Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
8ª edizione - (2005)

Un'esperienza di lettura

 

Molte delle mie estati sono animate da un'attività che ritengo sia non solo di grande utilità per la scuola, ma che mi possa fornire anche una grande cultura e conoscenza per la vita: leggere. Ho letto molti libri che mi potrebbero fornire diverse idee su come fare questo concorso letterario, ma in particolare mi è rimasta molto impressa la storia di una ragazzina più o meno della mia stessa età, ma con la sola "colpa", se così la vogliamo chiamare di essere nata in un paese devastato dalle guerre, che per avere ciò che per noi, nati nella parte "privilegiata" del mondo, consideriamo naturale deve essere tenace a non perdere mai la speranza. Sotto il burqa e Il viaggio di Parvana, scritti entrambi da Deborah Ellis, raccontano sulla base di storie vere l'infanzia difficile a cui molte ragazzine furono sottoposte prima di diventare donne, continuando a sperare e ad assaporare il giorno in cui avrebbero potuto definirsi LIBERE.
Fino a qualche tempo fa l'Afghanistan era un paese lontano, devastato dalla guerra civile tra i talebani e l'Alleanza del Nord, che si consumava tra battaglie e infinite privazioni per la popolazione civile, di cui si sapeva poco, pochissimo. Non era un argomento da prima pagina. Poi, l'11 settembre 2001, l'attentato alle Twin Towers di New York. E una nuova guerra, la guerra degli Stati Uniti e dei loro alleati contro il responsabile del misfatto, Osama bin Laden, un ricchissimo arabo accusato di finanziare e sostenere il terrorismo, e contro i talebani che lo nascondevano e lo proteggevano proprio là, in Afghanistan. È stato così che in breve tempo parole come burqa, talebani, Kabul sono diventate note non solo agli adulti, ma anche a bambini e ragazzi. Questo libro racconta alcuni mesi della vita di una ragazzina a Kabul. È una vita immaginata, ma basata su racconti di vite vere. Non sappiamo cosa succederà all'Afghanistan alla fine della guerra, se avrà un nuovo governo che rappresenti tutte le popolazioni che lo abitano. Non sappiamo cosa succederà a tutte le Parvana, alle Nooria, alle Shauzia che vivono laggiù. Né cosa sta succedendo loro adesso. Possiamo solo sperare che, come Parvana, guardino sempre avanti: col chador, o sotto il burqa. Ma avanti. Leggendo questo libro nelle torridissime giornate estive mi sono resa conto di tante cose; quando sono arrivata all'ultima pagina mi sono passate davanti in una frazione di secondo tutte le volte in cui nella mia vita mi sono lamentata per cose di poco valore, pensando sempre che nell'esistenza umana si possa avere di più, senza essere a conoscenza delle situazioni drammatiche che esistono nel mondo, intorno a noi stessi anche non andando troppo lontani. Crescendo ho capito che una sindrome diffusa nel "bel mondo" è quella dell'apparenza, che contagia la maggior parte della popolazione, per la quale purtroppo non è ancora stata trovata una cura efficace. Questo libro mi ha commossa soprattutto nelle ultime pagine, quando Parvana e la sua compagna di sventura e amica Shauzia si fanno una promessa: di incontrarsi trent'anni dopo, finalmente libere, sulla Torre Eiffel, a Parigi, simbolo per loro di speranza e fiducia di non dirsi un addio, ma solo un arrivederci; Parvana deve partire per ritrovare la madre e i fratelli, già partiti tempo prima. Si prepara così ad affrontare un viaggio lungo nel deserto insieme a suo padre, anch'egli reduce da esperienze drammatiche. Il pezzo citato ha suscitato in me sensazioni così forti non semplicemente perché l'addio, o meglio l'arrivederci a una prossima volta sono di norma scene "strappa lacrime" come vengono chiamate. No, in questo arrivederci c'è qualcosa di diverso, di mirabilmente straordinario: è la forza di volontà che hanno due semi-adolescenti, che in una città occidentale