Avere o Essere ?
di Andrea Porcheddu
Menzione d'onore
Avere o essere?
Così rispondeva il titolo al mio sguardo, un po' beffardo, un po' serio, sicuramente malizioso. Due parole che sembravano messe sul piatto di una bilancia corrotta che, pesando, ammiccasse, come a chiedere da che parte dovesse pendere.
Ero alla ricerca di qualcosa da leggere, e il mio occhio aveva già scorto, lungo lo scaffale, titoli e autori molto più invitanti. Ricordo un moto di fastidio nel notare l'inesistenza della copertina di questo vecchio libro, una menomazione certo tramandata sin dall'adolescenza di mia madre. Al di sotto di questa nudità, piccoli e anonimi caratteri sopra lo strano titolo recitavano per la prima volta alla mia conoscenza il nome dell'autore: Erich Fromm.
Sicuramente storsi il naso; da quando mio nonno copre d'oro Germania e Tedeschi, cioè da sempre, ho sviluppato un'acuta e irrazionale allergia dell'anima verso quasi ogni prodotto e sottoprodotto di quel popolo e della sua cultura, a cominciare dalle note dure e spigolose del loro idioma. E il suono di quel nome era inconfondibile.
Eppure, tornando a vagare con lo sguardo al titolo, nuovamente quelle due semplici e incomprensibili parole, "Avere" e "Essere", contrapposte dal perno della "o", ripresero ad ammiccare alla mia coscienza, quasi deridendola della curiosità che quell'opposizione così lapidaria aveva stuzzicato.
Il libro tra le mie mani, nel frattempo, continuava a presentarsi povero, abusato più dal tempo che dalla lettura, molto poco invitante, se non avesse saputo ammantarsi dell'ignorante e innocente astuzia di una domanda.
La parte più razionale e saggia della mia mente temeva già la natura, il contenuto di quel libro, e sibilava prudenza all'irrazionale che mi guida: titolo e autore erano tutto un programma.
Non ci volevano né Sherlock Holmes, né Nostradamus, per presagire il malinconico e ingiallito pensiero del filosofo di turno, nato già vecchio nella lunga pratica di una non-vita di contemplazione. Ma irrisi ogni timore: ero in quel momento il vittorioso reduce dell'ultima pagina dei Pensieri di Pascal, e mi sentivo immortale, invincibile. Inutile dire che l'irrazionale ebbe la meglio.
Così, con un lampo di sfida nell'espressione e la soddisfazione del martire negli occhi, mi gettai sul divano e affrontai all'istante la prima fragile pagina, deciso a non concedermi sconti. Non esitai infatti, in barba ai savi consigli di Umberto Eco, a sorbirmi l'intera prefazione dell'autore: confidavo che questo avrebbe temprato lo spirito, prima che la metaforica lotta, contro il filosofo e contro il sonno, entrasse nel vivo. Per qualche arcano motivo, non mi stupii troppo nel trovare una smentita secca alle mie aspettative.
A dispetto dei miei pregiudizi, lo stile era infatti sobrio, pacato, razionale; il discorso fluiva con tranquillità quasi rilassante, senza tralasciare nulla di ciò che riteneva necessario, ma evitando con sensibilità rara sfoggi di ingegno e ogni altra superflua vanità. Immaginai ben presto lo scrittore come un gioviale e paziente vecchietto, candido nella saggezza della sua barba e dei suoi radi capelli.
Pacifico, amabile quasi, mi dava poi il benvenuto al pensiero vero e proprio salutandomi con le immancabili sentenze che scaldano i tiepidi animi di questi studiosi: per l'occasione, furono Lao-Tse, Eckhart e Marx ad incaricarsi di questa formalità, riuscendo come sempre a conciliare il tutto e il nulla nell'arco di poche parole. Un risultato che non manca mai di stupire, quindi sorrisi e proseguii oltre.
A convenevoli esauriti, la benevolente indulgenza dell'introduzione si dimostrò encomiabile, nella grazia con cui sciorinò le poco rassicuranti esigenze che avevano mosso l'autore: analisi dell'egoismo e dell'altruismo come orientamenti fondamentali del carattere, crisi della società contemporanea e studi in psicoanalisi radical-umanista. Beh, nonostante la grazia, devo ammettere che un brivido mi percorse nuovamente, mentre la razionalità di prima si adombrava con cipiglio di saggezza offesa. D'accordo per lo stile e la pacatezza, ma era quello il modo di presentarsi?
