Un'esperienza di lettura da "Cent'anni di solitudine" di G.G. Marquez
Una volta finito Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez mi è pianto il cuore, e quasi quasi lo rileggevo. Mi dispiaceva il non poter più compiere le vasche di parole fluenti che ero solito farmi, la sera, con questo capolavoro.
A dire la verità, della trama non ricordo un granché: si tratta d'un romanzo tanto zeppo d'accadimenti che non potrei conseguire lo scopo rileggendolo altre due volte.
Ricordo invece l'atmosfera: Cent'anni di solitudine ha un impianto corale. I personaggi continuano ad essere da quando sono nominati per la prima volta alla fine del libro e poi oltre nella memoria, mai da soli ma sempre in mezzo agli altri.
Sono tutti un po' tristi, con un'irrimediabile ostinazione nel voler raggiungere scopi anche quelli un po' tristi: come il vecchio e corpulento José Arcadio Buendìa, che inizia a cercare il modo per fotografare Dio. Poco dopo è legato a un castagno, dove rimane per cent'anni anche se muore prima. Il personaggio che preferisco è il più disperato, il Colonnello Aureliano Buendìa, che promuove trentadue insurrezioni armate e le perde tutte, sopravvive ad un tentato omicidio, a settantatré imboscate e ad un plotone di esecuzione, per finire la sua vita a modellare pesciolini d'oro nella vecchia magione di Macondo. In amore egli è ancora più triste: si innamora di Remedios, ancora bambina, che muore pochi giorni dopo il matrimonio.
Una solitudine miserabile lo circonda. Ad un certo punto della sua carriera militare, Aureliano ordina che nessuno si avvicini a meno di tre metri di distanza da lui, perché ha paura che si possa attentare alla sua vita. E muore solo, dopo aver visto passare un circo che non gli ha trasmesso nessuna allegria e che, anzi, ha definitivamente consolidato la sua sensazione di triste solitudine; muore orinando, appoggiato al castagno dove è legato il fantasma di suo padre, che sussulta quando sente il getto caldo su un piede. Nessuno si accorge della sua mancanza, fino al mattino successivo: il suo corpo rimane là, sulla strada assolata e polverosa che dà sul patio della grande casa dei Buendìa. Se il Colonnello Aureliano Buendìa è il simbolo della solitudine, e in quanto tale dà il titolo al romanzo, anche le altre figure rappresentano diversi "topos" umani, dei modelli, tutti incentrati su una caratteristica o condizione dell'uomo: così, il capostipite José Arcadio Buendìa è il simbolo di coloro che si gettano a testa bassa in imprese impossibili, per disilludersi, poi, in modo brusco; l'Autore si concentra solo su questo messaggio, e su questo insiste: José Arcadio Buendìa chiude gli occhi, è volontariamente cieco, quindi non vede il muro che ha davanti, e ci sbatte contro, e si fa male. Al contrario, la moglie Ursula rappresenta chi si áncora così saldamente alla realtà da dimenticarsi anche di essere morto.
Una parte molto affascinante del romanzo è la rivalità fra le due sorellastre, Rebeca e Amaranta, perché inserisce, in un contesto surreale, un argomento saldo, ben noto, quotidiano: le smanie amorose di noi giovani, che ci spingono a rinunciare a rapporti anche importanti in nome di un altro, irraggiungibile; lo scrittore l'ha reso bene facendo suicidare Pietro Crespi, il giovane italiano oggetto della loro contesa.
Cent'anni di solitudine, nel fascino perfetto del suo narrare, tratta con naturalezza fatti surreali, scandalosi, fantastici o semplicemente esagerati. È il trionfo dell'armonia tra testo e materia trattata. Le situazioni che si creano sono tutte pervase di un gusto compiaciuto di raccontare, fagocitano un fervente desiderio di leggere ancora di più, di avere ancora di più: come quando si mangia qualcosa di così buono che vien voglia che ce ne sia il triplo. Ognuna delle pagine ingiallite, fitte delle letterine tondeggianti della Feltrinelli, mi dava un attimo intenso di convulsa eccitazione affascinata, poi passavo all'altra, ingordo di divorare anche quella. Il libro dà una nitida sensazione di ballata dei tempi antichi che infonde un calibratissimo avvicendarsi di malinconia e inesauribile allegria.
Prima di decadere con l'arrivo della società bananiera, Macondo era un paese favoloso dove nessuno aveva più di trent'anni e non era mai morto nessuno. Ho sentito dire che negli anni sessanta, quando è uscito Cent'anni di solitudine, Macondo era guardato come un luogo ideale dove tutti avrebbero voluto vivere. Io appartengo alla generazione successiva, ma il paese che fa da sfondo a questo libro ha sortito in me lo stesso effetto. Molto belle, ricche di affascinante amarezza, sono le pagine finali: al primo Buendìa, sotto il castagno, si affianca idealmente l'ultimo suo discendente, mangiato delle formiche. E allora si alza il triste vento predetto da Melquiadez, il misterioso zingaro mago e profeta, che spazza via Macondo dalla terra. Come se tutto quello che è stato narrato prima non fosse servito a niente; forse ad appagare il bisogno di raccontare che opprimeva l'Autore, il grande Marquez, al quale io sono effettivamente grato.
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