Un'esperienza di lettura
Ad introdurmi alla lettura del Vangelo era stata una ragazza che davvero in nulla mi sembrava legata alla religione. Quanto mi sbagliavo! Mi sbagliavo come, ho poi scoperto, hanno sbagliato e continuano a sbagliare da mill'anni tanti altri uomini. Prima di tutto era libera, leggeva senza farsi influenzare, parlava di ciò che lei stessa aveva pensato senza fregiarsi di riflessioni rubate ai più noti scrittori di aforismi, benché dalla finezza e dall'umanità con cui sapeva far risonare le note che più lievi celano il senso della realtà si potesse sospettare, a torto, che quelle parole non fossero del tutto opera sua.
Era bella ed ancestrale, sembrava una rosa rossa sbocciata nel bel mezzo di una distesa di neve, e proprio lì, nel mezzo di questa fredda stagione, l'inverno dello spirito, io la conobbi.
Era per me osservare una vera e propria contraddizione: conosceva a fondo la parola degli evangelisti e mi portava ad esame questioni attuali o di millenaria memoria, di carattere filosofico, etico; mi raccontava le parabole e me le svolgeva, meravigliato che tanta sapienza potesse accompagnarsi ad altrettanto vizio e sregolatezza. Passeggiavamo per le vie e le biblioteche, sorseggiando vino, oppure nei bar, immersi in una nuvola di fumo, le labbra macchiate da molti caffè. Io l'ascoltavo e sentivo crescere dentro di me la curiosità, il desiderio di conoscere anche io quella parola scritta così tanto tempo fa e che così tanti cuori ha consolato nella solitudine e nella malattia, sollievo per i dolori incurabili. Cominciai a leggere il Vangelo, la sera, dopo cena, alla tiepida luce della mia lampada. Leggevo e nel frattempo tenevo un diario in cui riponevo le mie riflessioni, o più semplicemente ricopiavo le parti che più mi piacevano, che più mi colpivano, che più mi riguardavano.
Da profano, apprezzavo il valore formale di quella scrittura così ridotta nell'estensione, eppure così completa nell'espressione. Sottile nelle metafore e nelle digressioni e profonda nella descrizione dei tratti psicologici, seppur con una così piccola quantità di particolari. Un versetto letto è un mondo a sé, nella stessa misura in cui lo è un giorno trascorso, nei nostri ricordi, nell'arco di una vita. Scoprivo come leggere quelle poche righe la mattina presto, prima di entrare a scuola, fosse un gettare semi che avrebbero portato reticoli di fruttifere riflessioni. Quando arrivai al vangelo di Giovanni, poiché ormai conoscevo la storia, prestavo più attenzione all'aspetto estetico di quella scrittura. Man mano che proseguivo, sentivo un profondo senso di quiete, abbandonato alla dolcezza delle parole del Cristo, che faceva della più dolorosa delle privazioni un nobile traguardo, un ulteriore gradino salito, nell'ascesa verso quella felicità che deve scaturire da ciò che abbiamo dentro, da ciò che siamo. - Io ti darò una fonte inesauribile - diceva ad una donna che attingeva l'acqua dal pozzo - così che tu non abbia più sete.- In una riflessione gettata sulla carta del diario durante un viaggio in metropolitana (lo ricordo dalla calligrafia instabile) esaminavo questo aspetto che, paradossalmente, si ritrova tanto in Gesù Cristo quanto in Nietzsche. L'idea che nulla di ciò che tu possa comprare o possedere potrà mai renderti felice, così come nessuno potrà mai strapparti la felicità, se essa è radicata dentro di te. Sebbene trascorressi molto tempo a riflettere di come le parole di Cristo fossero un patrimonio di chi le avesse lette e che avrebbero potuto essere per noi uno scrigno protettivo contro qualsiasi sfortuna ed avversità durante tutta la vita, non riuscivo a sentirle davvero mie. Il motivo era ovvio: mi mancava la fede.
