La non dimenticanza
Ogni individuo per poter crescere culturalmente necessita di un maestro. Il processo di crescita può essere attivato anche mediante strumenti educativi non comuni (un libro, un'esperienza, un racconto...). Nostro compito è ricercare il maestro e imparare la lezione.
Lo scorso anno, su consiglio del mio professore di lettere, mi sono avvicinata all'opera Se questo è un uomo dello scrittore italiano Primo Levi.
Già nei ventitré versi liberi che precedono la narrazione è racchiuso un pensiero fondamentale che lo scrittore indirizza ai suoi lettori, imponendo loro la non dimenticanza.
Ricordo e non dimenticanza, non sono la stessa cosa. Tutti sanno il significato della parola ricordo, ma la non dimenticanza è cosa ben diversa perché racchiude in sé la memoria del passato, la consapevolezza di continuare a vivere nel presente e la speranza per il futuro.
Il romanzo è scritto con sensazionale bravura perché in uno stile sempre equilibrato e asciutto, senza retorica o suggestioni romanzesche. I racconti non seguono l'ordine cronologico in cui si sono svolti bensì quello del ricordo personale di un sopravvissuto a uno dei numerosi lager nazisti della Seconda Guerra Mondiale. Come dice lo stesso Levi "...lo scopo dell'opera non è formulare nuovi capi d'accusa" ma "fornire documenti utili per lo studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano".
E proprio su questo punto nevralgico, nel corso della lettura, mi sono posta svariati interrogativi. Soltanto dopo un'accurata riflessione sono riuscita a trovare una risposta. Troppo spesso oggi le colpe evitate allora vengono scaricate sulle menti malate di alcuni comandanti. Secondo me le parole pazzia, obbligo, ordine eseguito non hanno alcun senso, non sono scusanti accettabili. Tutto ciò che è accaduto non è stato frutto dell'improvvisazione perché seguiva un piano ben stabilito, studiato nei minimi dettagli, ragionato e infine attuato con uno scopo ben preciso: annientare gli ebrei.
Indigna sapere che non esisteva alcuna spiegazione logica nel morboso e incondizionato odio che i nazisti provavano per il popolo ebreo. I comandanti uccidevano persone sconosciute, innocenti in nome di un'idea di supremazia che imponeva loro l'annullamento di una stirpe tanto inferiore quanto quella ebraica.
Nelle pagine di Levi sono magistralmente descritti i macabri rituali di tortura. Una volta giunti al campo i prigionieri partecipavano ad un rituale di tosatura, di denudamento, di doccia, di vestizione, di tatuaggio e di allontanamento dai propri effetti personali, dal proprio nome, dalle persone care.
Uomini e donne venivano portati in campi diversi ma con gli stessi obblighi: uscire, correre, lavorare, entrare, dormire, morire e nessun diritto.
Come spiega Levi, testimone di quei tragici momenti, tutto si svolgeva nel più assoluto silenzio, nell'ordine, nella rapidità. Questi i tre limiti da non superare per non peccare (di una sorta di greca) nei confronti dei "divini" tedeschi e non subire la pena di morte istantanea.
Le condizioni di vita erano degradanti. Ai deportati non venivano forniti abiti e calzature decenti, letti, cibo, medicine. Nulla veniva loro riconosciuto eccetto il duro lavoro.
È chiaro che le risposte umane e psicologiche alla vita del lager erano differenti: purtroppo c'era chi entrava nell'ingranaggio di quella "vita" e ne veniva inevitabilmente schiacciato; c'era chi invece si sforzava di non pensare a quello che stava accadendo per non impazzire, chi moriva di stenti e chi, pur di sopravvivere, diventava un ladro e quindi un nemico.
Ma cosa c'era da rubare a quegli scheletri ambulanti con vaghe sembianze umane?
Ebbene veniva loro rubata una possibile speranza di vita che poteva essere un pezzo di pane, un vestito meno logoro del proprio, una coperta per superare un altro rigido inverno.
Periodiche e frequenti erano le selezioni, soprattutto per le camere a gas. Venivano eseguite per svariate necessità: trovare il posto per i nuovi arrivati, punire colpe inesistenti, perfezionare la mira su bersagli mobili....
