Roulettenburg
Questo è l'ultimo, l'ultimissimo gulden; non giocherò più nient'altro e domani, domani tutto finirà!
da Il Giocatore di Fëdor Dostoevskij
Roulettenburg è la città della perdizione, del gioco d'azzardo, della caduta dei valori morali. Forse per una propensione plautina nell'affidare ai nomi le caratteristiche della propria natura, essa viene configurata come la città della roulette russa. Non solo: si staglia alta e imponente tra quelle mille altre burg notturne o pensatrici o quelle complesse strutture fatiscenti al cui interno aleggiano i fantasmi sovietici decaduti al cospetto della Pepsi e delle mafie.
Non si intenda chiaramente far di tutta un'erba un fascio, Dostoevskij era ben lungi dal conoscere gli sviluppi di quella società che già lui stesso disegnava come animata da un seme di autentica follia; quantunque, Roulettenburg è al di fuori da ogni connotazione spaziotemporale, poiché essa rappresenta altresì un luogo concettuale più che fisico: la città ha la capacità di rivoltare le pulsioni umane come un guanto, mettendone a nudo le passioni nascoste e la precaria condizione della razionalità, che va coltivata costantemente tramite l'abile utilizzo della volontà.
Il gioco assume il ruolo di sfida con se stessi e con Dio, di prova che il trascendente vinca contro la realtà contingente dei debiti, degli affanni, delle delusioni amorose. Tutto viene letto in chiave farsesca, ma al contempo è prova, sorte, decisione divina; contestualmente il gioco stesso, il puro susseguirsi di rouge, zero e noir assume una carica fondamentale, si avvicenda forsennatamente tra le membra dei personaggi fino ad ottenerne il dominio e il vero protagonismo nel gioco.
Sapersi intrufolare coscientemente nell'essenza del vizio del gioco, non tramite un'indagine psicologica dei personaggi, quasi contorni e baluardi dell'inconsapevole perdizione oziosa, ma analizzando la roulette stessa come epicentro creatore e ordinatore, porta ad una multiforme allegorizzazione e attualizzazione dell'incosciente aspirazione all'autodistruzione. Possiamo chiamarla tossicodipendenza, anoressia, televisione; troppo simili dapprima le speranze segretamente elette a scopo del proprio vizio, in seguito la desolante lista di effetti collaterali che vengono posti a monito, ma totalmente accantonati quando la dea bendata sembra interessarsi delle sue vittime sacrificali.
Non è intento di queste righe accusare gli Stati che stanno dietro ai nostri vizi, alimentandoli come il fiato sul fuoco acceso, né puntare il dito contro la criminalità organizzata o il degrado della vita del sottoproletariato urbano; né tantomeno esse intendono sostituirsi al sermone domenicale che sospira auspicando tanta xenofobia che ci salvi dalla perdizione demoniaca e viziosa.
Sono righe imprecise, indomite quasi, sembrano seguire quello stesso flusso che tentano di analizzare, scrutare, giudicare; sono avvolte da un'aura di cinismo livido che non vuole più giustificare, né condannare niente, ma che desidera conformarsi alla compassionevole situazione umana: misera.
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