Crisi
Il suo nome è Nessuno. Non ha volto né identità, vive nell'ombra delle mie giornate senza che io possa farci nulla.
Ha ucciso la sua famiglia e non ha amici né legami di alcun tipo. Non è registrato da nessuna parte e non possiede nulla. Tecnicamente non esiste. Eppure sento la sua presenza costantemente, me la sento addosso.
Non ha fissa dimora, vive in luoghi sempre diversi, non percorre mai due volte la stessa strada. Ha in tasca dieci passaporti diversi che gli corrispondono. È la maschera di se stesso.
Cammina per strada senza una meta. Non sa dove si trova e non gli interessa saperlo. I piedi lo conducono, il passo lento e cadenzato lo aiuta a pensare. Occhiali da sole, portamento deciso, mani in tasca. Si guarda in giro. Ha un viso normale, veste normale, cammina normale. Qualche macchina sfreccia, un pedone incrocia il suo marciapiede immerso nei suoi pensieri. Lui osserva.
Rifiuta l'impalcatura fatta di convenzioni su cui si regge la vita in società, ma le rispetta scrupolosamente e si mantiene con precisione appena al di là della soglia che distingue l'individuo da un individuo che io non riesco ad identificare.
Scivola tra le tacite consuetudini, sa destreggiarsi nelle conversazioni preconfezionate, illusioni regine del saper socializzare. Il suo teatro accontenta le aspettative dei suoi spettatori. Il mondo gli scorre accanto, senza toccarlo mai.
Si siede e mi guarda affaccendata nei miei problemi di questo giorno x, nella cieca speranza di essere unica e diversa da tutti gli altri. Mi vede mentre resto mansueta in fila aspettando di entrare al cinema a vedere l'ultimo capolavoro americano, mentre pascolo ignara in fila tra le bancarelle sul lungomare nei giorni di festa comandata, mentre marcio in fila soddisfatta di me guardando l'orizzonte della mia carriera lavorativa, mentre mi godo tronfia, come altri mille in fila, la mia felicità di plastica fatta di famigliola sorridente fuori a pranzo la domenica e abiti firmati da sfoggiare coi colleghi.
Dalla prima volta in cui l'ho incontrato non mi lascia stare. Il suo sguardo è un giudizio di fuoco su ogni istante delle mie giornate. Lui è lo scrupolo che mi mangia lo stomaco nel cuore della notte.
È il rancore covato in seno ad ogni menzogna. È il mio neonato rifiuto della fila.
Lei ama la gente. Adora le feste di paese, le tradizioni popolari e non si perde un ballo.
Lei coglie l'importanza sacra del chiedermi "come stai" tutte le volte che mi incontra, perché questa semplice frase predispone l'animo all'apertura, a mettersi in atteggiamento di ascolto e di rispetto.
Lei sorride alla dolcissima recita di due novelli amanti, che passano la serata chiacchierando del più e del meno come se si trovassero al tavolino del bar per caso, mentre sanno di avere entrambi il cuore in gola per l'emozione e di essere stati svegli la notte pensando a quel momento, a quell'incontro. Lo sanno guardandosi negli occhi ma non se lo dicono, ed elevano così una muta danza di corteggiamento sopra le parole, complici chiamate a proteggere i loro giochi di sguardi e sorrisi.
Lei è poesia che percorre il quotidiano leggera, è quella magia senza spiegazioni che a tratti riesco a leggere, lei si trova dovunque palpiti la vita. Spesso prende la metropolitana alle sei di sera per osservare quanto è buffa la gente che torna dal lavoro. Le giacche di buon taglio ormai stanche e sudaticce addosso agli uomini da ufficio, le palpebre chiuse di una madre di famiglia che tiene la testa appoggiata al finestrino, la caviglia nuda di una gamba accavallata che ha deciso che l'estate sta arrivando. Dentro al vagone in corsa sono racchiuse per il tempo di qualche fermata gli odori, le preoccupazioni e le storie di decine di persone che vivono gomito a gomito senza urtarsi mai, come per uno strano sortilegio. Lei ha i miei stessi occhi grandi di bambina, vivaci e sognanti, con dentro un guizzo di entusiasmo che fa innamorare tutti. Lei è la mia disarmante semplicità che spiazza i luoghi comuni.
Lui ha deciso. Sa che è necessario prendere posizione davanti ad ogni evento, ogni situazione, ogni bivio.
La neutralità non esiste, l'indifferenza è una malattia.
Ci sono volte in cui mi spingo fin sull'orlo del pensiero, e allora basterebbe un soffio a realizzarlo, sono così terribilmente fragili i confini... Ma solo nel viaggio di andata. Poi non si torna più indietro.
Lui si muove a suo agio nel buio, l'ombra felina e vigile al fianco, di metallo ogni suo passo, rimbomba nel silenzio. Mascella tesa. Cadenza dei piedi sull'asfalto. Nero, come la notte nera.
