Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
10ª edizione - (2007)

Mediterraneo 66
di Alessia Marta Manera
Menzione d'onore

La camionetta si ferma. Sento un rumore di cancello che si apre. Si rimette in moto.
Le manette mi stringono i polsi, tagliano la pelle, non vedo nulla. Poi, di colpo, la luce di una torcia mi colpisce in volto. Hanno aperto le porte, qualcuno mi dice di scendere.
Ho le gambe atrofizzate per la posizione che mi hanno fatto tenere. Fatico a camminare, cado. Mi rialzano con uno strattone. Esco dalla camionetta, l'aria è fredda. Intorno a me le mura sono altissime…
"Mi chiamo Selima Abuahallan. Sono nigeriana. Ho ventiquattro anni. Sono partita dal mio villaggio due anni fa. Mi avevano detto che in Italia avrei trovato lavoro." Uno ride, l'altro mi guarda, non dice nulla, impassibile. Sono seduta in uno stanzino minuscolo, senza porte o finestre.
Ho paura.
Il primo mi si avvicina, mi sfiora il seno con una mano. Non mi muovo. Sento le sue dita scendere, sempre più in basso, fino alle cosce. Riflesso condizionato che mi fa irrigidire.
Ripenso al primo uomo che mi ha avuta, scaldandomi nel freddo di una notte nel deserto, ripenso al suo corpo stringersi forte intorno al mio, alla vita scorrere nelle mie vene…
Primi del 2004. La luna disegna le nostre sagome nel buio. Siamo partiti insieme, sei mesi fa: "Non ti lascio andar via da sola" mi ha detto.
Ora siamo quasi alla frontiera tra il Marocco e la Spagna. Possiamo già, da lontano, scorgere le torri che sovrastano il muro. Ci fermiamo, mi bacia, mi stringe a sé. A qualche decina di metri da noi ci sono delle persone, si scaldano intorno ad un piccolo fuoco. Stanno aspettando il "momento giusto per passare". Noi aspettiamo quasi un anno: poi ci proviamo. Aspettiamo che la luce passi sopra di noi e iniziamo la scalata. Siamo rapidi ma non basta. Il peperoncino liquido, gettato dagli irroratori, mi brucia gli occhi, le mani sono coperte dai tagli del filo spinato, nonostante gli spessi guanti di pelle. Non vedo più nulla, vado solo avanti, il respiro di Mokawa di fianco al mio. Poi sento un colpo e il tonfo di un corpo che cade. Vorrei urlare ma non posso, vorrei fermarmi e lasciarmi prendere, portare nel deserto d'Algeria, come tutti quelli che "non ci riescono", ma una forza mi trascina via, qualcosa che forse, qualcuno, potrebbe chiamare "istinto di sopravvivenza" ma che per me ha un odore troppo simile alla disperazione. Continuo a scappare e, alla fine, sono al di là del muro…
"Smettila, aspetta almeno la visita medica…" la voce dell'altro risuona dura, secca. Toglie la mano e fa qualche passo indietro, come schiaffeggiato, poi sorride: è solo una questione di tempo.
"E tu, come cazzo sei entrata in Italia? Anzi te la risparmio la risposta… su uno di quei gommoni che voi negri chiamate imbarcazione, vero? Gesù Cristo siete proprio animali, eh? Musulmani e animali, nient'altro. Allora? Non rispondi? È così?"
Tengo gli occhi bassi. Umiliata, disprezzata, non ho forza, né orgoglio. Mi fanno schifo, mi faccio schifo…
"Sì…"
ho speso tutti i soldi che avevo. Ora siamo in settanta sul gommone. Ci sono anche due donne incinte e quattro bambini. Gli altri sono tutti uomini. Volti senza più memoria, spogliati del proprio passato, delle proprie origini, della propria terra. Si tratta di ricominciare. Sul Mediterraneo, nuova Statale 66 del terzo millennio. Stipati come sardine in scatola, verso una felicità nuova, una vita ricostruita senza più la fame, la povertà. La fame che ora ci attanaglia lo stomaco. Apro un pezzo di pane, duro e nero, che mi sono portata nello zaino con pochi vestiti. Ma il viaggio dura più di una settimana e il cibo dopo quattro giorni è finito.
A poco meno di tre chilometri dalla costa siciliana il gommone si ferma. Ora dobbiamo nuotare. Ci impiego un giorno. Quando finalmente mi trascino sulla spiaggia è notte. Mi volto indietro. Non so in quanti ce l'abbiano fatta…
La dottoressa mi guarda. Ha i capelli rossi tenuti indietro da un cerchietto sottile. Mi visita tranquilla, quasi serena.
"Da quanto sei in Italia? When did you come in Italy?"
"Un anno… so l'italiano, grazie." Mi sfiora il braccio, toccando un livido, resto violaceo di un colpo di manganello…
"Ahia" si ferma, lo sguardo diventa improvvisamente duro.
"Questo te lo sei fatto cadendo dalle scale." Non c'è dubbio, domanda, nella voce. La guardo, allucinata, stanca, schifata.
"Hai lavorato nei campi? Hai molti calli sulle mani"
Annuisco…

…Il sole arde la pelle, la brucia, la secca.
Intorno a me solo pomodori, rossi, maturi, quelli che devi raccogliere a poco più di cinquanta centimetri da terra, mentre la schiena ti si spezza e la testa gira.
Mi asciugo il sudore dalla fronte: è solo mezzogiorno, solo mezzogiorno. Ancora sette ore, prima che finisca tutto. Per oggi.
Mi alzo. Guardo questa distesa infinita, sterminata di campi, che prosegue fino al mare.
Supero l'orizzonte e arrivo alla mia terra. Anche là il sole è caldo, tanto, ma non ti disidrata così dal profondo ogni molecola del corpo, non sembra succhiarti la vita con sempre maggior foga e ingordigia.
Pomodori tutti i giorni, per dodici ore al giorno, per cinquecento euro al mese e una roulotte da condividere con altre sei persone, tutte come me, tutte clandestine. Ho la terra nei capelli, e sulla pelle. Una terra che non è la mia e che mi chiedo se mi apparterrà mai.
Il sorvegliante mi urla qualcosa, mi devo sbrigare. Mi chino e un altro frutto, maturo, scivola grasso dentro il cesto…
La dottoressa se ne è andata, mi hanno fatto ritornare nella stanza. Ora c'è solo lui. Mi dice di svestirmi, si avvicina, ride. Non riesco a muovermi. Inizia a urlare, poi mi tira uno schiaffo. Cado per terra. È sopra di me. Il pavimento è gelido… non capisco più nulla… non sento più nulla…
Mi portano in una cella. Ci sono una madre e con i suoi due bambini e quattro ragazze. Nessuno dice nulla. Poi una di loro mi guarda negli occhi.
"È stato quello basso, vero? Quello con il tatuaggio sul braccio?" La fisso, non ho neanche la forza per annuire.
"Lo fa con tutte quel pezzo di merda…" un muscolo si contrae sulla sua faccia, un guizzo veloce di dolore, di rabbia, di odio - be', benvenuta in via Corelli.

Questa storia nasce dalla lettura di Furore di Steinbeck, un romanzo che racconta di migrazioni e della ricerca di una nuova "felicità" lontano dalla propria terra. È' una storia che nasce dalla necessità di parlare di razzismo e di persone trasformate in fantasmi, in oggetti, in strumenti di lavoro da eliminare quando non più funzionali.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010