Deborah Wearing - Oggi, per sempre
Questa è la storia di Deborah e di suo marito, Clive.
Vivevano felici e profondamente innamorati l'uno dell'altra.
Clive era un direttore d'orchestra. La musica era la passione principale della sua vita, come un bisogno, come l'ossigeno.
Ma un giorno la loro spensierata esistenza fu interrotta da un fulmine a ciel sereno: Clive Wearing, contrasse un virus che gli penetrò fin nel cervello distruggendo praticamente tutte le aree essenziali della sua memoria.
Inizialmente si pensava ad una brutta influenza... ma Deborah avvertiva uno strano presagio, e i suoi sospetti furono confermati quando il marito aveva delle dimenticanze, o peggio, si scordava il suo nome.
Chiamavano il medico ogni giorno a casa, e la situazione era preoccupante: la febbre arrivava a 40 e spesso perdeva conoscenza. La moglie gli rivolgeva tutte le premure di cui era capace, lo rassicurava, e lo metteva a letto come un bambino.
Si aggrappava alle ultime, flebili speranze che si trattasse solo di un'influenza, e quelle speranze le davano la forza di andare avanti... quegli ultimi brandelli di fiducia la rassicuravano, erano un rifugio accogliente contro gli incubi peggiori.
Ma la nostra scrittrice dovette scontrarsi ben presto con la dura, lacerante realtà, e fu una vera doccia fredda. La diagnosi fu scovata: encefalite. E stavolta non poteva ignorare la verità quando questa bussa alla tua porta tanto violentemente ed entra nella tua vita, prepotente e scorretta. Non poteva nemmeno rifugiarsi nelle sue illusioni più realistiche: suo marito era malato, e lei si sentiva impotente, inutile.
Improvvisamente il suo bel cielo fatto di uscite, sorrisi, e divertimento era sparito come neve al sole, e una densa nube oscurò tutto quello che si era creata nel corso della vita.
L'unica cosa che poteva fare era stare in ospedale quasi tutto il giorno, davanti al suo capezzale, e guardarlo con occhi amorevoli e un po' nostalgici...
Deborah era letteralmente pietrificata dai fatti paralizzanti che le stavano accadendo. Le sembrava di essere entrata in un tunnel e di non trovare più l'uscita e nemmeno l'entrata. Era un tunnel infinito, senza capo né coda e lei era inghiottita dentro.
Non riusciva a pronunciare la parola "encefalite", non riusciva a piangere: le sue erano lacrime che non arrivavano agli occhi, ma che si fermavano al cuore. Riusciva solo a regalare sorrisi incoraggianti al marito, sempre in stato di semicoscienza.
A casa la segreteria traboccava di messaggi, e Deborah li ascoltava uno per uno, per cercare di trovare conforto. Ma niente, nemmeno le voci di amici, colleghi, famigliari la potevano consolare. Deborah aveva un terrore folle che suo marito non ce l'avrebbe fatta. Ogni giorno interrogava medici e infermiere sulla sua condizione, o se c'erano dei miglioramenti... ma loro davano sempre le stesse risposte: "Troppo presto per dirlo", "clinicamente stabile" o "per i primi tempi" o ancora "non si può essere certi". Nemmeno loro volevano darle false illusioni. Non c'era niente di certo. Suo marito era appeso ad un filo ed era tra la vita e la morte costantemente. La paura che se un giorno avesse perso l'equilibrio e fosse caduto da quel filo era tale, che quando vide Clive mentre aveva un attacco epilettico, i pochi rimasugli di sicurezza che tentavano in modo patetico di scaldare il suo cuore subirono un vero crollo emotivo.
Clive non riusciva più a leggere, né a riconoscere nessuno. Riconosceva solo sua moglie e la amava. Inoltre, un giorno Deborah scoprì che Clive era ancora in grado di leggere e cantare musica! Faceva un grande uso dell'organo, e mentre lui suonava, i parenti che venivano a trovarlo cantavano insieme con lui. Quando suonava sembrava essere tornato il Clive di prima, e solo quando smetteva di suonare tornava al suo stato confusionale. Scriveva le parole con buffi errori di ortografia, e spesso al contrario :"Harobed, it oma!" La sua mente poteva essere immersa nelle tenebre, eppure lui era formidabile in quei giochi enigmistici. I medici non riuscivano a stargli dietro.
Stava entrando in uno stato di euforia con una punta di humour. La confusione lo imprigionava come le mura di una cella, ma in quel non-spazio senza nome, lui traeva il massimo da quanto percepiva. Il suo senso dell' umorismo e il suo spirito creativo erano sempre più irrefrenabili, sembrava un po' come se fosse tornato bambino, e finché uno ride è difficile allarmarsi più di tanto...
Da lì passò ad uno stato di depressione, e per un mese pianse senza sosta. Prima di dormire piangeva, piangeva mangiando, piangeva uscendo, piangeva vestendosi, piangeva andando in bagno. Perfino il mattino, nell'attimo subito dopo il risveglio, grosse lacrime inumidivano i suoi occhi e gli sfocavano la vista. Il cuscino era madido, ma Deborah rimaneva sempre paziente e premurosa.
Le dava fastidio che tutti quanti lo trattavano come un caso clinico affetto da un tic nervoso che simulava soltanto un dolore inesistente, invece che un essere umano straziato dal dolore. Tentò in più modi di fargli dire il motivo per cui era turbato, ma lui non riusciva o non voleva parlarne e così glielo fece scrivere. E con una grafia disperata aveva scritto:"Sono completamente incapace di pensare". Clive era nelle tenebre e sapeva di esserci. Anche se piano piano riusciva a cogliere i dati della realtà che vedeva e udiva, era palesemente incapace di ritenere un'impressione per più d'un batter d'occhio. Letteralmente ad ogni battito di ciglia, le sue palpebre si aprivano su un nuovo scenario e la visione precedente veniva totalmente dimenticata. Questa sua condizione lo lasciava molto scosso. Come poteva un vestito cambiare di colore improvvisamente? Come poteva una stanza cambiare in un baleno? A volte la moglie gli diceva che è stato malato per tanti anni. Lui recepiva il messaggio e ne rimaneva sconvolto, per poi dimenticarsi tutto e rimanere di nuovo sconvolto, e ancora, e ancora...
Rimaneva sbigottito che l'ambiente circostante cambiasse in continuazione. Viveva imprigionato in un eterno presente.
A volte sul suo diario scriveva:"ADESSO sono sveglio per la prima volta!" e poi lo riscriveva nelle ore seguenti... "Prima era tutto in bianco e nero, adesso è tutto colorato".
Clive andava peggiorando e divenne progressivamente più violento. Le grida, gli insulti, gli scoppi d'ira erano terribili...
Deborah sapeva che nonostante tutto, suo marito non se n'era mai andato, era ancora dentro quell'uomo un po' giocoso, un po' depresso, un po' violento. Non le importava dei suoi sbalzi d'umore, le bastava stargli vicino e che non gli accadesse niente di spiacevole.
Passarono tanti anni e arrivò il 2002: Clive migliorava enormemente, le sue capacità erano cresciute e il suo umore era alto.
Clive Wearing, è la prova evidente che si può perdere tutto ciò che sappiamo di noi stessi, e rimanere noi stessi comunque. Pur restando uno dei pazienti più gravi al mondo, è in costante miglioramento.
Deborah Wearing ha condotto una battaglia perché siano create strutture adatte ai malati come suo marito, e ce l'ha fatta, perché adesso c'è un'associazione nazionale britannica per le lesioni cerebrali. Deborah ce l'ha fatta.
Per lei sono stati anni durissimi... non so se al suo posto sarei riuscita a gestire così bene la situazione. Man mano che sfogliavo le pagine, provavo emozioni molto forti e contrastanti: ero molto scossa da come Clive era cambiato per colpa della malattia, ho provato sollievo quando è riuscito a leggere la musica, e ho sofferto per il dolore che provava l'autrice.
Perdere i ricordi, perdere la memoria, perdere tutto quello che ti sei costruito in una vita intera deve essere terribile, e uno non lo può immaginare finché non gli capita. Ma con questo libro la Wearing mi ha dato un assaggio del mondo reale, e con parole commoventi, ma non patetiche. Le sue parole sono piene di forza.
Questo libro è il resoconto fedele della battaglia di Deborah: il ritratto di una donna coraggiosa e soprattutto la storia di un amore più forte di ogni barriera, capace di aprire uno spiraglio di speranza anche nella situazione più drammatica.
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