Esperienza di lettura de "L'Orlando Furioso" di Ludovico Ariosto
in particolare dei seguenti testi:
Signor, far mi convien come fa il buono
sonator sopra il suo istrumento arguto
che spesso muta corda, e varia suono,
ricercando ora il grave, ora l'acuto.
Mentre a dir di Rinaldo attento sono,
d'Angelica gentil m'è sovvenuto,
di che lasciai ch'era da lui fuggita,
e ch'avea riscontrato uno eremita.
(canto VIII, 29) Ma lasciàn Bradamante, e non v'incresca
udir che così resti in quello incanto;
che quando sarò il tempo ch'ella esca,
la farò uscire, e Ruggiero altretanto.
Come raccende il gusto mutar esca,
così mi par che la mia istoria, quanto
or qua o là più variata sia,
meno a chi l'udirà noiosa fia.
(canto XIII, 80) Or l'alta fantasia, ch'un sentier solo
non vuol ch'ìsegua ognor, quindi mi guida
e mi ritorna ove il moresco stuolo
assorda di rumor Francia e di grida,
d'intorno il padiglione ove il figliuolo
del re Troiano il santo Impero sfida,
e Rodomonte audace se gli vanta
arder Parigi e spianar Roma santa
(canto XIV, 65)
Di molte fila esser bisogno parme
a condur la gran tela ch'io lavoro.
E però non vi spiaccia d'ascoltarme,
come fuor de le stanze il popul Moro
davanti al re Agramante ha preso l'arme..
(canto XIII, 81)
Il piacere dell'epica fu per me quello di immaginare gli aedi, nella lontana Grecia, musicare ed interpretare le proprie storie dinnanzi a un caldo ed appassionato pubblico commosso. Così lessi Faemio raccontare la storia di Odisseo al re dei Feaci e lo vidi smuovere gli animi di tutto il banchetto che andava allietando con la propria voce danzante: l'aedo, da suonatore ed attore esperto, calibrava le note della propria lira sì da far accelerare o rallentare il battito cardiaco dell'uditorio secondo il proprio ritmo. Nient'altro che un'orchestra di emozioni diretta da un abile cantore che si serviva di miti, leggende, amori, odi... poeta e attore al tempo stesso.
E come Odisseo si sentì stringere il cuore in pianto, udendo della propria vita per bocca altrui, così il lettore non può non sentirsi coinvolto ed irrimediabilmente rapito dalla narrazione di quel buon suonator che è Ariosto. Perché è di ogni singolo lettore, di ogni singola e quantomai comune esperienza di vita che Ariosto, ora tessitore, ora cantore, ora poeta, ora solo e semplicemente uomo, narra nel suo poema. Eppure, tante sono le differenze che lo separano dall'aedo dell'epica classica a cui istintivamente lo paragono... ma il risultato, d'altronde, non è lo stesso?
Ariosto non ha una lira con sé quando scrive, e non ha il tono della sua voce che possa calcare o meno l'intonazione su un particolare episodio. La sua voce è la sua penna d'oca, la sua lira (il suo "istrumento arguto") è l'opera stessa ove si va creando la melodia del proprio scrivere.
La sua musica è composta per allietare la corte D'Este e a tal scopo non scenderà mai nella monotonia, nella noia, nell'eccesso della drammaticità: "così mi par che la mia istoria, quanto or qua or là più variata sia, meno a chi l'udirà noiosa fia". È proprio a questo scopo che Ariosto accorda il suo strumento variandone il suono per mezzo di tecniche compositive dinamiche ed alternate. Il linguaggio gioca armoniosamente sull'altalena del grave e dell'acuto, senza mai toccare realmente nessuno dei due... così come la narrazione di una vicenda insegue l'altra senza mai giungere ad un secco e preciso punto di arrivo... così come ogni cavaliere insegue il suo oggetto del desiderio senza mai poterlo stringere sicuro tra le mani... così come il lettore si perde nel labirintico succedersi dell'"arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese" senza mai riuscire ad individuarne uno che sia uno di questi temi, nel succedersi vorticoso di passioni e dolori.
