Una esperienza di lettura
di Jody Iabichino
Primo premio
Durante la lettura, si creò una profonda simbiosi tra me e Siddharta; mi sembrava quasi di capire come si pronuncia l'Om, la parola suprema, di saperla assorbire in me stesso, pronunciandola silenziosamente nell'atto di inspirare, e di saperla emettere nell'atto di espirare, con l'anima raccolta e la fronte raggiante dello splendore che emana uno spirito luminoso. Ma ancora non sapevo (nella profondità del mio essere) riconoscere l'Atman, l'indistruttibile e unico con la tonalità del mondo; perché ancora non capivo che di me stesso dovevo fare esperienza e che il mio Io era di natura ugualmente eterna di quella di Brahma, ma che non riuscivo ancora a trovarlo perché avevo voluto imprigionarlo con la rete del pensiero o cercarlo nel gioco dei sensi. Belle cose l'una e l'altra, il senso e i pensieri, dietro alle quali stava nascosto il significato ultimo; a entrambe occorreva porgere ascolto, entrambe occorreva esercitare, entrambe bisognava guardarsi dal disprezzare e dal sopravvalutare, di entrambe occorreva servirsi per origliare alle voci più profonde dell'Io. Ma più leggevo e più mi rendevo conto che io non sapevo ancora: pensare, aspettare e digiunare, e che senza queste tre cose non potevo essere come il mio maestro, perché lui, come una pietra che cade nell'acqua e raggiunge il fondo, sceglie sempre la via più breve.
Ed è la sua meta ad attirarlo a sé, poiché egli non conserva nulla nell'anima propria che potrebbe contrastare questa meta; ma probabilmente neanche ciò era importante. Quello che veramente lo differenziava dagli altri era l'amore, una delle tante dottrine che apprese e in cui si immerse, capendo che non si ottiene piacere senza dare piacere, e che ogni sguardo, ogni carezza, ogni contatto, ogni minima posizione del corpo sono il suo segreto, la cui scoperta avvia alla consapevole felicità. La ritualità dei gesti. Ma lui sapeva amare, venne da chiedersi?
No, lo possono gli uomini-bambini ed è quello il loro mistero; e lui li invidiava per l'angosciosa ma dolce felicità del loro stato d'innamorati, per questa gioia infantile e infantile follia, che aveva tentato di provare, immergendosi nella samsara e facendosi assorbire dal mondo del peccato. E d'ogni parte aveva assorbito in sé disgusto e morte, come una spugna succhia l'acqua finché è piena, fino a che fu sazio di miseria. Effimero è il mondo delle apparenze, e le ricchezze della vita mondana persero Siddharta; d'altronde, rapida si volge la ruota delle apparenze e rapida è la vicenda delle cose mortali. Ma tutto ciò non fu inutile.
Egli infatti dovette dimenticare l'unità del mondo, insegnatagli da Buddha, disapprendere il pensiero, lusingare i suoi sensi perché il sapere che la ricchezza rovina non basta, ma bisogna invece vivere tutto ciò, per poterlo sapere non solo con la sua mente, ma con i suoi occhi, con il suo cuore, con il suo stomaco, e poter quindi vincere la battaglia con il suo Io, in modo tale che il sacerdote, il samana, il Siddharta gaudente e quello avaro potessero morire. E poi ci fu il fiume, che fu il suo più grande maestro, e che mi fece capire durante la lettura a che cosa dovevo tendere.
Fu infatti da lui che Siddharta apprese veramente ad ascoltare, a porgere l'orecchio con animo tranquillo, con l'animo aperto, in attesa, senza passione, senza desiderio, senza giudicare, senza opinioni. Nulla fu, nulla sarà, perché la vita è anch'essa un fiume e soltanto delle ombre, ma nulla di reale separano il ragazzo Siddharta dall'uomo Siddharta e dal vecchio Siddharta. Tutto è, tutto ha realtà e presenza. E che sforzi dovetti fare per capire uno dei più grandi insegnamenti di quest'uomo: il tempo è la sostanza di ogni pena, di ogni tormento e di ogni paura. Tutto il male sarebbe stato superato, appena si fosse superato il tempo, appena si fosse trovato il modo di annullare il pensiero del tempo. Ma bisognava ascoltare ancora il fiume per capire le ultime verità, quelle che ci impedivano di raggiungere l'obiettivo. Già, perché nel frattempo era diventato anche il mio: arrivare alla suprema conoscenza.
Tutte le voci delle creature sono nel fiume e, quando si uniscono, diventano una cosa sola: Om; quindi per lui non era semplicemente dell'acqua, ma la voce della vita, la voce di ciò che è ed eternamente diviene. Una voce che si trasformò in risata quando vide il dolore di Siddharta di fronte ai capricci del figlio, perché egli non aveva mai potuto consacrarsi interamente ad una persona e ciò era ora una sorgente torbida per il suo cuore. Ma proprio ascoltando questo egli capì il pensiero dell'unità, sentì respirarla ed io con lui. E finalmente, alla fine di questa lettura, che non fu una lettura ma un vero e proprio viaggio dentro di me, capii che la saggezza non è nient'altro che una disposizione dell'animo, una capacità, un'arte segreta di pensare in qualunque istante, nel bel mezzo della vita, all'unità. Ma questa saggezza non è comunicabile, si può trovarla, viverla, farsene portare, si può fare miracoli con essa, ma dirla e insegnarla non si può, perché è una verità. E come tutte le verità anche questa è unilaterale, dimiata, priva di totalità, di sfericità e di unicità. E siccome il tempo è qualcosa di irreale, allora anche la discontinuità che sembra esserci tra il mondo e l'eternità, il male e il bene è un'illusione. E proprio ora, riflettendo su tutto ciò capisco un'altra grande verità di Siddharta: il mondo non è perfetto, o impegnato in una lunga via verso la perfezione: è perfetto in ogni istante, ogni peccato porta già in sé la grazia, e quindi l'unica cosa che importa è amarlo così com'è: amare il mondo e me, e soprattutto non smettere mai di cercare.
Già, perché a differenza di Siddharta il mio viaggio è appena cominciato. Naturalmente non so se raggiungerò mai la mia meta, ma non importa: nel frattempo comincerò a guardare se a Milano c'è qualche fiume che parla e ride.
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