In quel preciso momento, una parte di me, già scioccata nei suoi timori più puri, faceva presente l'urgente necessità di assicurare il libro alla polvere dello scaffale; sicuramente, così diceva, il suo posto più appropriato. Ma un'altra parte, l'anima di lettore, era stata stuzzicata, e questa sapeva avere un'autorità tanto solida da dimostrare l'ignoranza di qualsiasi moderna norma di democrazia.
Assecondando questa ridicola schizofrenia, mi costrinsi quindi a leggere, invocando inconsciamente una dovuta ricompensa per tanto sacrificio.
Come spesse volte accade, lo spirito del lettore si rivelò più intelligente del lettore stesso. Intuii allora che la lettura deve avere un'anima, un'anima predatrice e seduttrice allo stesso tempo, capace non solo di catturarti, cosa che sanno fare un po' tutti - persino la televisione ne è capace -, ma anche di ammaliarti, cosa che in genere non sa fare nessuno. Così, a dispetto delle mie resistenze, le pagine continuavano a susseguirsi, mentre venivo iniziato a questa incomprensibile dicotomia tra il possedere, e l'essere posseduto; e, poiché il tempo su un divano tende a scorrere in silenziosa rapidità, mi seguirono poi su uno sgabello, sulla scrivania, fino al caldo conforto del letto.
Iniziai allora ad accorgermi con stupore che le assurdità che leggevo erano sostanzialmente le stesse che già sonnecchiavano nelle oscure profondità dei miei pensieri, e un sorriso indulgente mi si aprì come breccia nell'animo; e ad un libro spesso non serve che una breccia, per colpirti nel vivo.
Fu così che con lento lavorio ogni barriera venne sgretolata, mentre le parole si infrangevano e infrangevano a loro volta l'alto muro di diffidenza che è parte integrante del nostro essere, garanzia di sopravvivenza nel mondo della competizione. Perché le parole non conoscono le nostre regole, i nostri ritmi, i nostri radicati istinti di lotta e sopraffazione; o meglio, li conoscono al punto da poterne ridere, di una risata incantevole, balsamica. Queste parole, poi, possedevano un potere ulteriore: nulla è infatti più subdolamente seducente della verità, proprio quella verità che percepivo come una fiamma che, scaturita dall'inchiostro, mi scaldava per gradi la mente, il cuore e gli occhi, incatenandoli così alla carta.
Ogni riflessione, ogni frammento di frase sembrava calare nella vita quotidiana e combaciarvi esattamente, illuminando le cose di una luce interna capace di rivelarne la vera natura, così diversa dalla luce esterna della normale percezione, che non riflette che la confusa immagine dell'apparenza.
Ammetto che, a tratti, specie quando la lettura si era protratta già per un'ora o due, e la casa immersa nella notte dormiva tranquilla, ebbi davvero l'impressione distinta di un'iniziazione, l'identico sentimento di soddisfazione e aspettativa insieme, con la sfumatura di tristezza che sempre riverbera da ogni sguardo lanciato sulla realtà. Ma anche quando l'esterno maggiormente imponeva la sua presenza e spezzava l'atmosfera, i vincoli, attenuati, restavano tuttavia solidi.
Una cosa era certa: pur nella vigilanza solerte che imponevo alla mia oggettività e alle schegge di diffidenza ancora vive in me, nulla di ciò che mi provocava questo oscuro Erich Fromm era paragonabile a quanto provato nella lettura dell'arcinoto Pascal. Non trovavano qui terreno l'osservazione critica, il saltuario e acre sarcasmo, gli sporadici conati di rigetto che aveva in me provocato il brillante e corrosivo pessimismo del filosofo francese.
Eppure, anche qui il pessimismo lambiva le pagine: ma era in un certo qual modo un pessimismo tanto simile al mio da risultare quasi familiare. Soprattutto, non era un disfattismo completo, radicale, capace di negare alla natura dell'Uomo altra speranza di una metafisica clemenza della corte. Era invece il rifiuto naturale, comprensibile e quasi oggettivo nella sua spontaneità, che inevitabile si radica nell'abitante di questa nostra era di confusione e superficialità.
Come non scusarcelo, a fronte di un mondo votato a mordersi la coda e inseguire nello stesso tempo, con acrobatica e nauseante disinvoltura, i propri miraggi in questa che non a caso un grande del passato indicò in musica come la Corsa dei Ratti?
Non occorrevano e non occorrono occhi troppo foschi per percepire questa corsa, questa fuga nella ricchezza, nella fama, nel potere, nella sopraffazione sociale, o, peggio, in artificiali distrazioni. Un'evasione nella vanità che, mi gridava allarmato e sommesso nello stesso tempo l'autore, allontana tutti noi dalla vera via, la vera corsa, quella dell'Essere che non è, a conti fatti, che la semplice Corsa della Vita.