Decisi che sarei andato a Roma, forse proprio per cercare questa fede; ma non per farla mia, non era il possesso che cercavo. Il mio intento è sempre stato quello di osservare, solo osservare, perché volevo capire, sicuro che una volta compreso questo arcano, qualcosa sarebbe cambiato dentro di me. A chi mi domandava quali fossero le ragioni del mio viaggio, rispondevo che la notizia di un'imminente morte del papa mi aveva mosso il desiderio di vederlo per una prima ed ultima volta e di non aspettare che questa opportunità fosse perduta.
Dopo una notte trascorsa tra pub e saloon, io e lei partimmo che Milano era immersa ancora nell'umida indolenza del mattino. Giunti a Roma, facemmo un rapida colazione degna della nostra inclinazione dandy: abbondante di zucchero, caffè e discorsi frutto della mistica intesa di chi ha trascorso insieme una notte bianca, consapevoli della lunga giornata che ci attendeva. Giunti alle mura di S. Pietro, in quella uggiosa domenica di Pasqua, affluimmo in un torrente di persone d'ogni età e colore; da ogni angolo della terra venivano e in ogni angolo della terra pregavano nello stesso momento. Per alcuni istanti mi sembrò di provare quella stessa sensazione che provai da bambino, che mi percorse il corpo dalla testa ai piedi e che mai dimenticherò, quando entrai in una chiesa che non avevo ancora otto anni e, come ipnotizzato dal rosone di fronte a me, avanzavo lentamente tra le panche di legno scuro nel mezzo della navata e nel silenzio maestoso di quell'altezza sconfinata credetti davvero di sentire la grandezza di Dio.
In piazza S. Pietro, gremita, mi guardavo intorno e rispetto a ciò che mi ero immaginato essere una moltitudine di fedeli, vedevo ben poco. Erano infatti pochissimi gli uomini che indossavano vesti da prete, e seppure fossero un poco più numerose erano poche anche le suore. Avevo attorno a me svariate migliaia di persone normali. Ma non appena individuai una figura vestita di abiti candidi e quasi reali, che mi sembrava appartenere un poco più a questo paesaggio, mi diressi in quella direzione.
La ragazza mi strinse il braccio e mi trasse a sé:
- Sei matto?! Tu non sei battezzato, è peccato -.
Davvero non capii che cosa intendesse per "peccato".
- Mangiare l'ostia senza essere stato battezzato e confessato è una profonda mancanza di rispetto.
In quel momento l'uomo vestito di candidi abiti regali trasse da una coppa dorata un piccolo tondino bianco e lo innalzò al cielo, guardandolo intensamente e sussurrando qualcosa a fior di labbra. Improvvisamente la folla iniziò a dirigersi verso di lui ed anche io venivo trascinato via. Attorno a me vecchiette incallite, alte poco più di un metro e mezzo spingevano, determinate a raggiungere la mano che trionfalmente alzava quella meraviglia in terra. Uno strattone provocato da una di queste mi fece perdere definitivamente la mano della ragazza e nei due minuti che intercorsero tra il momento in cui la persi di vista ed il trovarmi di fronte al sacerdote, riflettei sulla mia vita. Come in quei momenti dove pochi secondi sembrano ore, cercai qualcosa che nella mia persona, nel mio carattere, nel mio essere potesse in qualche modo infangare o anche solo discostarsi da ciò che avevo letto nella parola dei vangeli. Certo anche io, come tutti d'altronde, avevo "peccato" , ma già da molto prima di leggere quei testi avevo cercato dentro di me e qualora mi fossi reso conto di aver agito nel male, tutte le volte davvero avevo ammesso a me stesso di aver sbagliato. E quanto ero maturato attuando questa autoanalisi! Tutte le altre volte avevo agito in buona fede e qualora le cose non fossero andate per il verso giusto, potevo solo rammaricarmene, ma non potevo certo punirmi o condannarmi! Mi attraversò la testa il pensiero della confessione nel camerino, in un anfratto di una chiesa, e mi parve una cosa profondamente assurda; credo che ognuno di noi con un pizzico di sincerità possa rendersi conto quando è responsabile di un "peccato" e quando non lo è.
Mi trovavo ora di fronte a quell'uomo vestito di bianco e, seppure ancora titubante, sporsi in avanti il capo e aprii la bocca . Nel mentre in cui alzavo la testa, rivolsi gli occhi al cielo e fu in quel momento che per me il tempo si fermò. Vidi un banco di nuvole bianche placidamente navigare in un mare turchino. Mi sentii invadere da una profonda tranquillità e, rassicurato nei miei dubbi da quella visione serena, senza più esitazioni accolsi nella mia bocca il corpo di Cristo.
Provai una profondissima e diffusissima sensazione di disgusto nello sciogliermi in bocca quella cosa insapore, che assunse i gusti più diversi, assecondando gli svariati pensieri che attraversarono la mia mente. Sapeva di ossa, di legno, i miei denti erano diventati i sigilli di una tomba polverosa, quell'ostia aveva il sapore dei sotterranei di quella piazza, aveva il sapore delle cose non dette. Sebbene non avessi nulla di cui vergognarmi, provai dentro di me quelle stesse sensazioni che si percepiscono quando si viene scoperti nell'aver mentito per avvantaggiarsi, per svantaggiare o per vincere senza merito. Questa fu la sensazione più lucida che riuscii a decifrare.
Circonfuso in questa meditazione, in silenzio ritornai da lei ed in silenzio ci dirigemmo là, da dove avremmo potuto vedere bene, qualora si fosse affacciato, il Vicario di Cristo. Trovata una postazione favorevole, attendemmo, ognuno coi propri pensieri, incontrando di tanto in tanto l'uno lo sguardo dell'altra, mentre intorno a noi il popolo di Dio fremeva e palpitava. Nel frattempo mi ero già distratto dai miei pensieri e come spesso accade quando sei in mezzo alla gente, accompagnato dal brusio che ronzava intorno a me, mi trovavo da tutt'altra parte. Poi le tende si aprirono ed a quel punto accadde una cosa che non dimenticherò mai: il braccio di ogni persona che avevo vicino e lontano da me scattò in alto, proteso verso l'uomo che si mostrava tra i drappi rossi, nella sua veste bianca; braccia dritte, immobili. In quel momento rividi le foto sui libri di storia, i tedeschi ed il Führer ai comizi di Norimberga.
Tutto il circostante mi parve simile a quell'immagine, tranne che per la non trascurabile differenza che costoro, i fedeli, invece della mano tesa, tendevano una telecamera o un telefonino, scattando fotografie ad un uomo vecchio, fragile e malato, a cui la voce si era ridotta a poco più che un conato. Un insostenibile ritratto della sofferenza, loro lo osservavano traverso uno schermo. Non voglio aggiungere altre parole poiché credo che la fotografia che io porto nel cuore e che qui tento di descrivere sia di per sé abbastanza eloquente. Durante la mia vita, molte volte avevo guardato negli occhi la gente che mi parlava di Dio e dentro di essi avevo cercato, senza mai trovarla, quella fede che a me manca e che da molti indizi temo, mio malgrado, rimarrà sempre un mistero. Ancora adesso mi capita di farmi attirare dentro a una chiesa da quell'atmosfera silenziosa e quieta, di avanzare lentamente nella navata e tra le panche di legno lucido e scuro, tra le statue e le vetrate, le colonne e i candelabri, ancora adesso mi capita di cercare Dio. Ed è in quei momenti che mi rendo conto che quella ragazza così libera e bella, così spregiudicata e verace, così profonda ed ancestrale, con quei suoi modi solo all'apparenza leggeri e talvolta superbi, volti a dissimulare la saggezza che cela, era forse l'interprete più riuscita del libro sacro.
Il suo nome è Gloria.
Io che speravo di trovare la fede recandomi a S. Pietro, ho finito col non trovarne più di quanta non ve ne fosse nel più disilluso dei sognatori. È là, nella sede della Chiesa, che ho trovato un luogo di creazione di forti dogmi e regole che non possono esprimere il valore della vita, poichè essa è distensione, eccezione, ma soprattutto è contraddizione. Gloria aveva capito come nella contraddizione vi sia uno degli aspetti fondamentali della nostra vita. E come lei è una commistione di caratteri antitetici, così pure io altaleno tra Gesù Cristo e Nietzsche e così pure la Bibbia stessa è una monumentale e continua contraddizione, ed è forse proprio per questo che è la cosa più vera.
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