L'ultimo viaggio di Ulisse
Ci sono storie che noi non capiremo mai.
Come quella dell'uomo che siede sulla panchina, in braccio alla notte, e guarda la città ripiegarsi su se stessa, i vicoli inseguirsi, e ascolta il silenzio che disperatamente cerca di por fine a se stesso.
Aspetta. Così, gli occhi fissi sulla luna, un corpicino inerme ai suoi piedi: non importa se c'è chi lo attende, a casa; non riconosce la figlia che gli passa davanti, le scarpe slacciate e una bottiglia in mano. Aspetta.
Ci sono attese che non potremmo mai sopportare: quell'uomo è così ridicolo, così vuoto, così perdutamente perso nel buio e nell'angoscia delle sue notti bianche... io credo che conosca tutto. Credo abbia visto tutto. Ogni singolo respiro, ogni singolo gesto di quella città addormentata: potrebbe ripeterli senza fatica, se soltanto volesse; potrebbe rievocare le immagini di una vita intera trascorsa in viaggio, senza neppure comprenderne il motivo. La meta.
Certo, non gli era mai mancata: continuamente, dieci, cento, mille volte aveva fatto rotta verso casa; si era stufato di tutti quei mondi. Di tutte quelle regge, di tutte quelle donne così diverse, eppure così simili... ricordava il profumo dei loro capelli. Il gusto pungente delle loro labbra, dei loro baci. Non aveva mai trovato nulla di più sublime, forse, ma neppure così gli erano bastate. Era tornato da sua moglie, da sua figlia, dal suo cane che non aveva mai smesso di abbaiare per illudersi che il padrone c'era, era vivo; Dio, quanto gli era spiaciuto che fosse morto proprio lì, ai suoi piedi! Era rimasto a contemplare la salma del suo custode senza accorgersi che il tempo passava; sua moglie non lo vide, quando si affacciò alla finestra. O forse lo vide, e lo credette un mendicante che cercava di privare un povero animale del suo osso finto. Non lo riconobbe, e l'uomo non disse nulla.
Prese con sé il cane. Trovò la panchina. Si sedette.
Le sue notti bianche cominciano tutte così, con un cadavere ai piedi e gli occhi puntati sul nulla. Io credo che stia ripensando a tutto.
Che voglia trovare qualcosa, in questo silenzio, in quest'afa cittadina, in quest'ansia di fuggire che anima le strade, i muri delle case, i vasi di fiori alle finestre. Intendo qualcosa di diverso.
Altro da tutti i mondi che ha visitato, da tutte le regge che lo hanno accolto, da tutte le donne che ha amato, con quell'insolita voluttà d'infinito, e che si sono lasciate amare credendo di avergli donato l'universo.
La cerca.
Una sola forma, per tutte.
La stessa che ha reso più pesante la sua veglia, più fredde, più sole le notti in cui siede senza volto, senza nome, senza riposo. C'è troppo superfluo dentro di lui, troppi miliardi di gesti, visioni, sapori, odori superflui; adesso è stanco, stanco di attendere che l'Indispensabile svolti l'angolo della strada e si diriga verso di lui, verso l'aiuola.
Soffre.
Posso continuare a sentire il suo dolore, il suo gusto amaro, il suo profumo acre; stelle, datemi una voce per gridargli che sono dietro le sue spalle, sopra il suo capo, davanti ai suoi occhi, sulle sue labbra, fra i suoi piedi, che ogni sera miagolo, mi affaccio alla finestra, mi ubriaco di tristezza e attendo, silente, di veder passare me stesso! O dategli il sonno, amiche mie, e stendete il sudario sul corpo di Argo. Dite a Penelope che il suo amato è salvo. Che il suo ultimo viaggio non è stato un naufragio.
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