Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
1ª edizione - (1998)

Imparerņ meglio

 Lessi l'ultima riga e chiusi il libro di scatto, quasi spinto da un frenetico istinto decisi di uscire, mi sentivo soffocare, avevo bisogno di una boccata d'aria subito.
Fuori faceva freddo e non riuscivo neanche a vedere il fondo della via, tanto fitta era la nebbia, camminavo veloce con ansia e quasi con rabbia senza sapere dove stavo andando, o meglio da che cosa stavo scappando. Mi rimbalzava nella mente l'ultima frase di quel libro che sentivo già di amare, ma che anche odiavo per l'ira cieca e funesta che aveva acceso dentro di me. Mi aveva sedotto come una bella ragazza e ora mi aveva abbandonato, mi aveva lasciato con l'amaro in bocca proprio perché non mi aveva illuso, non mi aveva dato una tanto consolatoria quanto vana speranza.
La métro è piena, io mi appoggio al duro schienale del sedile e inizio a scrutare la gente che sta seduta di fronte a me, ma non sono soddisfatto delle facce tristi e cupe che mi guardano ostili e sembrano chiedermi cosa voglio da loro, sono tutti soli come me in quel vagone affollato, ma nessuno ha il coraggio, l'umiltà di rivolgere la parola al suo vicino. Ed è in quel momento che ripenso a quel libro, che avevo tenacemente cercato di dimenticare, lo avevo letto qualche mese prima in autunno e ora lo ricordavo vagamente come il volto di una persona amata che ci ha tradito e che ci ha costretto ad odiarla...
"Imparerò meglio" dissi a voce alta in classe quella mattina mentre il professore di filosofia spiegava la concezione del bello in Hegel ai pochi scolari che lo stavano ascoltando, e la mia compagna di banco mi guardò e mi chiese:
"che hai detto?"; ed io risposi:
"nulla, assolutamente nulla perché?"
"No, mi era parso avessi detto qualcosa." E mentre parlava si sforzava di mostrarmi il sorriso meno falso che gli veniva. Io lo vedo chiaramente dietro a quei denti bianchi e ordinati, a quelle labbra sottili e cosparse di rossetto, a quegli occhi languidi che c'è tanta cattiveria, ma attraverso l'ipocrisia la gente traveste abilmente anche il più brutale disprezzo.
Tornando a casa quel giorno cercai di non fare la strada con i miei compagni di classe perché ero di cattivo umore, e mi venne in mente la frase che avevo pronunciato quella mattina senza volerlo "imparerò meglio"; ma quelle due parole strappate dal loro contesto originale non mi dicevano niente e nonostante i miei sforzi non riuscivo a rintracciarne la fonte. Mi stancai anche di pensare e conclusi che dovevo smetterla di leggere tre o quattro libri contemporaneamente perché il caos non si impadronisse del tutto della mia già confusa mente.
Odio il freddo e l'umidità e spesso mi chiedo cosa ci rimango a fare io a Milano, ma quando è primavera e soffia una leggera e calda brezza, il cielo è terso e azzurro e si vedono le Alpi in fondo a via Palmanova e anche quell'ammasso di casermoni freddi e inumani appaiono quasi belli. Forse vado un po' forte in macchina a volte, ma che diamine, solo quando ho fretta e sono in ritardo, ma poi quale fretta? Non devo andare a prendere la mia ragazza per uscire a mangiare una pizza, o non devo timbrare il cartellino? Arrivo sotto casa di lei, suono e aspetto che scenda, la bacio e sento un leggero gusto di burrocacao sulle sue labbra che si mischia col profumo di fiori dei suoi capelli appena lavati e ancora umidi.
In macchina lei mi racconta che cosa ha fatto quel pomeriggio e mi dice che adesso che il primo quadrimestre è finito e abbiamo più tempo libero ha voglia di leggere e che oggi curiosando nella libreria dei suoi ha trovato tre titoli interessanti e mi chiede il mio parere. Il primo e il secondo titolo non me li ricordo, ma quando lei ha detto: "conosci Uomini e no di Vittorini", un brivido freddo ha percorso la mia schiena e le ho consigliato quello, non so se perché la consideravo un'opera fondamentale della nostra letteratura, o se pensavo che dopo averla letta forse mi avrebbe capito di più. In ogni caso non me la sentii di accennarle di come quel libro mi avesse turbato così profondamente, di come avesse cambiato in modo così radicale il mio modo di vedere la condizione e l'esistenza umana, perché sapevo già prima che lo cominciasse a leggere che per lei non sarebbe stato uguale...
Io penso che in fondo ognuno di noi ami nel corso della sua vita davvero solo una donna e lo stesso capita per i libri, solo che nessuno ci fa caso per comodità. Quella sera mi accorsi che tutti i libri che avevo letto dopo Uomini e no seguivano un percorso letterario tracciato dal mio inconscio per dissuadermi dal vedere la realtà nella crudezza dipinta da Vittorini. Ero stato un codardo, ma adesso avevo capito, e tornai a casa deciso a rileggere quel libro tutto di un fiato, ma il sonno mi colse poche pagine prima della fine, e la parte più irrazionale del nostro cervello, quella che ci fa sognare, mi trasportò nella Milano del 1944 e più precisamente sotto un bombardamento alleato...
La sirena urlava ed io corsi dietro ad una madre che trascinava un bambino piangente al sicuro verso l'entrata del rifugio più vicino. Un vecchio che stava sulla porta di quel caseggiato popolare imbiancato per l'ultima volta non meno di venti anni prima ci disse di fare in fretta perché c'era ancora poco spazio e la gente per le strade era molta e tutta lì non poteva entrarci. Lo seguii mentre imboccava un buio corridoio che puzzava di muffa e di urina e fui felice quando vidi un raggio di luce che entrava da uno spioncino e illuminava un piccolo spicchio di quella cantina dove si affollavano i condomini dello stabile ad ogni incursione aerea, più per abitudine che per volontà. Tutti lì dentro sapevamo benissimo che se una bomba avesse colpito quella casa noi avremmo fatto nella migliore delle ipotesi la fine di topi chiusi in una gabbia, ma nessuno di noi era disposto a fare simili pensieri. Il rombo dei motori degli aerei inglesi o americani, per noi era lo stesso, si faceva sempre più acuto e inquietante, poi i primi lanci e si udiva con chiarezza il sibilare delle bombe mentre scendevano verso i loro obbiettivi di morte. Ne cadde qualcuna a non più di un isolato di distanza, e poi le esplosioni si fecero sempre più lontane, forse verso Sesto e le sue acciaierie o forse verso l'Innocenti di Rubattino. Uscii per primo perché avevo un appuntamento molto importante ed ero in ritardo di più di mezzora. Dovevo trovarmi nell'atrio della stazione centrale con una staffetta che recava con se segretissimi piani dalle valli dell'Ossola per bloccare i repubblichini ed i tedeschi che volevano far saltare la galleria del Sempione. Bisognava fermarli e l'indomani il C.N.L.A.I. doveva decidere come agire. Ma lasciare ad aspettare alla stazione per così tanto tempo una ragazza giovane ed inesperta della città, anche se camuffata da pendolare sfollato, era molto rischioso. E se una guardia si fosse insospettita? La riuscita di quell'incontro preparata da me scrupolosamente da giorni era l'unico scopo della mia vita. Nella sola mattinata di quel giorno avevo fumato una dopo l'altra tutte le sigarette della mia razione mensile ed ora mentre correvo per Viale Monza i polmoni mi dolevano e le gambe non mi reggevano. Mi fermai un attimo per prendere fiato appoggiato ad un lampione, e mi ricordai che un ex-operaio licenziato dopo gli scioperi del '43 alla Falk, mio amico fin dalle elementari, abitava in quel caseggiato che costeggia la Martesana e che probabilmente lui aveva una bicicletta. Bussai con violenza e dopo un minuto buono quando stavo per andarmene mi venne ad aprire una donna sulla trentina grassoccia e con due occhi tondi e bonari. Mi squadrò con un poco di preoccupazione e mi precedette nel parlare: "voi non avete la faccia da creditore, comunque se cercate mio marito deve essere in qualche osteria a spendere i quattro soldi che quella santa donna dì mia madre mi da per tirare avanti." "Lo so signora che lei mi non mi conosce ma io sono un vecchio amico di Umberto, eravamo compagni di banco alle elementari a Gorla, è un po' che non lo vedo, ma ho bisogno di un favore... la prego siamo dalla stessa parte, se non ci diamo una mano fra di noi, chi ce la deve dare?" E mentre dissi le ultime parole ammiccai un poco con gli occhi. "Guardi io con la politica non ci voglio avere a che fare, e poi se mio marito non avesse quella testa calda che si ritrova adesso avrebbe ancora il suo posto di lavoro e guadagnerebbe il pane per i suoi tre figli, comunque lei mi sembra una persona a modo mi dica che cosa posso fare io per lei, le dico subito che se è di soldi che ha bisogno qui non ne troverà di certo." Parlò in fretta e malvolentieri, ma fui contento di quello che disse e continuai: "Lei dovrebbe soltanto prestarmi una bicicletta per qualche ora e mi tirerebbe fuori da molti pasticci." Mi scrutò per l'ultima volta poi mi disse di aspettare un minuto e ritornò con quello che avevo chiesto, e quando la ringraziai mi fece un tiepido sorriso che io vidi con la coda dell'occhio mentre iniziavo a pedalare di buona lena verso le macerie dove solo due anni prima c'era Piazzale Loreto. Arrivai alla stazione quando il sole era già per metà sceso verso l'orizzonte e la piazza dopo il terribile bombardamento della mattina aveva cambiato fisionomia dopo che le bombe avevano cancellato molte case e ne avevano sventrate altre; i vigili del fuoco con gli abitanti dello stabile e alcuni volontari cercavano ancora qualcuno sotto un cumulo di macerie. Una donna magra e pallidissima piangeva e si disperava strappandosi i capelli a ciocche per il dolore, io fra le frasi sconnesse che pronunciava, mentre le passavo accanto e mi guardava negli occhi e sembrava supplicarmi di fare un miracolo, capii soltanto: "doveva compire otto anni domani..."
Ogni tanto mi chiedevo il senso di tutto quello che mi succedeva intorno, di quella sporca guerra, dei compagni più giovani di me fucilati un po' ovunque, dei civili morti sotto le bombe cieche; ma io sapevo che NOI avevamo ragione, che quando avremmo vinto tutti ci avrebbero ringraziato e avrebbero fatto la fila per stringerci la mano e abbracciarci forte. Ma delle rappresaglie che i tedeschi aiutati dai fantocci di Salò compivano dopo le nostre azioni che cosa potevo pensare? Era forse meglio stare ad aspettare che gli alleati sfondassero la Linea Gotica e liberassero loro le nostre città? