Prologo al Don Chisciotte
Quella sera, prima di partire per la necessaria avventura, don Chisciotte sapeva che l'avrebbe trascorsa sveglio e per questo era rimasto a parlare con Sancio sino a tardi.
Sentivano, tutti e due, la necessità di confidarsi, vi era l'ansia per la partenza, per il viaggio che s'apprestavano a compiere, viaggio che aveva ben determinato il traguardo ma non il percorso; cammino che sapevano essere pericoloso perché carico di incognite, di rinunce, di passioni, di quella voluta incoscienza senza la quale ogni vita sa di poco.
Dulcinea del Toboso, era lì, come stella cometa capace di risvegliare dentro don Chisciotte ogni possibile desiderio ed in Sancio ogni incredibile curiosità, ma nello stesso tempo quali ansie d'attesa, quali spinte ad affrontare l'inimmaginabile pericolo, e nel contempo questi stimoli facevano conseguentemente crescere l'ansia per le novità e pericoli che vi erano da affrontare.
Don Chisciotte, meticolosamente rovistava negli armadi e nei bauli alla ricerca di carte e libri che l'aiutassero a conoscere nuove strade e nuove genti, voleva approfondire quanto sarebbero andati ad incontrare, ed a tratti sorrideva o s'incupiva all'idea di quello che stava progettando.
Guardava i segni di civiltà e culture diverse e si chiedeva quale fosse il modo migliore per avvicinarsi senza creare spavento, ma semplicemente curiosità per farsi accettare.
Sancio, apparentemente cercava di opporsi a quel progetto, in realtà lo stuzzicava affinché proseguisse nello sforzo di dare un senso ed un'impronta alla vita che stavano conducendo, un tentativo che solo superficialmente poteva apparire come follia.
Dulcinea era lì ad attendere con tutto il suo carico di opportunità, di potenzialità, però anche di un impegno, di sacrificio, di furiosa volontà, di azione per uscire dalla solitudine.
Era chiaro, in Don Chisciotte, che per quanto andava a fare sarebbe stato dichiarato un pazzo che si muoveva in solitudine, mentre in realtà era proprio il contrario, un solitario che si muoveva in una spasmodica ricerca di azione, per uscire dalla mortale solitudine che il tempo attuale e le proprie condizioni producevano.
In quest'istante crebbe il riconoscimento verso Sancio, il quale s'apprestava ad affrontare rischi d'ogni genere, sino alla derisione, mentre s'accompagnava ad un esperimento che andava esattamente in senso contrario di quello che appariva: reciproca azione per uscire dalla solitudine, non per ritrovarcisi, come molti hanno pensato fino ad ora.
E quanto questa lettura abbia determinato il giudizio verso l'opera di don Chisciotte, sempre visto come "il pazzo che lotta contro i mulini a vento", senza tener conto che i mulini a vento questa volta erano un minuscolo specchietto mentre l'esempio gigante era la volontà dell'azione, "senza se e senza ma", in altre parole, a qualunque costo, riconoscendo l'azione come unico elemento che libera, che permette l'incontro, le relazioni, che rompe la mortale gabbia della solitudine, quella che porta speditamente e senza salvezza alla vera pazzia.
Dulcinea era la meta: per arrivarci occorreva passare attraverso un continuo movimento in avanti, passando da un episodio, da un fatto all'altro, anche laddove occorreva affrontare insidie e promesse di ricchezze.
A tutto questo sarebbe stato capace di rispondere con coerenza? Dritto alla meta con più pericoli ma anche con meno riconoscimenti, disposti perfino al sentirsi deriso dagli adulti, non dai bambini, dai sani e non dai pazzi, che sanno vedere oltre l'apparire.
Quando Ulisse decise di partire non si curò di altri e cominciò la sua navigazione, occorreva farlo.
Gli dei apparentemente si misero contro, ma, invece lo aiutarono stimolandone il coraggio, cogliendone il dubbio per farlo maturare sino a portarlo alla soglia del tradimento, e solo attraverso questo percorso che si poteva e si può raggiungere la vera meta, quella della ragione, del segno e del senso.
Seppe alla fine vincere la sua battaglia perché aveva ben chiara quella meta, cadde ripetutamente, ma, proprio per questo e solo grazie ad essa seppe sempre rialzarsi e quindi ogni volta proseguire.
Noi non apparterremo né agli uni, né agli altri, questo ripeteva quella sera don Chisciotte al convinto Sancio che, col bicchiere in mano, salutava la notte non per cercare consiglio, oramai aveva deciso di seguire il suo "padrone" perché aveva capito che alla fine vi sarebbe stata la vita e non la morte.
Il bicchiere di vino degustato era l'estremo bisogno di centellinare e assaporare quel prossimo futuro che l'aspettava.
Sancio, inoltre, consapevole del ruolo e del merito aveva accettato la propria parte, anzi estasiato voleva allungare il tempo dell'inizio, voleva degustare ogni attimo a venire.
Ricordiamo i versi del poeta Hikmet: "Lo so, quando si è presi da questa passione e il cuore ha un peso rispettabile non c'è niente da fare, don Chisciotte, niente da fare. È necessario combattere contro i mulini a vento".
Ecco che era arrivata l'ora di alzarsi e ancora non erano andati a letto, si guardarono con occhi sapienti e complici, si dissero che era l'ora di partire, non era solo il dovere a spingerli a questo, ma la libera, consapevole e reciproca convinzione di ruolo e di appartenenza.
Poi entrambi, come in accordo, si calarono nella notte, nell'arcobaleno della fantasia e del desiderio... e lì cominciò l'avventura:
"In un borgo della Mancia, che non voglio ricordarmi come si chiama, viveva un nobiluomo di quelli che hanno e lancia nella rastrelliera e un vecchio scudo...".
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