È ben evidente il complicato gioco di entralacement che vivacizza la narrazione portando il lettore ora a Rinaldo, poi ad Angelica, ora a Bradamante, ora altrove, lasciandolo illudere di avere ogni volta in mano, chiara, la situazione. Eppure, proprio quando ci compiaciamo della piega assunta dallo svolgersi degli eventi (e sembra che sì! adesso sì! Rinaldo abbia raggiunto Angelica, Cloridano e Medoro abbian messo in salvo il cadavere del loro signore, Ruggiero sia finalmente sfuggito al suo destino di morte, cullato nel Palazzo di Atlante...)..è proprio allora che il demiurgo Ariosto plasma la propria materia, variando unità di misura, ordine di grandezze, asse delle ascisse e delle ordinate, tracciando un nuovo ed ugualmente instabile grafico del procedere impetuoso degli avvenimenti.
È l'incrocio di tanti modelli di riferimento, essi stessi fila di una medesima gran tela, che crea la dinamicità della narrazione e la sua imprevedibilità: è così maledettamente puntuale Ariosto nei suoi intrecci, nei suoi tagli, che osservandoli così, di volta in volta, nel particolare, non ci accorgiamo quasi dell'enorme tappeto che va tessendo proprio sotto i nostri occhi. Ma come pretendere di potere cogliere nell'immediato una organicità così vasta ed entusiasmante, persi nella peculiarità ed elegante originalità di ogni singolo episodio?
Ariosto è con una serenità tipicamente rinascimentale che varia la materia letteraria che sceglie di volta in volta: non vi è l'angoscioso conflitto interiore del Petrarca nelle sue ottave petrarchesche, così come non vi è quel pungente intento parodistico del Pulci nel trattare la materia cavalleresca oramai contaminata dalla tradizione popolare. È proprio quando con il tema struggente di un doloroso amore petrarchesco si fonde e si confonde la levità gioiosa degli amori pastorali, che assistiamo al dolce e sereno convivere dei due amanti Angelica e Medoro, in un clima idilliaco di pace ed armonia.
Paradossalmente sono proprio il pessimismo e la disillusione di Ariosto (invischiato in una corte che si avvia alla crisi, dove i rapporti tra intellettuale e potere stanno inesorabilmente cambiando a discapito dell'artista) che gli permettono un approccio più lieto con i modelli di riferimento. Sparito l'intento attualizzante del Boiardo dei valori cortesi (lui sì, ebbe la fortuna di comporre l'Orlando innamorato in piena e splendente età delle corti..), Ariosto può permettersi di desublimare i propri paladini, ironizzando bonariamente sulla loro debolezza di uomini. Scemata la convinzione dell'homo faber fortunae suae Ariosto si rifugia nella propria Arte e qui rivendica il suo diritto di controllare, gestire ed anche, perché no, prendere un po' in giro il reale, con la sua crudeltà e puntualità indisponenti.
È questa presa di coscienza che lo induce a sbizzarrirsi così nel giostrare i personaggi e con loro il lettore... la cosciente maestria del cuoco che compone la sua ricetta, e sono sicura, consapevole dello squisito dolce che offre, con falsa modestia, alla propria corte.
Di fronte ad una così disarmante autorità del narratore io non posso che abbandonarmi rassegnata e felice sulla sua nave, senza troppo badare alle mosse del timoniere, ma solo gustando la brezza che mi accarezza il viso, i sentimenti ora dirompenti ora soffusi che questo viaggio suscita in me. E sembrerà che io abbia seguito non un sentier solo, ma tante rotte contemporaneamente, il cui punto di arrivo è solo uno, diverso ed uguale ad ogni altro viaggiatore. Il timoniere, dal canto suo, farà affidamento sulla propria alta fantasia per condurmi in un viaggio divertente e drammatico al tempo stesso. Di me dirà "quando sarà il tempo ch'ella esca, la farò uscire", ed io mi affido curiosa alla sua arte ogni volta che leggo rapita i suoi mirabili versi.
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