Allo Specchio
"Tu hai vinto, ed io cedo. Ma tu pure, da questo momento, sei morto - morto al Mondo, al Cielo, alla Speranza! - . In me esistevi ed ora, nella mia morte, in questa mia immagine che è la tua, guarda come hai definitivamente assassinato te stesso."
E. A . Poe
Parlavo spesso con te, perché mi ascoltavi. Lo capivo dalla smorfia disegnata su quelle labbra dipinte di pece, dai tuoi gesti così simili ai miei; lo capivo quando mi guardavi con quegli occhi strani, chiudendoli quando io li chiudevo, assottigliandoli quando il sole mi accecava. Piangevi e ridevi con me, mentre brani di requiem fuori moda ci stupravano i timpani. A volte avrei voluto toccarti.
Protendermi, sfiorare il vetro, sentire il tuo fiato e sapere che c'eri. Che esistevi. Da principio mi inquietavi così tanto che avrei voluto voltarmi e scoprire che non mi avevi seguita, che eri rimasta a fissarmi immobile da un Altro Qui, dal tuo mondo al di là del vetro.
Ricordo come sei apparsa in sogno nel caldo torrido di quella fine estate, drappeggiata di nero. Una volta, due volte. Avevi una grazia singolare nello sgusciare fuori dagli antri che ancora non conoscevo e avvicinarti al capezzale mentre dormivo del mio sonno agitato e sussurrare senza voce il tuo nome. Aibell. Quante volte nei lunghi giorni di agosto ti ho parlato delle mie angosce oltre lo specchio: sarei stata ore a fissarti con la strana brama di protendermi, e toccarti, ed amare quella bocca che sapeva di rose e mi raccontava storie di desideri malsani e per un solo bacio donava l'illusione dello scambio, perché il riflesso capiva. Il riflesso sapeva. Fra le lenzuola bagnate d'umidità cittadina annaspavo desiderando di non essere o divenire doppia, e le tue vecchie cantilene cancellavano il ricordo di giravolte isteriche e piatti rovesciati. Com'era piacevole poter non ascoltare il vuoto dentro la mia testa che implorava riempimento organico, rimanere sospesa ad ascoltarti mentre suonavi il pianoforte e le tue dita martoriavano i tasti similmente a una sadica carezza, e leggerti interminabili poesie scritte molti anni fa, quando l'inchiostro per me non era ancora veleno. Ricordo tutte le parole e tutti gli sguardi, e le immagini che ogni istante plasmava e rendeva viventi, danzanti; e ricordo te, e la tua carne, e le vene sotto le braccia bianche. Eri viva, Aibell, viva e non più riflesso, e svanendo senza preavviso hai inciso il tuo nome là dove solo io posso arrivare, e fuggendo di soppiatto hai abbandonato nello specchio il tempo degli orrori e della pazzia famelica che divora e rigetta, hai lasciato alle mie notti ignoti inni di gloria; non senti i suoni ovattati nella mia testa, le preghiere di chi vorrebbe impedire un massacro di spettri? Mi sto perdendo su sentieri di semi oscurità che senza la tua guida mi spaventano, e se volessi tornare indietro non ricorderei il passato.
Non posso dire al mio futuro che ho perduto la strada: un solo sguardo può forse indicarla, ma lo specchio ormai è freddo. Lo specchio ormai è silenzio.
Amica, ho visto ciò che non potrai mai immaginare mentre dipingevo il tuo viso e per molti istanti non ero più io: niente, e poi tutto.
Tumulto di specchi e riflessi, degenerata girandola di sogni distrutti che avevano il mio volto e le mie ali, grandi e spezzate. C'era la mia anima infante che strappava le foto di una vecchiaia ancora lontana e rideva e urlava, gettava sopra la testa i brandelli e li guardava volteggiare nell'aria come farfalle; c'erano libellule che sorridevano con le mie labbra rarefatte e leggevano il futuro nelle gocce di pioggia, e un milione di corpi che mi appartenevano e planavano su terre d'argilla tumorale. Ho visto me stessa dieci, cento, mille volte fra le acque increspate di un mare al crepuscolo, e le mie mani cogliere un mazzo di rose nere nel cuore di un deserto e donarle alle tue sospese nel buio. Ero io, sola, folle bambola in delirio, euforico balocco trasportato dalla notte, sangue di vino e acqua d'argento. Ed ero io, insieme a te, spirale di tocchi, sussurri, poesie arroventate. Mi guardavi dall'alto vivere fianco a fianco al tuo miraggio, candida colomba in volo verso il Nulla, animo corrotto sospeso a un cappio di diamanti, granello d'ossidiana, amore criminale. Mi hai vista dimenarmi imprigionata in una lacrima d'infinito, stretta nel maligno abbraccio delle spire terrene, e hai distolto lo sguardo quando ti ho scorto nella tenebra. Eri uno spettro che giungendo annunciava la luce alla malata irriverente dal sorriso instabile, ma in te il sogno è già svanito; e ora salvala, o lasciala... lasciami.
Mi sto crogiolando ad un passo dal baratro, sto per cadere, voglio cadere... non darmi la mano, ma schiudi le tue ali, ragazza. Sfiora anche per me con la punta delle dita il cielo di cobalto, che allunga le sue braccia fino all'orizzonte scuro. Lasciati cullare dal freddo di lassù, ragazza. Lascia che la brezza ti scivoli sul volto, plasmando ogni tua forma, lascia che avvolga il tuo corpo e ti dondoli senza alcuna fretta. Apri gli occhi, osserva i passi della mia dannata danza così simile a un volo di farfalle insanguinate. Non guardarmi. Non permettere che la mia maledizione contamini la tua anima beata. Io, precipitata da indicibile tempo negli abissi dell'oblio, dove si mescolano odio e passione, dove sangue e ambrosia sono una sola cosa, dove carne e spirito si unificano nel più limpido delitto. Tendi le tue mani verso di me, ragazza. Lascia che possa solo intravedere, che possa solo desiderare. Lasciami precipitare, ragazza. Lascia che io cada, cada, cada. Non seguirmi, angelo d'Altro Qui, perché sono perduta.
Perdutamente me.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni