Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
10ª edizione - (2007)

Venezia del Baltico
di Pavel Saveliev
Menzione d'onore

"Anche voi a Pavlovsk?"chiese d'un tratto il principe."Ma cos'è, qui vanno tutti a Pavlovsk, insomma? E voi dite di avere là una dača di vostra proprietà?"
"Non vanno tutti a Pavlovsk. Ivan Petrovič Pritsyn Ha affidato a me una delle dače che aveva trovato a buon mercato. Si sta bene, è su un'altura, nel verde, la vita non è cara, è un posto decoroso, si ascolta la musica, ecco perché vanno tutti a Pavlovsk.

da L'idiota, di Fëdor Dostoevskij


Sono le sette di sera. Mi trovo nel paese dagli otto fusi orari, fermo a una stazione della metropolitana di San Pietroburgo. Batto i piedi nervosamente: il treno tarda ad arrivare.
La metropolitana russa è il più grande zoo umano presente al di sotto della crosta terrestre. In questo mattatoio multiforme gli animali umani mangiano, bevono, leggono, a qualcuno, dal reddito poco soddisfacente, capita anche di passarci notti insonni. Come ultimo, futile scopo, si spostano da una parte all'altra della metropoli. Bisogna essere provvisti di dodici rubli, equivalente a un caffè scadente ordinato nella terra dove fioriscono i limoni, per poter usufruire appieno di tutte le sue proposte: il ladraccio da quattro soldi, infilante con disinvoltura la mano nelle tasche altrui per racimolare qualche spicciolo alcolico; la donna dai facili costumi, che indossa la pelliccia anche a luglio inoltrato, per dar a tutti i presenti sapere che essere tanto fallito non è per potersela permettere; gli alcolisti anonimi. Che sono anonimi perché il proprio nome di battesimo non se lo ricordano nemmeno, così persi fra le braccia del Dio Bacco, così amici intimi del vodkino a colazione. Un anno fa è entrato in vigore il divieto di bere bevande alcoliche in metropolitana, una luce dal buio si potrebbe dire, se non fosse che vietare a uno slavo di deglutire pian piano il suo bicchierino è paragonabile al cercare di far stare zitti i partecipanti al processo di Biscardi.
Dopo aver pagato il gettone, è di fondamentale importanza riuscire a ritagliarsi un posto sulle scale mobili, un po' come trovare parcheggio a Milano nella settimana della moda. Sulla parte destra, mi raccomando. La corsia di sinistra è riservata agli pseudo manager, che inscenano ritardi impensabili e corse dell'ultimo minuto in stile Mille Miglia. Ma in realtà il ghetto spensierato della parte destra della scala mobile lo sa, che l'apice giornaliero dello pseudo manager sarà quello di prendersi con fare importante e mediterraneo"un caffè espresso, per favore". Dalla percentuale acquosa dell'ottanta per cento. D'accordo, ora che il mio habitat di 30 x 30 centimetri l'ho trovato, posso solamente aspettare di arrivare alla fine della discesa. Ma la fine non c'è. È probabilmente questo che potrebbe pensare un fantomatico turista, lo chiameremo Johnny (londinese, con grande esperienza in fatto di trasporti pubblici sotterranei), capitato nella metropolitana pietroburghese se non per caso, almeno per aver letto la prima pagina di una guida turistica. Incominciano lentamente a scendere goccioline di sudore, il battito cardiaco aumenta, vorrebbe bestemmiare, ma nella lingua inglese le bestemmie non sono riuscite ad avere una traduzione. Quindi tace. E aspetta di finire nelle fauci di Lucifero entro breve con un biglietto di sola andata, chissà. Con suo grande sollievo vede una luce avvicinarsi dal basso, la discesa è finita, e ha fatto a meno di insultare l'Onnipotente. Ma ora lasciamo Johnny alle sue faccende turistiche, peccato si sia messo ad aspettare il treno sul binario sbagliato. Entro dieci minuti uscirà nel quartiere più mafioso della sponda Baltica, e si ritroverà in un fosso bagnato senza un rene. Occhio, qui non è Montecarlo, Johnny.
Di tanto in tanto si sentono avvisi, dal timbro inconfondibilmente comunista, dall'altoparlante:"I giovani abbiano l'accortezza di aiutare le persone anziane e invalide a scendere dal treno, a salire sulle scali mobili, a tener loro le borse, a ...". Già. E magari mi faccio anche incoronare paladino degli ultrasessantenni. Questo è ciò che in realtà pensano i teenager al giorno d'oggi. Non sono nell'ora di punta, fortunatamente, e ad entrare nel vagone ci impiego poco meno di un minuto."Осторожно, двери закрываются"."Attenzione, le porte si stanno chiudendo". Non è una semplice frase di routine dimenticata da Gorbaciov di esser tolta, sareste degli sciocchi ad averlo solo minimamente pensato. Perché le porte qui si chiudono quando e come vogliono loro, un solo aspetto non cambia mai: la velocità con cui si chiudono è paragonabile a un battito di ciglia. Innumerevoli persone qui hanno perso mani, dita, nasi, perfino capelli. I coltelli giapponesi possono andare in vacanza. Bene, o male, sono dentro, sono stato baciato dalla Fortuna e stasera ho il permesso di festeggiare l'avvenimento fino a tarda notte. Ma non parliamone adesso, qui la privacy è portata al firmamento: sotto terra ci si abbandona al gioco del silenzio. E se provate a raccontare al vostro compagno di viaggio com'è andata la gita a Montelupo di Sopra con vostro zio, sappiate che il quattrocchi là in fondo, sì proprio quello, ne sarà al corrente fino ai minimi particolari. Mi trovo in mezzo al vagone, devo scendere fra quattro fermate. È meglio prepararsi a uscire adesso. La discesa dal treno va preorganizzata qui, un po' come prenotare un volo per Capodanno cercando di spender poco. Esco. Sorpresa. Credevate L'Ermitage fosse sulle sponde della Neva, e invece no, l'incipit parte già da qui, cento metri sotto l'aria aperta. Ogni stazione è un quadretto, costruito con dedizione, dei valori in vigore fino a quindici anni fa. Qui è scritta una lode in onore allo sport, qui una poesia di Puskin, qui una birra dimenticata da qualche profanatore del patrimonio dell'umanità. Salgo in superficie.
Esco. Mi accendo una sigaretta. Il fumo è denso, ed è ancora più denso perché c'è un simpatico sole a risaltarne la qualità cancerogene. A passi veloci attraverso la piazza del mercato ortosociofrutticolo, una sorta di agorà dei poveri, delimitata da alti e enormi casermoni che incombono sui passanti come spie del Kgb. Evito scomode onde sonore che declamano le eroiche imprese delle banane in esposizione. Le Muse in questione sono delle anziane signore dalla pensione magra, che stazionano qui per metà giornata, mettendo a dura prova le loro poco atletiche gambe.
Alla stazione ferroviaria mi faccio breccia fra bambini, anziani e fetori nauseabondi, sintomo di degrado e spazzini troppo pigri. Farfuglio, barcollo, cado. Mi faccio male, ma ne è valsa la pena perché sono di fronte allo sportello della biglietteria. Dall'altra parte del sudicio vetro mi fissa torva una signora di mezz'età, dalle rughe ben visibili e dai capelli innaturalmente biondi. Chissà che impegno nel farsi la tinta.
"Un biglietto per Solnečnoe, per favore."
"Per dove?"
"Per Solnečnoe!"abbaio dall'altra parte.
"Ma come sei vestito?"
"Mi scusi?"
"Guarda che occhiali che c'hai addosso!"
Si tratta di un paio di RayBan nuovi di zecca, per i quali avevo messo soldi da parte per mesi e mesi, scomodando mamma, forza di volontà e paghetta settimanale. Mi dico di stare calmo, in fondo, dài, è mia compatriota e il crollo dell'URSS evidentemente l'ha colpita in piena nuca. Ma il biondo platino era lì a infastidirmi l'occhio come la sirena di un'ambulanza in piena notte.
"Senta, mi dia il biglietto che sono in ritardo, per favore."
Pago con la celerità di un centometrista, per togliermi quella fastidiosa visione di dosso il più presto possibile.
La piattaforma d'attesa è un melting pot, un autoscontro di esseri umani unico nonché raro. Punk dall'aria arrabbiata, giovani manager, famiglie sorridenti che sembrano appena uscite da una pubblicità di biscotti per la prima colazione si ritrovano qui tutti assieme, quasi a celebrare un evento epocale: un'ondata di caldo improvvisa o chissà, una vittoria improbabile ai Mondiali di calcio. L'avvenimento epocale, però, c'è davvero: è venerdì e si va tutti al mare dopo il settimanale corricorri lavorativo. Davanti a me c'è Willy il Coyote sul bordo del Gran Canyon, un bambino sui dieci anni che gioca col piede a valicare la famosa linea gialla in grado di rimandarti al Creatore. Mi prendo a cuore il suo epicentro altalenante, soprattutto perché nei paraggi c'è suo fratello che pare molto divertito all'idea di una sua possibile caduta sul ferro delle rotaie. Ma ecco il fischio del treno, per fortuna.
Prepariamoci a diventare omini formato tascabile, se vogliamo ritagliarci un posticino dentro il ciùf ciùf elettrico. Ci vogliono tre quarti d'ora per giungere a destinazione. Un uomo normale in quarantacinque minuti è in grado di organizzarsi le vacanze estive, comprarsi una camicia e fantasticare sul futuro dell'umanità; io no, stipato come una sardina ad assaporare odori umani altrui. Come tanti atomi impazziti compaiono venditori ambulanti, probabilmente il secondo mestiere più antico al mondo. I loro articoli spaziano dagli accendini ai mini k-way, da matrioške arrabbiate a manuali per giardinieri tuttofare. L'offerta di un mercato di Pechino chiuderebbe i battenti davanti a un simile scenario.
"Prossima fermata, Solnečnoe."
Nella lingua del Bel Paese, Solnečnoe suonerebbe come"Solare". Un bell'espediente per attirare turisti dalle costosissime macchine fotografiche, anche se di viaggiatori occidentali qui se ne vedono ben pochi.
Esco. Mi fermo. Alzo gli occhi al cielo. Respiro betulle, mi drogo di odori sempreverdi. Mi dirigo verso la mia reggia lignea, a metà strada fra la stazione e il golfo di Finlandia ( i russi sono profondamente offesi per quest'appropriazione indebita).
Immerso nel verde, lontano dal vivere umano associato. Entro in una delle tante casette di legno, sparpagliate vicino al mare come i puntini di un tessuto a pois. L'acqua corrente e il riscaldamento qui sono un lusso. È lo stato di natura ad avere la meglio.
Una camera dagli spazi ristretti, una stufa, due letti scricchiolanti e un tappeto di produzione sovietica sono i miei silenziosi compagni di lettura serale. Accanto a me altre camere, abitate da giovani, vecchi, sposati e scapoli. Si è tutti uguali qui dentro. E si è ancora più uguali quando in comune ci sono una cucina e un bagno. Per gli schizzinosi questo posto è come gennaio per i freddolosi. Un nemico da evitare.
La serata si prospettava pigra e noiosa. Il sole era ancora alto - siamo sul Baltico qui, mica a Nardò - e io osservavo con dolce compiacimento allungarsi le ombre degli alberi, attraverso quello sporco obbiettivo che era il doppio vetro della mia finestra. Non si è mai troppo cauti, quando i vandali postsovietici si aggirano per le stradine come sciacalli in cerca di una preda facile.
Le dieci. Sento il passero meccanico dell'orologio a muro che lo declama felicemente, furba invenzione di uno spazio-tempo in cui se avevi la tivù eri un re, e se non ce l'avevi eri un fedele esecutore della teoria bolscevica. Un virtuoso insomma, con il cinema Lumiére casalingo o senza. Erano le dieci di sera e i miei amici slavi non si erano ancora fatti vivi. Forse un'attraente bionda sul loro cammino, chissà, o mezzo litro di vodka gli aveva reso la marcia verso la mia dimora eccessivamente scomoda. Aspettavo.
Aspettavo aspettando. Uno sforzo doppio. La notte è giovane, io sono giovane eppure sono rintanato qui. Come un prigioniero di guerra.
Fra le mani tenevo uno dei capolavori di Dostoevskij: L'Idiota. Il protagonista psicologicamente instabile si muoveva dentro quelli spazi verdi in cui mi trovavo in quel momento, e mi sentii partecipe della vicenda a modo mio. Aspettavo speranzoso, d'altra parte: eccomi lì, idiota all'ennesima potenza. Mi addormento.
Sto dormendo sogni profondi e succosi, quando sento aprirsi la porta di camera mia. Gli slavi sono persone con un alto senso di privacy. La privacy slava conosce un solo nemico: l'alcol. I miei compagni di ventura hanno evidentemente molta voglia di riempirsi il sangue di qualche brodaglia alcolica, per essersi addentrati dentro il mio rifugio senza nemmeno bussare. E così è. Пошли бухать –"Andiamo a bere". Le ultime parole famose. Per qualche inspiegabile motivo decido di vestirmi elegante per quell'occasione, per quanto il mio guardaroba contenga indumenti relativamente informali, e per quanto una sbronza prima dell'ora di cena non necessiti di tali accortezze. Trentacinque rubli, equivalenti a poco più di un euro, è un prezzo moderatamente onesto per un cocktail da un litro e mezzo dalla percentuale alcolica del quindici per cento. A questo va aggiunto il pacchetto di Marlboro, trenta rubli, questa volta sufficienti per prendersi un caffè rispettabile nella terra dei limoni.
