cui solo i signori possiedono la chiave che consenta di decifrarlo. Il problema del rapporto tra lingua scritta e lingua orale riconduce all'analfabetismo: Renzo, situato socialmente tra i semipoveri, sa appena leggere qualcosa di stampato e fare la propria firma, ma non padroneggia né la scrittura né la lettura. Manzoni, tramite la situazione del personaggio, mette più volte in evidenza il legame tra strutture del potere e scrittura, criticando la cultura secentesca, compresa quella della Chiesa, che non si è occupata dell'alfabetizzazione del popolo. Renzo, nell'osteria della luna piena, incalza la sua polemica contro la cultura dei signori fino ad avanzare qualche sospetto sul lessico strano di Ferrer (deformando comicamente lo spagnolo del cancelliere), avvicinandolo al latino di don Abbondio, in quanto lingua incomprensibile al pari di quella. Renzo è però ancora ingenuo, per di più in preda al vino, tanto da farsi ingannare dal progetto dello spadaio per distribuire equamente il pane; un progetto, nota Manzoni, che era tutto fondato su carta, penna e calamaio. Calmatesi le acque a proposito del bando e delle ricerche della giustizia, Renzo, nascosto sotto il falso nome di Antonio Rivolta, tenta di riannodare le fila con Agnese e Lucia, desideroso di dare e ricevere notizia circa la propria e la loro salvezza. Agnese deve assolvere l'incarico sgradito affidatole da Lucia di far sapere a Renzo la nuova situazione derivata dal voto della fanciulla. Riuscire a comunicare è per i due una vera impresa: il dialogo epistolare tra i due illetterati risulta difficile e vago; la ricerca di uno scrivano fidato, il mezzo di trasmissione, l'accertamento del recapito, l'intimità del segreto, la chiarezza delle notizie sono tutti ostacoli da superare. La comunicazione avviene per persona interposta; in questo caso richiede l'intervento di un letterato, il quale pretende di interpretare e abbellire sia le notizie che deve trasmettere sia quelle che deve leggere. Questo spiega perché nel momento in cui Renzo riceve l'invito, questa volta chiaro ed esplicito, di mettere il cuore in pace e di non pensarci più, si impunti a saltare l'ostacolo e detti una nuova lettera, che serba intatto il furore appassionato della sua voce. Lo scrivano, nonostante la sua abilità tecnica, non sempre riesce a dire tutto quello che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro e Manzoni allarga la critica fino a comprendere se stesso, alludendo così, ironicamente, al problema della lingua che lo ha impegnato nella stesura del suo romanzo. Renzo, tramite le sue peripezie, arriva a capire che la parola scritta può essere strumento di potere, ma anche di informazione, e, come tale, elemento di difesa. Tant'è vero che per i suoi figli volle che imparassero tutti a leggere e a scrivere, dicendo che, giacché la c'era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro. In questo modo tenta di superare la barriera costituita dalla parola scritta, che lo ha affascinato, ma anche mortificato. Possedere la capacità di interpretare i messaggi altrui ed esprimere i propri è un diritto-dovere essenziale, in quanto consente l'integrazione consapevole nella società. Il sarto del villaggio non è un presuntuoso né uno sciocco, ma la cultura diviene per lui una piccola mania, innocua ma anche improduttiva: non gli serve a integrarsi nella società, in quanto vive in un mondo di analfabeti, ma resta l'elemento che rende l'uomo più forte e superiore agli altri. Quando dai modi affettuosi e cordiali, che lo rendono un personaggio umano, passa ad esibire la sostanza ricavata dalle letture, il suo linguaggio diventa artefatto: la guerra in atto assume i colori della storia dei mori in Francia, il castello dell'Innominato convertito diviene una Tebaide. Manzoni polemizza ancora una volta per un uso astratto e non vivo della cultura.
In conclusione, "Il libro di quel signore, che bello! Leggetelo e rileggetelo, ragazzi, sotto il banco, mentre il professore parla d'altro. Vi invito ad una lettura clandestina di Manzoni, come se fosse un libro proibito. Forse lo amerete" (Umberto Eco).
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