Ancora pochi minuti e poi una grande esplosione illuminerà questo cielo senza luna, come un fuoco d'artificio colorerà il grigiore cupo dell'anima corrotta del mondo; un enorme boato spaccherà in mille pezzi la superficie opaca di questo silenzio dormiente. Lampo e tuono artificiali del tritolo saranno la prova che le sue due mani nude, da sole, hanno il potere di raddrizzare qualche ingiustizia.
Oltrepassato il limite una prima volta lui può rifarlo all'infinito, sente che deve rifarlo, non riesce a stare in astinenza da quel brivido elettrico, dal preciso e meticoloso piano studiato per incidere in modo indelebile i valori di plastica della mia era. La sua bomba getta all'improvviso il guardiano della fila davanti agli effetti gravi del suo sporco gioco, gli insinua il dubbio che non sarà sempre possibile vincere, il timore di un potere avverso e incontrollabile, del disordine, di una rivoluzione imminente. Lui è il mio viscerale desiderio di liberazione dai vincoli di questa realtà oppressiva.
Lei ride con la testa buttata all'indietro, ha una risata piena e potente, che mi sale dalle viscere e mi scoppia in gola irrefrenabile. Ride senza vergognarsi di farlo, sbeffeggiando chi non ne è capace. È la risata decisa di chi ha scoperto il significato solenne dello stare al mondo e l'ha accettato con coraggio.
Ha imparato dalla Storia che la forza più grande degli uomini risiede nel credere alla loro stessa forza, quando stretti insieme dai nodi della solidarietà sanno resistere e lottare. C'è nel suo sguardo la consapevolezza della dignità di ogni singola creatura, c'è il semplice, grande rispetto per il miracolo della vita. Perché la vita è la più grande responsabilità che un uomo si porti addosso, manifesta in ogni sua azione, di cui risponde davanti al tribunale dell'umanità, da sempre fratello e giudice.
Lei vive in ogni mio sforzo teso verso un ideale, lei è la mia volontà di una giustizia più grande e nobile del tornaconto personale, è la convinzione che la lotta quotidiana, costante e faticosa sia l'unico vero modo per raggiungere la felicità.
Lei si può commuovere davanti alle meravigliose stalattiti create dal cadere ostinato delle piccole gocce d'acqua, lei rimane affascinata dalla perfetta organizzazione delle formiche nel loro brulicante lavoro.
E ci sono momenti in cui vorrei mollare tutto, in cui niente sembra servire a niente e le risorse sono esaurite, ma lei mi dà la tenacia per non mollare, rinnova la mia fiducia in una libertà che non è mai ottenuta una volta per tutte ma si realizza nella sua stessa costruzione, comunitaria e costante, nel credere sopra ad ogni altra cosa che sia possibile un mondo equo e condiviso. Lei è la pazienza che risana le mie ferite.
Lui, il malsano desiderio di andare fino in fondo disprezzando i compromessi. Il gusto aspro del rischio in bocca, che infiamma ogni muscolo del mio corpo, il febbricitante bisogno di sfidare la morte per sentirsi vivo, il disprezzo che si scaglia kamikaze contro la sorda impotenza della mia vita mediocre.
Il cieco istinto che abita le mie interiora e nutre il mio cervello lottando furiosamente contro di lei per uscire.
Lei, la mia coscienza. Lei, la razionalità che controlla l'istinto, la saggezza che frena le mie imprese avventate, che lega l'odio in una rete di speranza e passione.
E io, condannata ad arbitro nel logorante match tra lui e lei, lacerata dal più crudele dei conflitti che mi opprime il torace senza tregua, mi trovo a correre nel vuoto della mia solitudine, spinta dalla disperata energia di chi è avido di vita, smanioso di respiro, coi miei sogni urlanti libertà incollati addosso, inseguendo follemente la scintilla di una felicità troppo bella e grande anche solo da pensare.
I miei muscoli tesi guizzano nervosi nel disperato tentativo di guardare oltre, di superare l'insopportabile contraddizione che rappresento per approdare ad una indefinita salvezza.
Ma non esiste salvezza che mi venga donata dall'alto, non c'è modo di fuggire la battaglia furiosa nel mio intestino; cado bocconi, stremata dalla febbre del troppo pensare, scossa dai singhiozzi e sprofondo nella ricerca bulimica di colmare i vuoti della mia piccola esistenza.
Spaventata dall'essermi affacciata alla vita, schiacciata dalle sue infinite possibilità, ora mi rifugio nella prigione della mia incapacità di scegliermi; pareti lisce e mute si estendono a perdita d'occhio, esiste solo il mio respiro congestionato che pian piano si calma, si regolarizza e infine si rassegna.
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