Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
10ª edizione - (2007)

Un Mendicante

Seduto sul ciglio della strada, la mano tesa, osservavo i lavoratori corricchiare con quell'aria nervosa tipica delle otto di mattina, quando hai avuto appena il tempo di bere un caffè e un'altra pesante giornata ti aspetta in ufficio.
Odiavo quell'aria, odiavo quegli uomini con la ventiquattrore lucida nella mano, odiavo il loro odore sudaticcio e il grasso brillare sulla pelle, che potevo percepire distintamente quando con sprezzo mi passavano vicino.
Odiavo la gente normale che ignorava la mia esistenza.
Odiavo? Odiavo?
Odiavo, ma amavo. Amavo in fondo quegli uomini un po' isterici che passavano ogni giorno alla stessa ora per la via. Loro ormai erano il mio mondo, la mia famiglia, la mia unica vita. Mi legavano al passato, e forse un pochino mi proiettavano anche verso il futuro.
Ogni giorno, da anni, sedevo lì nello stesso punto, e frequentavo quelle persone senza che loro lo se ne accorgessero. Le conoscevo tutte: anche se vivevamo in una grande città, il quartiere era come un paesino, transitato sempre dalle stesse persone.
C'erano quei tanti uomini d'affari in giacca e cravatta, la maggior parte, assidui della metropolitana lì vicino; c'erano donne avvocato, medico, manager, oppure casalinghe che si recavano al supermercato. C'erano i vigili urbani, i panettieri, il netturbino che si alzava prima di tutti, gli studenti con lo zaino in spalla...
Il mio popolo, lo chiamavo io, immobile scrutatore dal ciglio della mia strada.
Avevo frequentato le scuole elementari e le medie, e un liceo prestigioso nella città dov'ero nato, lontano da lì. Ero andato all'università, con risultati brillanti; tutti dicevano che avrei fatto carriera.
Carriera... al giornale l'avevo sperato, mi vedevo grande scrittore acclamato dalla folla e conteso tra i maggiori editori del Paese; ma scrivevo storie un po' strane, e non piacevano quasi a nessuno.
Poi quella vicenda assurda, la scusa che non producevo articoli di successo... in breve, persi il posto. Ne cercai altri, racimolai qualcosa da fare in vari giornali, ma la gente diceva che sapevo solo parlare di ideali per i quali lottare e la lotta non porta denaro; e quindi in pratica non servivo a niente. Ora nessuno pensava più che avrei fatto carriera.
Avrei voluto spaccare la faccia a calci a tutti quei bellimbusti del tempo dell'università, professoroni sicuri del mio successo, amici e compagni di corso che ammiravano i miei scritti, la mia intelligenza, e si complimentavano, e dicevano: "Ti invidio". "Tu farai Successo." "Diventerai Grande e allora potrò dire: 'Io l'ho conosciuto, eravamo insieme all'Università'." Ma chi eravate, chi siete voi, se il mondo non mi ha voluto, cos'è un idealista, solo un fallito, ecco cosa, un perdente farcito di grandi parole e aspettative lontane. Mi avete donato tante chimere, è colpa vostra se sono finito qui.
Qui, sulla strada sporca di una città lontano da casa, a vivere dell'osservazione di chi non mi osserva neanche un istante.
C'era voluto tanto tempo per approdare lì, anni di speranze e di ideali; mai avrei pensato che la vita mi avrebbe condotto a questo fine, a quest'ultimo misero scopo. Con il tempo avevo imparato a non disprezzarmi troppo, a non compatirmi neanche; ormai mi vedevo un uomo normale, soltanto un po' diverso dagli altri. Un tipo originale, in fondo, e chi ha mai considerato l'originalità una sfortuna?
Così eccomi, felicemente rassegnato a vivere uomini frettolosi e ignari, e a tendere la mano sul ciglio della strada.
Pensate che qualcuno mi desse soldi, per caso? Naturalmente no.
Neanche una misera moneta, gettata correndo nel cappello logoro che tenevo in mano. No.
Non ci speravo più, eppure ancora mi chiedevo, qualche volta, perché gli avrebbe dato così fastidio degnarmi di un secondo del loro tempo e di una monetina dalla tasca, di quelle che loro odiano tanto.
Cosa costava, in fondo, mettere una mano nella tasca dei pantaloni, cavare uno spicciolo da loro detestato e lasciarlo cadere nel mio cappello logoro? Qualcuno di quelli, e avrei potuto comprarmi qualcosa da mangiare, evitando di rovistare il bidone della spazzatura come fanno cani e gatti.
Ma un giorno, ripensando al tempo in cui c'erano ancora le mie adorate speranze, ricordai con orrore che non avevo mai, mai dato una monetina a nessuno dei mendicanti, migliaia di poveracci incrociati durante la vita.
Non che gli fossi indifferente, o li disprezzassi; semplicemente ero di fretta, o non avevo spiccioli a portata di mano... a portata di mano avevo sempre però una scusa valida, per allontanare con successo quella spina fastidiosa della coscienza, ecco qual è l'obbrobrio. Dopo questa terrificante scoperta, non osai più condannare quelle persone meschine. Avevo ricordato che le capivo.
Così mi rassegnai alla spazzatura: vita gretta, pensavo brutalmente nei, per fortuna sempre più radi, momenti di sconforto. Ma una buona stella mi guidava: riuscivo sempre a racimolare qualcosa.
E le persone, gli uomini d'affari, le casalinghe, il netturbino, continuavano a passare davanti al mio vecchio cappello logoro fingendo di ignorarne l'esistenza, e adducendo per tener buono il rimorso le stesse malvagie scuse della fretta o degli spiccioli mancanti che avevo usato anch'io un tempo, e che invece mi trovavo a desiderare non fossero mai state inventate.
Una sera come tante, vidi tornare per la strada un avvocato; poi una dottoressa, poi quel professore che pensavo insegnasse nella scuola non lontana. Quindi catturò la mia attenzione un uomo che non avevo mai visto.
Non aveva nulla di particolare: aspetto del tutto ordinario, età indefinibile tra i quaranta e i cinquanta, abbigliamento spartano, aria indifferente. Insomma, niente che potesse renderlo degno di nota ai miei occhi.
Lo vidi arrivare dall'inizio della via, avvicinarsi con passo tranquillo, e lo degnai appena della mia attenzione. Egli arrivò davanti al mio cappello logoro, vi lasciò cadere dentro una monetina e continuò per la sua strada, senza neanche guardarmi.
Quella notte, con una lametta recuperata nella spazzatura, una di quelle lamette ordinarie servite per radere la barba di qualche signore, magari proprio uno di quegli uomini d'affari che vedevo transitarmi davanti in continuazione, con essa mi tolsi la vita: ormai più niente importava per me.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010