E questa, a differenza di ogni altra che l'intrinseca artificiosità confonde inverosimilmente, non è una corsa a ostacoli: è una grande strada con parecchi segnali e nessuna destinazione apparente, ed inutile e dannoso è intricarne il percorso con le mirabolanti invenzioni dell'Uomo, come inutile e dannoso risulta cercare nelle cose, nell'Avere, quella felicità che è nostra prerogativa e che non esiste al di fuori di noi stessi.
Inutile l'ambizione che ci delimita, inutile l'imporsi che ci irrigidisce, inutile l'odio che distilla da frutti immaginari il più acido dei veleni: utile risulta solo affrontare il grande mistero della nostra esistenza, senza pretendere di capirlo, ma accontentandosi di viverlo appieno, per il poco che il Tempo ci concede di farlo.
Inutile dire che non riesco ad esprimere appieno il senso di questa visione, forse perché spiegare la vita a parole è una mera presunzione umana. Ma non mi cimenterò certo ad illustrare qui ciascun tema e riflessione che il gioviale vecchietto mi ha elargito, e neppure ne ripercorrerò l'intera meditazione, a partire dal fallimento della Grande Promessa di felicità dell'era industriale fino alle indicazioni filosofiche per una civiltà del futuro più consapevole, realizzata e forse utopistica. Non solo non sarei in grado di rendergli giustizia, e non solo lo spazio materiale verrebbe a mancare; ma, cosa forse più importante, tutto questo si è depositato in me in modo tanto stravagante e intimo che la condivisione andrebbe forse a stuzzicare una vera e propria gelosia, che sento e che non posso spiegare se non con un sorriso.
D'altronde, a conti fatti, nessuno sforzo risulterebbe davvero efficace, poiché l'essenza di ciascun vero libro, e in special modo di un libro di questo genere e portata, si rivela più nel tragitto che riesce a far percorrere alla nostra coscienza, che a ciò che materialmente fornisce con l'immediata apparenza della lettera e del pensiero.
Come si può descrivere un viaggio, se non si sanno descrivere non solo le forme, ma anche i colori, i suoni, gli odori, le presenze, le assenze e le melodie sotterranee che lo hanno accompagnato, che ne hanno conferito l'essenza? E io non ne sono capace; non so trasmettere le limpide sensazioni che un testo in apparenza tanto intellettualistico mi ha riservato, né la diffusa impressione di aver finalmente inforcato il bivio giusto. Solo ripercorrere quello stesso viaggio di persona servirebbe a nutrire davvero l'anima di quell'esperienza, solo così la vita potrebbe nuovamente rivelarsi nella sua mutevole essenza, solo così potrei davvero far partecipi il prossimo di ciò che vi ho trovato.
Non sono rare le volte in cui io stesso torno a quelle pagine, per ritrovarvi la limpida lucentezza di quelle verità, che lentamente sbiadisce e si aggroviglia nella mia mente, senza però perdere con questo la propria validità. A volte, però, il dubbio scuote l'emozione e la nuova consapevolezza che a tratti torna a venarsi di aleatorio e sfuggente.
Forse peccavo, mi dico in questi momenti, di presunzione, nella certezza di aver trovata la verità in quel libro, neppure custodita da una copertina; e certo non mancava né manca in essa una certa dose di sotterraneo narcisismo. Forse ancora oggi mi cullo nelle mie illusioni, quando sogno un rinnovamento, un'esistenza dedita a sé stessa e non alle accattivanti distrazioni del quotidiano.
Il dubbio è un certo senso un dovere per ogni pretesa di razionalità, e come sempre l'ultima parola spetterà al Tempo.
D'altronde, vorrei poter dire che questo libro ha stravolto la mia esistenza, i miei gesti, la mia persona, ma non sarebbe né vero, né realistico: in un certo senso, non ha nemmeno rivoluzionato la mia mente. Ne ha semplicemente approfondito, ampliato, chiarito i concetti, la percezione; vi ha soprattutto impresso l'impulso che da sempre aspettava, realizzando forse così quell'unico brillante messaggio che un vero Maestro come Robert Nesta Marley trasmise a ritmo di reggae a tutte e a ciascuna generazione, e che da tempo si è radicato in me come un comandamento: "emancipatevi dalla schiavitù mentale, nessuno al di fuori di noi stessi può liberarci la mente".
Libero dalla condanna di essere ciò che ho, dalla sudditanza all'infinita schiera degli ornamenti che dovrebbero garantire la mia esistenza agli occhi del mondo e che invece non fa che derubarmene. Non verso grandi traguardi, non verso alcun apice di realizzazione economica o sociale, non verso la gloria, ma verso la vita.
»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni