L'incontro con il diverso attraverso un'esperienza di lettura dal libro Chiamatemi Ali di Mohamed Bouchane
Durante la lettura del libro, cominciai a vedere il diverso camminare timido verso di me.
Inizialmente ne rimasi turbato e solo ora ne capisco la ragione. L'intelletto umano tiene infatti nell'ordine delle cose intelligibili, lo stesso ruolo che il corpo tiene nell'infinità della natura. Limitati in tutti i modi, questa condizione intermedia fra due estremi si riscontra in tutte le nostre facoltà. I nostri sensi non percepiscono nulla di estremo: troppo rumore ci assorda, troppa luce ci abbaglia, troppa verità ci stupisce e il più alto ingegno è accusato di follia al pari dell'estrema deficienza. Uscire dalla media significa uscire dall'umanità, e la grandezza dell'animo umano consiste nel sapervisi mantenere; essa consiste tanto nell'uscirne quanto nel non uscirne. Questa è la nostra vera condizione. Essa ci impedisce di sapere con certezza e di ignorare in modo assoluto, ed è inutile, dunque, cercare sicurezza e stabilità perché la nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nessuno può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono.
Comunque, nonostante la mia agitazione, egli continuò ad avvicinarsi e così potei scrutarne attentamente i lineamenti. Il suo viso era un origami di espressioni, dalle mille sfaccettature, e che era stato sagomato con lentezza indicibile dal provincialismo, dall'ignoranza e dal disprezzo di tutti quelli che lo avevano circondato durante la sua esistenza, i quali avevano scolpito irreparabilmente, simili a maestri scultori, il suo piccolo cuore.
Poi, mentre lo sguardo fu rapito dalla ritualità dei suoi gesti, la mente mi condusse in terre lontane, sotto coltri di stelle e immerso in un turbinio di profumi esotici: sentivo nell'aria aleggiare l'odore del tajin marocchino, intriso con quello di una miriade di spezie.
E in quell'attimo, capii che il diverso poteva essere per me un muezzin, cioè una guida spirituale, e che mi aveva già insegnato una piccola verità con quel viaggio mentale: la natura ha delle perfezioni per mostrare che essa è l'immagine di Dio, e dei difetti per mostrare che essa non è che l'immagine.
Assaporai quindi anche questa nuova conoscenza, che mi era stata offerta senza alcun timore, e il suo sapore inizialmente sconosciuto alla mia mente divenne poi dolce come il miele. Fu solo allora che appresi dal mio muezzin un'altra verità. Tutta la dignità dell'uomo consiste nel pensiero. È in esso che dobbiamo cercare la ragione per elevarci e non nello spazio e nella durata, che non sapremmo riempire, o nelle cose esteriori. La scienza delle cose esteriori infatti non mi consolerà dall'ignoranza della morale, in giorni di afflizione; ma la conoscenza di questa mi consolerà sempre dall'ignoranza delle cose esteriori. Bisogna lavorare a ben pensare: ecco il principio della morale.
In quel momento uccisi ogni pregiudizio, ogni pensiero superfluo, e attesi con animo sereno e in perfetta armonia con l'universo che il diverso mi desse altro, come un bambino che avuta la sua prima caramella attende di riceverne un'altra.
Poi, sentii l'irrefrenabile desiderio di guardarlo negli occhi, ma per far ciò capii che dovevo prima ripudiare il mio Io. L'Io andava ripudiato perché aveva due caratteristiche: era ingiusto in sé, in quanto si faceva centro di tutto, ed era incomodo agli altri, in quanto li voleva asservire: poiché ogni Io è nemico e vorrebbe essere tiranno di tutti gli altri. E in questo modo ognuno è tutto per se stesso perché, lui morto, tutto è morto per lui.
Una volta ucciso l'Io guardai quindi nei suoi occhi, e vi lessi il suo nome. Era haram. E per i musulmani haram è tutto ciò che è proibito, dissacratore e quindi male. Haram. Sentivo questa parola scorrere come un fiume dentro di me e ad ogni respiro, ad ogni pensiero, mi sembrava sempre più effimera. Effimera come il mondo delle apparenze e rapida, rapida come la vicenda delle cose mortali.
No, egli non era solo haram. Haram era quello che la maschera dell'apparenza mi faceva vedere; lui era anche halal, ciò che è giusto. C'era quindi una contraddizione e la contraddizione è un cattivo indice di verità: molte cose certe sono contraddette molte false sono accettate senza contraddizione. Né quest'ultima è indizio di errore, né la sua mancanza segno di correttezza.
Il diverso era quindi una verità. E come tutte le verità anch'egli era unilaterale, dimiato, privo di totalità, di sfericità e di unicità. In esso coesistevano bene e male, esattamente come coesistevano in me.
Quindi porsi nuovamente l'orecchio con animo tranquillo, aperto, in attesa, senza passione, senza desiderio, senza giudicare e senza opinioni. Ma lui si allontanò, e solo a quel punto mi accorsi che per riuscire a camminare aveva bisogno di essere sorretto, sorretto dall'unica cosa in grado di tenere in piedi un diverso: la fede. La fede intesa come consapevolezza di una precisa identità culturale vissuta con orgoglio. Sentii quindi a quel punto la necessità di fermarlo, per parlargli e porgli le mie domande, e lui rise. Rise per il mio affanno, che dimostrava quanto poco avessi capito: egli infatti era sempre stato e avrebbe per sempre continuato ad essere.
Ed ora, a distanza di tanto tempo, riesco a vederlo tutti i giorni intorno a me. Nel quotidiano, lacerante confronto con un altro stile di vita, con un'altra civiltà, si fa sempre strada la percezione di una diversità, e con essa anche la necessità di salvaguardare la propria dignità di uomo.
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