Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
10ª edizione - (2007)

Un'esperienza di lettura da "I Fisici" di Friedrich Dürrenmatt
di Nicolò Caminada
Primo premio

Mi apparve l'aureo re Salomone. Sedevo placidamente, in grembo gli spigoli del libretto bianco che stavo leggendo, quando in fondo alla stanza si materializzò quella figura: alta, larga, ieratica, ferma contro la parete giallo crema. Lo riconobbi all'istante, appena posai le mie retine sulla sua sagoma, intuii la potenza che il suo sguardo penetrante rifletteva contro di me, a grandi ondate, una potenza immane, prostrante. Mi inchinai quasi impercettibilmente, flettendo il busto in avanti di pochi gradi. Non riuscii a decifrare l'occhiata di rimando, un lampo di luce distorto, un bagliore violento e abbacinante. Sbattei nervosamente le palpebre, stordito, e intravidi Salomone avvicinarsi lentamente a me. Procedeva in linea retta, trascinando sul parquet i lembi del mantello porpora che gli copriva le spalle, quasi fluttuando a pochi centimetri da terra.
Nella stanza, che prima mi sembrava vuota, comparvero un divanetto verde acido, un televisore al plasma, due armadi e un tavolino, su cui occhieggiava un vassoio di marrons glacés. L'aureo re si fermò a brevissima distanza dal mio sedile di metallo, mostrando ora, nel pieno cono di luce di quello che sembrava il sole (al chiuso?), i suoi lineamenti maestosi. Non osai voltarmi all'indietro, tanto intensamente mi teneva agganciato al suo volto con la sua marmorea espressione. Restò in silenzio, io, per parte mia, non proferii parola. Una trama di impulsi nervosi in crescendo, quello assaltava, io subivo, stregato dalla sua magnifica aura. Dopo pochi attimi, confusi paurosamente con i centimetri che ci separavano, le sopracciglia nere di Salomone si storsero, assumendo una posa crudele. Fu improvviso, veemente, atroce. Restai attonito, persi ogni difesa, provai la tentazione di alzarmi per poi gettarmi ai suoi piedi, afferrare le sue caviglie auree e invocare la sua pietà, chiedergli di scagliare via quella soggezione malsana che mi ancorava al muto muoversi dei suoi zigomi regali, chiedergli di lasciarmi andare via da quella stanza, scatola dai mostruosi bordi giallo crema. Capì, me lo impedì e, sfoderando una voce chiara, ampia, ferrea, mi disse:
"Tu stai diventando pazzo".
Niente di più… vero. Grazie, supremo re Salomone. Ecco perché sentivo di stazionare in una dimensione così diversa dal reale. Tutto così freddo, il colore orrendo di quei muri, l'odore denso di alcol e ammoniaca che lo schienale della mia sedia emanava, ma certo, che diamine, ero in un manicomio dell'anima. Forse anche in un manicomio per il corpo.
Il re mi illustrò la sua scienza, senza mai distogliere da me la gravità del suo sguardo. Parlò con la sua possente voce, tratteggiando con essa nell'aria regolari coniche, equazioni oscure, occulte, flussi di particelle palpitanti, aprendo la strada a quella che sarebbe stata la mia missione, istruendomi sul lavoro che ancora dovevo compiere. Io lo seguivo in estasi, perduto dietro alla traiettoria delle sue sillabe, e annuendo stupefatto a ogni osservazione, ogni formula, ogni principio, ogni legge che il movimento delle sue labbra plasmasse, che seguivo mentre con esse creava la multiforme costituzione dell'intero universo, come fossero i vetrini mobili di un policromo caleidoscopio. Parlando, Salomone diventava gradualmente sempre più alto, statuario, imponente, ergendosi al di sopra della mia testa bollente in rimescolamento come un nero massiccio montuoso dai fianchi impraticabili, dalle selle irraggiungibili. Finii quasi per non scorgere più il suo impenetrabile volto, mentre la sua voce, mano a mano sempre più forte, si fece tanto sostenuta da rompere chissà quali argini, fino a sommergere improvvisamente e furiosamente le mie orecchie e i miei timpani, li forò, entrò nel mio cranio e cominciò a farsi largo con veemenza tra le pieghe del mio cervello.
Sentii una specie di violento schianto e rivoli di dolore lancinante che mi attraversavano l'occipite, un gorgoglio che risaliva la schiena, accompagnato da un potente brivido freddo.
Gli occhi si chiusero, il nervo ottico impazzito cominciò improvvisamente a proiettare sulla nera parete interna delle mie palpebre immagini virulente di lettere e numeri colorati sparati a raffica da cannoni grigi, interi filari di effigi del re Salomone che scorrevano come immagini di Andy Warhol, e in sottofondo l'armoniosa grazia di un concerto per pianoforte, già sentito, ma non ricordavo bene dove, come colonna sonora di un delirio dissonante e crudo, sulla quale gli echi della voce dell'aureo re continuavano a cantare, con ininterrotta forza, banali canzoni d'amore.
Il concerto si interruppe, sfociando in un buio fitto, totale, profondo e insondabile. Anche gli ultimi echi dell'orrida voce si spensero, pur con lieve fatica, come smorzati di colpo e travolti da qualcosa di ancora più forte di loro. Nel giro incantato di pochi, neri minuti, potei di nuovo avere la forza di sollevare il sipario calato delle mie palpebre. La stanza era sempre uguale, incolume nonostante la vivida esplosione di sensi che avevo appena spaventosamente vissuto. Davanti a me, immenso come prima, il viso carico del suo solito sguardo feroce e grave, il re Salomone, seduto per terra con le gambe incrociate.
Ero pazzo, forse lo ero sempre stato; custodivo il segreto della scienza, e una scintilla sulla tempia del sovrano me lo indicò con ancora maggiore chiarezza. Bene, sentivo in corpo un potere straordinario. I miei muscoli si muovevano al ritmo dell'universo, alzavo una mano e costruivo una dimensione, piegavo le dita e ne distruggevo un'altra. Mi sentii in dovere di mostrare al mio re quello che ero ora in grado di fare. Mi alzai, posando il mio librettino bianco sul sedile di metallo, e mi esposi alla sua aurea alterigia in tutta la mia piccolezza corporale. Quegli mosse la testa nella mia direzione, preparandosi a guardarmi.
Mi girai verso una delle pareti giallo crema, distesi le mani e, lucidamente, ripiegando di colpo a mo' di pugno le dita, rasi al suolo un villaggio di campagna di pochi abitanti, facendolo dissolvere in un'ondata di luce. Mi volsi di novanta gradi, verso un'altra parete e le mie mani devastarono l'intera campagna, mi girai fulmineamente verso la terza parete, sempre più carico di energia, e abbattei una città, schiacciandola sotto il peso di una bolla d'ombra, mi girai verso la quarta parete e, concentrato in uno sforzo supremo… distrussi l'umanità.
Il re stava, impassibile, seduto a guardare i miei prodigi, mentre la sua magnifica aura manteneva, anche se un po' disturbata, l'aspetto di grandiosa potenza che gli conferiva. Lo guardai felice, sovreccitato, sconvolto dall'incommensurabile potere che mi aveva donato. Lo vidi piegare leggermente verso destra l'immobile testa. Sul fondo della stanza si aprì una porta, entrarono due omini vestiti di bianco con buffi berretti cilindrici, il primo dei quali recava con sé un piccolo groviglio bianco di qualcosa che pareva distintamente un ammasso di panni. Il re disse loro, posato:
"Prendetelo."
Gli omini si gettarono su di me, e mescolammo e scontrammo i nostri muscoli in una piccola colluttazione, durante la quale ricevetti svariati manrovesci. Puntando contro di loro il mio indice, sperai di terminarli e non ci riuscii, riprovai a metterli fuori gioco sputando loro negli occhi, ma neanche questo successivo tentativo riuscì, mi dimenai, tirando colpi e battute forti a destra e a manca, senza abbassare la guardia, e mi ribellai alla violenza dei loro strattoni, e alle salde strette dei loro pugni, che mi ghermivano gli avambracci. Persi la lotta, e mi ritrovai ingabbiato nelle morbide tubature di una elastica camicia di forza. L'espressione scura dei due omini fu ulteriormente ammorbata da tremendi sorrisi, nel vedere il furore dei miei sguardi delusi, ancora presi dai residui della schizofrenia del combattimento appena avvenuto. Eppure avevo distrutto l'umanità. Il re Salomone mi chiamò per nome. Mi voltai molto lentamente verso di lui, ancora raggelato dalla metallica durezza di quella dannata voce, ponendo la massima attenzione in ogni minimo movimento dei muscoli del mio collo. Il mio sguardo incrociò quello del re. Ci scambiammo uno sguardo fulminante, di odio e tremenda e potente soddisfazione. Ci ritrovammo a scontrarci con gli occhi, erigendo barriere di nervi dietro la fatiscente patina delle nostre sclerotiche. E fui io il primo a crollare. Il re sorrise. Distese le linee del suo volto di granito in un'arcata morbida e flessuosa, stemperando la sua truce magnificenza in un pacato sorriso. E scoppiò a ridere. Mi mise una mano sulla testa, premette con le dita e mi spappolò cranio e cervello tutti assieme. L'ultima cosa che sentii prima di risvegliarmi dalla mia pazzia fu un fortissimo puzzo di alcol e di pane appena sformato nel reparto panetteria di un supermercato.
Al mio ritorno, mi ritrovai nel morbido incavo della mia fresca poltrona, un libretto bianco nelle mani, in un'ariosa camera dalle pareti verdastre. Sul tavolino di cristallo davanti a me stava un vaso di terracotta con della terra e dei gerani rossi. Un vassoio pieno di briciole mostrava le ultime tracce, reliquie di marrons glacès voracemente mangiati. Mi risollevai lentamente, attonito, tastandomi i capelli per cercare di ritrovare tracce di sangue sul cranio spappolato, ma mi accorsi che era intatta, mentre una musichetta da camera si diffondeva, suadente, nell'ambiente ovattato della stanza. Lasciai il libretto bianco sul cuscino raggrinzito della poltrona e, catatonico, mi spinsi verso la finestra sulla parete di fondo per prendere una boccata d'aria. Mi spingevo avanti con passi lenti, misurati, dolci, lievemente traballanti. Il viaggio sembrava interminabile. Arrivai, senza guardare fuori, girai con furore la maniglia, spalancai le ante di vetro e temerariamente immisi il mio viso nel vento, sporgendo le guance nel vuoto luminoso. Fu un impatto duro, potente.
I miei occhi contemplarono città in rovina, pilastri di fumo grigio che si ergevano su pianure deserte, macerie scure ammucchiate, occhi infelici sparsi su strade di asfalto crepato, cassette di frutta rovesciate, fontane di acqua sporca, stracci, cumuli di carcasse, un cielo nero come il carbone, piogge orride di sangue, crudi polveroni di cenere, cani fulminati, oceani gonfi e torbidi, montagne divorate dal fuoco, correnti d'aria malsana che investivano uomini di marmo, moncherini di carne umana morsi dalla luce di una luna livida, che dominava le nubi come l'occhio fermo e feroce di un qualche dio. Le mie narici respirarono gli effluvi di un tremendo maestrale di morte. In lontananza, sotto lo scheletro nodoso di un albero annerito dal calore di una fiamma, c'erano due fisici con il camice bianco, uno che suonava concentrato un violino, l'altro che ridisegnava il mondo su di una grande lavagna.
Con tranquillità, ritrassi in dentro la testa e chiusi la finestra. La maniglia scattò. I vetri, da luminosi che erano, si tinsero di nero. Tornai lentamente alla poltrona. Mi ci risedetti, non badando al sottile libretto bianco che faceva capolino da sopra il cuscino. Mi misi in posa rilassata, appoggiando i piedi infilati in belle scarpe da ginnastica sul tavolino da cristallo in fronte a me, dando così con essi un colpo al vassoio argentato vuoto. Le mie braccia, come guidate da ingestibili riflessi, si disposero conserte quasi senza che io lo volessi. Guardai dritto davanti a me, per un po', immerso in indefinite riflessioni. Passò qualche minuto e scoppiai a ridere.


»Torna all'elenco dei testi
»Torna all'elenco delle edizioni

Copyright © 1999 - Comitato per Sofia - Tutti i diritti riservati.
Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010