Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
1ª edizione - (1998)

Kurtz

Ogni cosa gli apparteneva, ma ciò non significava gran che.
Quel che era importante, era di sapere a che cosa egli
appartenesse, quali tenebrosi poteri lo rivendicassero per proprio.

Joseph Conrad

Spalanco gli occhi.
Convulsi brandelli di sogno, di incubo, vengono improvvisamente avviluppati dalla luce tagliente che filtra dal tessuto liso della tenda, di fronte a me. Consumati dal fulgore del giorno, questi si accartocciano agonizzando e sfioriscono in scintille che, come spesso accade, dopo essersi depositate in profondità, vibrando riemergono prepotentemente, come effimere reminiscenze di altre vite. Sto tremando. Mi sento il mattino nelle ossa. Quando, con fatica, tento di issarmi sulla branda, questa mi implora scricchiolando. Odio l'odore brusco del legno tagliato, quello inebriante della paglia, l'olezzo delle stoffe consunte e mucide; odio l'alcool di seconda scelta che mi impasta la bocca. Mi accascio nuovamente sulla paglia sudicia del materasso. I resti anneriti del falò, là fuori, respirano ancora; e il fumo denso e oleoso impregna il pagliericcio della capanna. - Che incubo orribile. Luoghi lontani, sconosciuti - o no? - grovigli di luci e strade chiassose, ricordi del passato, forse. Strane urla dolorose. L'acqua torbida che mi chiama. Un fiume - Ho bisogno di bere. Portatemi dell'acqua! La voce in gola mi si spezza in rantoli convulsi di tosse. Nessuno accorre in mio aiuto? Maledetti! Nessuno mi sente morire? Fra gli spasmi le mie dita anemiche trovano il ceppo che funge da comodino, vicino alla branda, e lo afferrano; un colpo di tosse, un gesto brusco e la preziosa lanterna delle letture notturne, prima in bilico sul ceppo, è ora solo una carcassa metallica accartocciata sulla fangosa superficie, piccola, a dire il vero, della capanna. Dovrò farmi arrivare un'altra lanterna dall'Europa; assolutamente. Non so per quanto tempo rimango immobile a contemplare, con occhi sanguigni e assenti, la miriade di vetri sparsi in terra. E quando, intorpidito e squassato da un sonno inquieto, riesco finalmente ad alzarmi dalla branda e a scostare la tenda, insofferenza e irritazione diventano confuso stupore. Sulla foresta il sole è già alto, e la sua luce pervade grevemente l'insolito silenzio della Stazione: deserta.
"Un ragazzo brillante e coraggioso!" dicevano, "E che talento!", "Lui sì che farà strada!" affermavano sicuri con devota ammirazione. Ho cominciato con un foglio, una penna e tante idee. Poi le pubblicazioni. La fama. I salotti letterari. I ricevimenti. La villa fresca e splendente, appena fuori città. Tanto denaro, sì. Ma non abbastanza. Denaro
Una sterlina.. È tutto ciò che riesco a trovare quando frugo nelle tasche ampie e sgualcite della mia casacca color kaki. Un'unica, scintillante, perfetta sterlina. Strano. E altrettanto strana è questa atmosfera di pace che mi circonda. Magari dovrei chiedermi dove sono finiti tutti gli altri; sì, insomma, di solito la Stazione brulica di vita e rigurgita uomini e bestie di ogni razza e colore, e avorio, e urla, e i fischi e i vapori dei battelli che partono, arrivano, ripartono ancora. Ma forse non voglio saperlo. O, forse, io so perché non c'è più nessuno. Forse... È da quando i miei sensi si sono risvegliati a quest'ultimo sole che avverto un odore, un effluvio dolciastro e invadente, che impregna l'aria. Deve venire da quella macchia violacea, là, a pochi metri dalla mia capanna. Mi avvicino e quasi mi vergogno del lieve fruscìo prodotto dai miei passi strascicati. Sono orchidee. Orchidee selvatiche di un viola carico e nauseante: hanno ricoperto completamente il legno, ormai marcescente. Che sia... il capanno delle armi? Lo sfavillìo delle lamiere si intravede appena, soffocato dalle radici e dal rigoglioso fogliame. Sì, deve essere proprio il capanno delle armi... ma... e i fucili? Dove sono i fucili? Non ne vedo, né vedo i preziosi barili di polvere nera. E che fine hanno fatto poi i pesanti machete che ammiravo sfolgorare, mentre ciondolavano dalla grossa trave a cui erano appesi, esattamente qui: al centro del capanno? Ancora pochi giorni e le orchidee l'avrebbero sepolto completamente. Ed ecco laggiù, accanto ai pietroni affumicati dei forni, il lungo tavolo di legno massiccio a cui prendevano posto più di trenta persone alla volta in rumorose cene, e da cui si spargevano - mi ricordo bene - aromi esotici e stuzzicanti oppure il familiare e tiepido vapore dello stufato. Beh, quel tavolo pregno di tanti fragranti ricordi giace ora rovesciato a terra senza due delle sei gambe tarchiate che lo tenevano in piedi, in pasto alle termiti, uniche depositarie, oramai, della fugace esistenza della Stazione. E l'avorio? - Solo ora comincio a realizzare chi sono e cosa ci faccio qui -. L'imponente deposito nei pressi del fiume, che si ergeva maestoso, come un altare, poco prima della zona paludosa, lo vedo insidiato dai rampicanti che ne hanno disintegrato la struttura portante: è ormai pressoché irriconoscibile da una delle tante macchie di arbusti. Ed è vuoto. Non è rimasto un solo grammo d'avorio.
Avorio. È per questo affascinante e prezioso elemento che mi sono deciso a partire. Il giorno della partenza, mi ricordo... il porto immenso e splendente... un mattino di fine estate... e le grandi navi della Compagnia che cavalcavano irrequiete l'oceano... e un carnaio pulsante di gente di ogni colore e provenienza... un inferno chiassoso e confuso... rumore... - silenzio. È rimasto solo quello. Mi aggiro, come ultimo e unico superstite - o come primo uomo? -, fra ciò che resta della mia Stazione. Mia... un tempo, forse; ora nulla mi appartiene più. Ciò che avevo così abilmente costruito - rubato? - mi viene tolto. Devo fuggire, andarmene prima che la foresta si riprenda anche il mio corpo.
Lo scalo merci della Stazione non era molto grande, ma era comunque un prodigio di efficienza e funzionalità. Deve pur esserci rimasta una carcassa di qualche battello abbastanza robusta da reggere la risalita del fiume; sì, insomma, ci fosse un attracco ancora in buono stato, la cosa sarebbe fattibile, ma... ma le passerelle..: quando arrivo ansimante al fiume trovo ad attendermi solo fango, insetti e mangrovie odorose.
Presso gli argini l'acqua del fiume si insinua tra il fango e le radici per poi ritornare in superficie formando una ventina di metri almeno di palude e acquitrini. Perciò avevamo costruito una fitta rete di passerelle che permettevano, con la dovuta pratica, di caricare l'avorio sui battelli che poi risalivano il fiume, quasi sempre...
Era un battello modesto, uno di quelli della Compagnia. Era piccolo e poco resistente, ma forte di un coraggioso equipaggio, una ventina di fucili, e tante munizioni. Fu il mio primo e ultimo viaggio su quel battello. Lo vedo ancora: solo, vacillante in un mare d'ombra. In balia delle correnti e dell'ambizione umana...
Non ho mai pensato prima a quanti cadaveri riposino in grembo al fango. Ed ora mi sembra quasi di sentirli, mentre chiamano con voce rotta i loro cari o maledicono i loro carnefici, lassù in Europa.
Per quanto riguarda lo scalo merci, è come se non fosse mai esistito: la palude lo ha inghiottito. Lei si è divorata la mia Stazione. Rassegnato, torno indietro avanzando a stento fra gli arbusti fittissimi finché, con le gambe spezzate dalla fatica, arrivo nuovamente alla radura dove un tempo sorgeva la Stazione.
Sono sbarcato di notte. Mi hanno ben accolto. Ho mostrato loro i miei fucili, la mia potenza, il mio progresso, la mia civiltà. Certo, ho portato loro il dono della civiltà, ecco cosa ho fatto... Sono un benefattore, io... sì, insomma... non ho fatto nulla di male...
Si è già fatto buio, e comincia a fare freddo. Così prendo una coperta dalla capanna, me la avvolgo sulle spalle ed entro nella foresta a cercare qualche legno da ardere; devo sbrigarmi, adesso che c'è la luna, prima che non si veda più niente. Non ho mai temuto la foresta, durante il giorno; ma la notte... oh, nessuno affrontava la foresta di notte... sì, insomma... si udivano strani versi... voci lontane....rumori antichi... Ma ora ho freddo ed ho bisogno, assoluto bisogno, di accendere un fuoco, quindi al diavolo tutto! Risoluto, mi inoltro nella giungla notturna. Non c'è alcun sentiero, e la luna rischiara qua e là i pochi tratti percorribili. Siamo soli: io e lei.
Le chiome altissime e affollate di occhietti rapaci, i tronchi immensi e antichi, il sottobosco umido e brulicante: la foresta vive e mi osserva severa. Mai come ora mi sono sentito tanto fragile e infinitamente breve.
Atterrito da una tale tacita manifestazione di secolare potenza, mi ci vogliono un paio d'ore almeno, credo (quaggiù il trascorrere del tempo, come dire, non rispetta criteri propriamente umani), per accorgermi di aver perso completamente l'orientamento. È tutto un dimenarsi, un contorcersi di ombre... ogni cosa respira... ogni cosa mi guarda. Solo ora, sento il sudore impregnarmi i vestiti sgualciti; e, con un gesto involontario, impugno istericamente la sterlina che ho in tasca. Ne sento il metallo freddo sulla mano bagnata e un brivido improvviso mi percorre la schiena e mi scuote le ossa. Non è un brivido di freddo. Un lamento manda in pezzi i miei pensieri cupi. Una luce vibra lontano. Ciò che resta del mio corpo avanza rantolando. Giungo dopo pochi minuti al limitare di una piccola radura: lingue infuocate danzano su di un'enorme pira, scandite da orribili urla; canti, forse. Gli occhi, abituati ad un'oscurità pressoché totale, vengono trafitti dalle fiamme. Ravvivati dal fuoco emergono cinque corpi d'ebano, nudi e lucidi; un'inquietante girandola di ombre sembra animare il groviglio di rami che abbraccia la radura. Ai loro gesti primitivi (uno di loro brandisce un pugnale) si accompagna una melodia aspra e tesa. Un frastuono terrificante. Mi tremano le gambe. Sento le ginocchia posarsi sul terreno ancora umido. Una lunga colonna d'ombra si allunga sino a sfiorare il mio corpo; ne intravedo appena i contorni sfocati, e, con gli occhi stanchi, ne percorro la lunghezza dinanzi a me, fino alla base di quello che può sembrare un grosso totem: è un tronco scolpito e abilmente intagliato che raffigura, forse, un loro dio, uno dei tanti, con fattezze vagamente umane. Mi acquatto non visto - ma è possibile che non mi abbiano neppure sentito? - dietro la statua votiva, rischiarata a sprazzi. Accanto al fuoco, adagiato su un letto di foglie e corteccia, c'è un neonato che piange a dirotto. Un bagliore improvviso illumina un'iscrizione alla base del tronco; riesco a decifrarla, a leggerla. Un nome: KURTZ. - Il mio nome -. Il pianto del bambino si fa più acuto. Il guizzo di una lama. Il buio.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010