andrebbero normalmente a scuola la mattina alle otto, lamentandosi dei troppi compiti pomeridiani, piuttosto che uscire in compagnia a prendere un gelato o a giocare con le amiche. La forza, che bella dote; e la forza più bella che esiste è la forza di volontà che proviene dall'interno dell'anima e che molte volte fornisce la possibilità di guardare avanti, in qualunque situazione ci si trovi. Spesso ho immaginato di vivere in un paese in cui donne e ragazze non possono uscire di casa senza essere scortate da un uomo. Ho immaginato di dover indossare abiti che coprano ogni centimetro quadrato del mio corpo, viso compreso. Questa è la vita in Afghanistan. Questa è la vita a cui si ribella Parvana, soli undici anni, che ora porta il chador e un giorno, molto presto, dovrà portare il burqa come sua mamma e sua sorella. Ma Parvana è forte, e lotta per sé e per la sua famiglia. Si taglia i capelli, si traveste da ragazzo e lavora. Per tutti. Per sé stessa. Per cambiare le cose. Seguendo la vita di questa ragazza, ma come lei tante altre, godendo di molti privilegi, che per Parvana rimangono sogni nel cassetto, si può soltanto non smettere e non stancarsi mai di sperare che un giorno non molto lontano, anche le nostre amiche afgane possano assaporare il gusto vero della vita in qualità di donne e di esseri umani con eguali diritti e doveri. Si immagina che dopo una conclusione così ricca di tenerezza e passione ci sia un proseguimento sulla storia della vita di questa ragazzina, raccontato nella seconda edizione intitolata il viaggio di Parvana, vincitore del Premio Andersen 2002, seguito di Sotto il burqa. Parvana, la coraggiosa ragazzina protagonista delle molte avventure sopra citate, è rimasta sola nel deserto dell'Afghanistan. Suo padre è morto. E ora Parvana non sa dove andare: vuole ritrovare a tutti i costi la madre e i fratelli, ma potrebbero essere ovunque. I pericoli sono molti, per una ragazzina sola vestita da maschio: i talebani potrebbero catturarla e scoprirla; il deserto è disseminato di mine; dal cielo cadono bombe. Durante il suo viaggio verso chissà dove, Parvana prende con sé un bambino piccolo, un arrogante ragazzino che ha perso una gamba, e una bimbetta temeraria. Tutti soli come lei. Bisogna mangiare; coprirsi; sopravvivere; trovare la forza di andare avanti. Questo libro ha suscitato in me un grande dolore per la vita che una ragazzina di soli undici anni e altri bambini anche più piccoli sono costretti a intraprendere; ma tutto ciò mi ha dato un interesse nuovo, cioè di non fermarmi alle pagine di un libro, ma di scoprire di più riguardo alle condizioni di un popolo, uno dei tanti a questo mondo devastato dalle guerre, molto sfortunato. L'Afghanistan è un piccolo paese dell'Asia centrale. Il paesaggio è caratterizzato dalla catena montuosa dell'Hindu Kush, da rapidi corsi d'acqua e da deserti dorati. Le sue fertili vallate un tempo producevano in abbondanza frutti, grano e ortaggi. Nel corso della storia, conquistatori ed esploratori hanno sempre visto l'Afghanistan come una via d'accesso verso l'Estremo Oriente. L'Afghanistan è in guerra dal 1978, quando gli eserciti filoamericani si opposero al governo filosovietico. Nel 1980 l'Unione Sovietica invase l'Afghanistan e le operazioni belliche si intensificarono da entrambe le parti con bombardamenti e l'impiego di armi moderne. Dopo che i sovietici lasciarono il paese nel 1989, scoppiò una guerra civile tra i vari gruppi politici per il controllo del paese. Milioni di afgani divennero rifugiati politici e tuttora molti di loro vivono nei campi profughi in Pakistan, in Iran e in Russia. Molti hanno trascorso tutta la loro vita in questi campi. Milioni di persone sono state uccise, mutilate, accecate. I soldati talebani, un esercito di estremisti, occuparono la capitale Kabul nel settembre 1996. Imposero leggi molto