Ci avviamo lungo la costa, coi piedi bagnati dal golfo di Finlandia, verso una collinetta poco lontano, collinetta che offriva un'amena vista su quel panorama nordico. Le spiagge che trovano ubicazione al di sopra di Amburgo sono precedute dal bosco, che arriva a una ventina di metri dal mare, creando così uno spettacolo a suo modo selvaggio, che di sicuro la rinomata Rimini-Riccione non offre in omaggio con la sdraio e l'ombrellone. Ci sediamo, sono oramai le undici, ma il sole non ne vuole ancora sapere di calare, e noi, di sicuro, non gliene facciamo un torto. Il tempo si ferma: ci siamo solo noi, il nostro alcol, le nostre sigarette e un'amica poco attraente che passa proprio sotto di noi. Va a una festa sulla spiaggia, a quanto pare ci sarà anche lo spogliarello, femminile, ben inteso. Spogliarello? Che parola eccitante, dobbiamo aver pensato tutti allo stesso tempo, noi veneratori del Dio Bacco, infischiandocene di dover andare fino a lì in compagnia della nostra amica amante del colesterolo alto. Inutile dire che lo spogliarello tanto annunziato non s'aveva da fare. Al che i miei amici, fedeli alla regola"o questo o niente", se ne vanno. Lasciandomi da solo li, in preda ai fumi dell'alcol, in mezzo a gente sconosciuta.
Sono sempre felice di mantenere buoni rapporti anche con ragazze a cui Madre Natura non ha dato certi pregi, perché inevitabilmente nel loro repertorio di amiche e conoscenti rientra sempre e comunque una qualche ragazza che, al contrario, con Madre Natura ci ha fatto anche un aperitivo ed è riuscita a scendere a patti. Uno di questi furbi esseri femminili si trova poco distante da me. Dio, è proprio bella, penso fra me e me. La compagnia si raduna, siamo in quattro, tre ragazze e un maschio spaventato in mezzo a un habitat ostile, il sottoscritto.
"È tempo di presentarci" mormoro.
"Piacere, Valeria" dice lei, guardando da un'altra parte, per timidezza o, chissà, per menefreghismo.
"Piacere, Zoe" dice l'altra guardandomi sì negli occhi, ma con fare distaccato, facendomi intendere che di sicuro non le interessavo.
"E meno male" penso con sorriso poco marcato. Il nome del mio Cicerone femminile lo so già, Katja, o Katjusha, come la chiamo io, quando ho bisogno di un qualche favore. L'amica Zoe, che gentile, per festeggiare l'indimenticabile incontro voluto dalla Provvidenza divina, va a comprare con fare disinvolto tre bottiglie di champagne direttamente al banco, mostrando a tutti la sua discendenza non esattamente bolscevica. Di aprir bocca non ne ho voglia, di sforzarmi di entrare in contatto uditivo con la loro conversazione nemmeno, e così approfitto di un remix di Born Slippy, ricordo degli oramai tramontati anni Novanta, per andare a ballare. Noto con la coda dell'occhio che subito dopo di me si alza anche Valeria, Lera per gli amici, che con passo felpato mi segue fino al palco da ballo. Il battito cardiaco, in modo lento ma costante, s'intensifica, mi giro verso di lei, accenno un sorriso e la prendo per mano. È brava a ballare, il ritmo lo percepisce pur non essendo di San Paolo, ha un bel fisico, non si trucca, non fa nulla di appariscente, eppure è impossibile non notarla in mezzo alla folla. Le russe sono così: il mascara e il lucida-labbra sono optional di cui possono fare a meno, nulla togliendo alle rinomate bellezze mediterranee che non si tirano indietro davanti all'ultima uscita in fatto di make-up di Esteé Lauder.
Due ore son passate in un battito di ciglia, ora distinguo solo lei in mezzo al frastuono della musica e alle luci pseudo-psichedeliche. Sono stanco, ho bisogno di una pausa, le mie gambe non son più quelle di una volta. Andiamo in riva al mare, c'è tanta gente intorno, ma sono particolari, questi, che alle tre del mattino sfumano come parole al vento. Fa quasi senso toccarla, si ha paura d'inquinare un qualcosa d'incontaminato. Ma lo faccio, con, lo ammetto, un certo qual senso di perdizione e insicurezza. A volte l'istinto ha la meglio.
Una settimana e mezzo più tardi, all'aeroporto di Pulkovo, osservando la pista di atterraggio, percepisco un qualcosa di bagnato sulla guancia, una lacrima, un ospite inaspettato. Fra tre ore ci separeranno tremila chilometri e una legge, quella della leva militare, che mi tiene sotto scacco per i prossimi dieci anni.
Prenderò un aperitivo con la Dea Bendata, scenderò a patti.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010