Nello sguardo di un Bimbo
La mia esperienza di lettura? Lettura di sguardi e di risate, di occhi tristi e di canzoni cantate forti e stonate, note uscite dalla gola di un bimbo che ancora è impresso nella mia memoria, con quel suo viso dolce e l'espressione curiosa che mi scruta.
Ho vissuto questa emozione in un modo che neanche io ancora capisco. A tutti quelli che mi chiedono che come sia andata la famosa gita in Romania, non posso far altro che rispondere che è stata davvero strana. Penso che questo dipenda dal fatto che il carico emotivo che quei quattro giorni sia pesato molto sul mio stato d'animo soprattutto nelle prime ore che hanno seguito il nostro viaggio, quel weekend in cui sono finalmente ritornata a casa.
Prima di partire sapevo che sarei andata in un luogo in cui le persone non sono fortunate come noi e dove la povertà estrema rende difficoltosa la vita di tutti i giorni, ma come mi era stato ripetuto molte volte da amici che l'anno scorso ci erano già stati e che io avevo ascoltato in maniera un po' scettica, solo quando ti trovi lì, anche solo sul pullman guardando fuori dal finestrino, ti rendi conto di quanto la realtà in Romania sia diversa dalla nostra e di quanto le persone lì facciano fatica a guardare ogni giorno con fiducia e speranza come faccio io tutte le mattine.
Scendendo dall'aereo siamo andati all'aeroporto per cambiare i nostri euro con i lei, la valuta rumena.
Vedendo scorrere Budapest dal vetro del pullman, ho potuto vedere che le case erano molto colorate, i muri erano dipinti in tinte pastello che andavano dall'azzurro al rosa, dal pesca ai tenui toni del giallo che venivano interrotti di tanto in tanto da una crepa, una macchia d'umido o dal freddo e grigio cemento.
Poche ore dopo eravamo sulla strada per raggiungere la nostra destinazione. Avevo un po' paura ad andare nel primo istituto che ospitava bambini orfani, non sapevo cos'avrei visto.
Benché li adorassi non avevo mai avuto un buon rapporto con i bambini, non mi trovo a mio agio con loro, ho sempre paura di farli piangere, di fargli del male di graffiare per sbaglio i loro visini di porcellana con un anello o un braccialetto, di rompere la magia e l'ingenuità che c'è nei loro occhi.
Li ho osservati, ridevano, giocavano, qualcuno piangeva. Indosso avevano i loro vestiti migliori e nascondevano con avidità le caramelle dalle carte variopinte nelle tasche dei cappotti. Guardandoli sorridere, scattando foto di tanto in tanto, ho colto con la vista e con l'obiettivo nelle loro pupille la speranza che avevano in noi anche se sapevano che saremmo partiti presto, che molti di noi non sarebbero tornati. Diffidavano eppure si lasciavano prendere in braccio e si facevano spingere sull'altalena, per loro era un giorno di festa ma mi sarebbe piaciuto sapere senza di noi com'è l'esistenza, se quelle risate acute e sguaiate si sentono anche nella vita di tutti i giorni.
Arrivati nel secondo istituto un bimbo mi aveva preso subito per mano e mi aveva portata, insieme al gruppo a vedere le loro camere. Con orgoglio mi ha fatto vedere il suo lettino e aveva riposto con cura i pennarelli che gli avevo regalato su uno scaffale che divideva con i suoi compagni di stanza.
Alcuni di loro guardavano con invidia le nostre macchine fotografiche, tentavano di prenderle per scattare anche solo una foto e poi la riguardavano incuriositi sullo schermo digitale che immediatamente la faceva riapparire.
Solo una parola mi viene in mente ripensando a quel momento: ipocrisia. Per molti di noi le fotografie che sarebbero state scattate in quei giorni contavano solamente un nuovo trofeo attaccato sul muro della scuola, solo un modo per fare bella figura abbracciato a un bambino che magari credeva che quel gesto significasse qualcosa mentre era solo una dimostrazione della falsità e della chiusura mentale di quelle persone che mi vergogno a chiamare compagni di scuola. Accompagnavano le loro pose da giornale con commenti cattivi sui bambini e tiravano i loro sorrisi per fingere un'allegria che non c'era, che si nascondeva tra le lamentele.
I ragazzi più grandi, i futuri uomini e donne che si affacciavano appena adesso alla vita, erano la nostra ultima destinazione per quella giornata.
Alle loro spalle storie tristi, terribili, che non avrei mai pensato potessero appartenere a ragazzi poco più grandi di noi. L'imbarazzo era inevitabile, soprattutto perché noi eravamo in un numero considerevole, perché eravamo in vantaggio rispetto a loro e penso sia stato questo a causare delle reazioni un po' scorbutiche e antipatiche nei nostri confronti. Fu breve ma intenso, un ricordo indelebile anche nella sua bruttezza e nella sua diversità. Perché anche io ero diversa prima di arrivare lì.
Nessuna lacrima è stata versata quel giorno né dai piccoli, né dai più grandicelli ma si sa, l'abitudine è più forte di ogni sentimento e loro ci avevano visti andare via molte volte, noi gruppi italiani in visita, noi, ragazzi fortunati e che eravamo giunti fino a lì per imparare, imparare.
La mattina dopo qualche goccia di pioggia attraversava il cielo e il caldo del giorno prima aveva lasciato il posto a un freddo vento che mi scompigliava i capelli.
Simiu era la nuova città dove avremmo passato la notte quella sera, ma prima di raggiungerla ci aspettava la visita ad un ultimo istituto con ragazzi di tutte le età.
In confronto alle altre visite, quella fu molto rapida. Il posto si trovava in un quartiere e non isolato come negli altri casi.
Nella vista delle piccole camere magari divise da quattro o cinque persone, guardavo un po' imbarazzata i proprietari delle stanze che ci scrutavano con soggezione.
Una ragazza curiosa aveva allungato una mano e aveva toccato ammirata i lunghi capelli ricci di una mia amica che si era spaventata; l'aria era tesa, noi non sapevamo cosa dire, mi sentivo in colpa ad essermi preoccupata di cose così insulse, per quanto ero sciocca, per quanto non contassero i miei problemi in confronto ai loro.
Se solo avessi saputo, se non avessi fatto finta di non vedere prima di andare lì forse adesso un brivido non mi percorrerebbe la schiena ogni volta che ripenso ai singoli gesti, all'imbarazzo nello stringere la mia borsa firmata che lì non contava niente, a preoccuparmi delle scarpe sporche di fango e dei vestiti che avrei messo la sera: quelle erano solo stronzate in confronto e io ero una stronza anche solo pensandole.
Guardando il Danubio sfrecciare davanti agli occhi attraverso il finestrino del pullman, mi ero addormentata con impresso nella mente tutto quello che avevo visto, quello che avevo provato e che mi stringeva il cuore e dalle mie palpebre stanche non ero riuscita a tenere prigioniera una lacrima, che ho prontamente tentato di cancellare con il dorso della mano ma che era sfuggita a quel tentativo impacciato e aveva attraversato la mia guancia morendo sulla mia bocca e lasciandomi così, con un retrogusto amaro/salato in gola.
Quello che vidi il terzo giorno non fu altro che il frutto del commercio e mentre osservavo una piccola statuetta di Dracula in una vetrinetta del borgo medievale in cui ci trovavamo, un bimbo che avrà avuto appena otto anni ha supplicato un euro per mangiare. Sebbene la statura rivelasse la sua vera età, il viso era scavato, provato, quasi invecchiato e pensai, pensai per molto tempo alla mano della mia amica che prendeva una moneta dal borsellino gonfio di soldi e glie la posava sulla mano sporca di terra. Il valore di un euro che per me non era altro che una delle tante fastidiose monetine che occupavano il mio portafoglio ma che, come avevo potuto costatare, in Romania quel cerchietto di metallo spesso non più di due millimetri, aveva il valore di un pasto e per quel bambino erano un tesoro da custodire gelosamente.
La mattina dell'ultimo giorno, immancabilmente avevo appoggiato la fronte al vetro freddo del nostro mezzo di trasporto e avevo osservato le montagne avvicinarsi e la vegetazione cambiare. C'era la neve tra le casette di quel paesino che magicamente si era trasformato in una zona montagnosa e le deboli mura, scrostate dal tempo e dimenticate dalle attenzione degli abitanti, sembravano tremare ad ogni folata di vento che sollevava la neve sui picchi non troppo alti.
Stavamo tornando a Bucarest per partire di nuovo. Era stato un lungo viaggio, pieno di spostamenti ed emozioni, qualche pianto di troppo nascosto da costosi occhiali da sole che ormai per me avevano perso valore. Il cuore mi batteva forte quando avevo scalato l'ultimo gradino, prima di salire in aereo: avevo desiderato ardentemente tornare a casa per tutto il tempo che avevo passato lì, smettere di vedere tutte quelle cose che mi facevano stare male e mi facevano pensare che forse le mie priorità dovrebbero essere diverse eppure, in quel momento in cui finalmente tornavo a casa, avevo desiderato di aver fatto di più per loro, per i bimbi, per la Romania, per un popolo che ancora adesso non riesce a riprendersi e a risanare una profonda crepa. Mi sarebbe piaciuto agire e non guardare, mi sarebbe piaciuto migliorare e non lasciarmi scivolare tutto addosso senza effettivamente pensare a una soluzione per aiutare questo popolo.
Tornerò in Romania, voglio chiudere il conto che ho in sospeso con quel paese, farò tutto ciò che è in mio potere per non vedere più inutili lacrime scorrere dagli occhi dei bambini e dai miei perché nessuno dei due si merita di soffrire solo per la collocazione geografica della propria casa.
Grazie Romania che mi hai fatto capire quant'è brutto il mondo e che anche io posso cambiare le cose se voglio, grazie.
P.S. Grazie a "Bambini in Romania" che mi ha permesso di fare questa bellissima esperienza, che mi ha fatto vivere quattro giorni che mi hanno cambiata, che mi hanno resa migliore e che mi hanno fatto vivere un dolce viaggio anche tra l'amarezza dei problemi e la complessità della psicologia.
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