restrittive per le ragazze e le donne. Le scuole femminili furono chiuse e venne proibito alle donne di lavorare; furono imposte severe regole per l'abbigliamento. Vennero bruciati i libri, distrutti i televisori, e fu proibita la musica in ogni sua manifestazione. I talebani massacrarono migliaia di loro oppositori, molti dei quali civili, e ne imprigionarono molti altri. Anche se oggi i talebani non sono più al potere in Afghanistan, più di vent'anni di guerra hanno devastato il paese. Ponti, strade e centrali elettriche sono andati distrutti. Poche persone in Afghanistan hanno acqua potabile. Tutti gli eserciti hanno disseminato mine antiuomo nei terreni agricoli, in modo da rendere impossibili le coltivazioni. Di conseguenza, molte persone muoiono di fame, o in seguito alle malattie causate dalla malnutrizione. Il più importante segno di speranza in Afghanistan è dato dalla riapertura delle scuole: tutti, bambini e bambine, adesso hanno diritto a ricevere un'istruzione. La terribile povertà e la distruzione del paese fanno sì che la popolazione abbia bisogno dell'aiuto di tutto il resto del mondo affinché nel paese possano essere costruite scuole e garantiti i servizi di base. Con questo aiuto, il popolo afgano sarà in grado di ricostruirsi una vita, e ricominciare a sperare. Nonostante questa situazione ancora avvolta dalla precarietà, non si può fare a meno di sperare e di immaginarsi un Afghanistan nuovamente ricco di campi biondeggianti di grano, attraversati di tanto in tanto da rapidi corsi d'acqua dalle acque cristalline, con bambini e bambine che dopo la scuola giocano e si divertono tutti insieme. Un sogno? No, la forza di continuare a sperare e guardare avanti in qualsiasi situazione ci si trovi. È passato un po' di tempo da quando ho letto questi due libri e mi ricordo ancora nitidamente i sentimenti che ha suscitato in me la lettera di Parvana alla sua amica, piuttosto che il tragico modo in cui è morto suo padre, nel deserto, lasciandola sola; un angoscia mista a tristezza, la voglia di piangere per poter sciogliere quel "nodo" creato da queste letture che impedisce addirittura di parlare, la speranza di poter dimenticare o far finta che tutto questo non esista davvero, che sia stato il risultato dell'esagerazione degli scrittori e dei giornalisti. Il senso di impotenza di fronte a certe stragi dell'umanità davanti alle quali tutti siamo soltanto dei piccoli granellini di polvere, inutili e superficiali. Entrambi questi libri mi sono piaciuti, certo trattano di argomenti complessi, che richiedono un fitto ragionamento prima di arrivare a capire che cosa abbia spinto l'autrice a realizzare queste opere. Probabilmente vuole denunciare qui, nel mondo benestante, dove non manca nulla, i crimini e le ingiustizie che vengono commessi in gran parte del mondo e portarci ad esempio un territorio specifico della terra. Una storia di grande, struggente attualità che ci rivela come può essere difficile l'infanzia altrove, ovunque, dove non c'è confine al peggio e dove non ci sono parole per fermarlo o in qualche modo trovare un rimedio accettabile. Ho scelto di incentrare il mio testo per il concorso su questi due libri in quanto ho rivissuto, o meglio, scoperto più approfonditamente, l'altra "faccia" del mondo. Qui si vive con i ritmi della grande città, a scuola, al lavoro, a casa, in compagnia di amici, colleghi, conoscenti; spesso si trova l'occasione di ridere anche per cose molto banali, per provare il vero gusto del divertimento o soltanto per fare qualcosa di "diverso". Capita anche a me tutti i giorni tra l'ansia di un compito in classe e lo "sconforto" di tornare a casa il pomeriggio e di vedere la pagina del diario occupata dagli appunti presi per meglio adempiere alle richieste degli insegnanti, di ridere, scherzare, di sbagliare. Poi, quando mi è possibile, ritaglio qualche