Chi superava le selezioni viveva più a lungo, ma nella perenne e angosciante attesa di non essere in condizione di passarne un'altra ben sapendo che il loro destino era già stato segnato nel momento della cattura.
La speranza di riuscire ad uscirne vivi era insperabile.
Nessun sopravvissuto, come dice Levi, credeva di poter ritornare un giorno libero. Per questo motivo all'arrivo dei soldati russi nessun prigioniero ha istintivamente esultato nel veder le porte del campo aprirsi.
Pensavano fosse l'ennesima prova da superare, un trabocchetto nazista già in passato sperimentato e conclusosi con lo sterminio dei fuggiaschi.
Alcuni soldati hanno detto di essersi meravigliati nel vedere quella massa di individui inermi, apatici, incapaci di sorridere, urlare, correre, vivere e il gruppo dei bambini denutriti e tristi che non sapevano nemmeno cosa fosse la felicità e la libertà. Guardavano i soldati con occhi spaventati non sapendo che quelli erano i loro salvatori.
Nel campo vivevano molti bambini i quali venivano affidati alle madri se incapaci di essere autosufficienti e che passavano nel campo maschile una volta cresciuti. Per loro era ancora più difficile sopravvivere e crescere ma grazie alle premure dei genitori, se li possedevano ancora, riuscivano a mantenere un rapporto affettivo in quel luogo dove regnava soltanto l'odio, il disprezzo, l'orrore, la morte. Leggendo l'opera mi è capitato svariate volte di immaginarmi nel lager e di provare a pensare cosa avrei fatto.
Sarei sopravvissuta fisicamente a quelle disumane condizioni? E se sì, la mia anima come si sarebbe ridotta? Avrei odiato eternamente gli individui che mi avevano derubato della vita, della libertà, della identità oppure li avrei perdonati?
A questa domanda ho dato una possibile risposta. Perdonare è virtù umana ma che in questo caso non può venire considerata.
Il perdono può avvenire solo se esiste un sincero pentimento del colpevole del fatto.
Purtroppo quelle persone, se così si possono ancora chiamare, non si sono mai pentite.
Ancora oggi, durante i processi, gli esecutori materiali di quegli omicidi negano le loro responsabilità, alcuni osano negare persino l'esistenza dei lager negando così le migliaia di persone uccise, sepolte oppure bruciate e da loro dimenticate.
Personalmente ammiro la capacità di Levi nel raccontare cosa gli sia accaduto nel lager anno dopo anno perché una volta uscito da quel luogo poteva imboccare strade diverse: decidere di ricominciare a vivere "dimenticando", se mai ci fosse riuscito, quella tragica esperienza oppure viverla nel presente raccontandola agli altri. Molti sopravvissuti hanno voluto dopo la liberazione descrivere la loro Odissea oralmente per rendere immediati e visibili i sentimenti e le sensazioni provate allora. Modulando la voce e ripentendo i gesti hanno saputo riproporre la vita del lager.
Ma se come dicevano gli antichi "Verba volant" il libro di Primo Levi rimarrà sempre tra i documenti importanti di un'epoca, ossia un classico della letteratura della Resistenza.
Apprezzo la capacità dello scrittore nel restare fuori dalla storia personale e dalla soggettiva visione dei fatti.
È inutile dire che l'esperienza del lager ha segnato, modificando, tutti in modo indelebile.
Anche un uomo di scienza e intelligente come l'autore in questione non è riuscito a ritrovare un posto nel mondo, una dimensione in cui riprovare a vivere con l'incombente presenza dei ricordi passati. Dopo un tentativo di ritornare a vivere con la stesura di nuove opere, l'uomo Levi si è accorto di aver perduto quello spirito di sopravvivenza e di adattamento che lo avevano accompagnato e che si erano esauriti col passare del tempo.
Per questo decise di lasciare definitivamente quel mondo che tanto lo aveva deluso e fatto soffrire.
Se ne è andato lasciandoci però un compito importantissimo: ripetere le sue parole ai nostri figli.
Da brava discipula credo di aver imparato la lezione e per dimostrarmi coscienziosa di quanto appreso eseguirò il difficile compito impartitomi dal maestro.
Nell'attesa di poter un giorno ritrovare la parte più importante della mia storia personale e umana ad Auschwitz. Un viaggio che tutti devono fare perché necessario almeno una volta nella vita.
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