ora per poter scrivere e terminare questo testo, capisco davvero il senso e l'importanza della vita, della fortuna vera; è come se mi isolassi dal resto del mondo in una dimensione particolare e mi immedesimo nella parte di me nata in Iraq, in Afghanistan piuttosto che nella bellissima Africa. (Io adoro l'Africa intera come continente). In occidente le ragazzine di undici anni frequentano normalmente la scuola media, come è giusto che sia, mentre qui si tratta della storia toccante di un undicenne che vive a Kabul per avere una vita normale, niente di così strano o impossibile da chiedere, per me che ho una vita come la vorrebbe la protagonista di questa storia. Nel momento in cui finisco di scrivere e quindi automaticamente esco dal mondo nel quale mi ero rifugiata capisco veramente di essere nata sotto una buona stella e qualsiasi pretesto mi si presenti davanti causa di un eventuale litigio o che in qualche maniera mi incupisca la giornata so come affrontarlo e che importanza attribuirgli. Posso perciò affermare che questi libri mi hanno lasciato un patrimonio molto prezioso, e come a me penso l'abbiano lasciato a tutti quanti li hanno letti. Parlo di un patrimonio morale e mnemonico, che permette di valutare la vera gravità delle diverse situazioni che la vita ci mette a disposizione; custodirò per sempre sentimenti come l'amarezza e l'incapacità di capire perché al mondo vengono commessi tali crimini, affiancati alla parziale serenità di sapere che ci sono ragazzine che, come Parvana guardano sempre avanti dal burqa o dal chador e trovano la forza di proseguire quel bellissimo quanto faticoso viaggio che si chiama vita. Nel mio scrigno conservo anche il "mistero" che mi fa sempre domandare per quale ragione io e molti altri milioni di persone come me sono nate con la possibilità di sfruttare delle giornate di quella tanto cercata e desiderata vita normale, secondo quale criterio noi siamo stati scelti al posto di altri, viviamo così bene da vivere due volte, anche per chi non ne ha avuto la possibilità. Nonostante ciò anche qui i telegiornali e i mezzi di comunicazione non risparmiano di metterci al corrente di tanti avvenimenti negativi; spesso mi sento dire "tu sei fortunata perché non sei ancora cresciuta e non hai modo di confrontarti con i problemi che reca il lavoro nelle banche o nelle assicurazioni...". Infatti negli uffici non posso lavorare ma è falso che non posso confrontarmi con la sofferenza vera, in quanto se tale è non la si sperimenta sul posto di lavoro, per quanto l'afflizione possa essere sconfinata. Si comincia a parlare di sofferenza quando vengono chiamati in gioco i sentimenti che un essere umano prova nella sua vita. Va bene perciò, continuerò, sino a che sarà il momento, a fare la parte della ragazzina ingenua e inesperta sotto questo punto di vista, quella che il mondo di adulti vuole vedere, ma che in realtà non è; è solo una maschera quella che spesso si è costretti a indossare, costretti perché lo impone la società, per continuare a vivere in essa. Quello che posso dire è che gli adulti si "vantano" per aver vissuto molto di più di un individuo più giovane e per questo (non parlo di tutta la categoria, ma solo di alcuni che mi è capitato di sentire) si credono "onnipotenti" e in diritto di fare qualsiasi cosa sia loro gradita, spesso anche offendere ed essere irrispettosi. No, non è necessario avere la maggiore età e qualche anno di esperienza per sentirsi in diritto di fare tutto ciò che piace, ma soprattutto non è necessario essere adulti e grandi per dichiarare di conoscere la sofferenza e di essere in grado di confrontarsi con essa, o addirittura tenerla sotto controllo, perché infatti la grandezza, intesa in tutti i sensi di un essere umano, si misura in base a parametri molto più importanti.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010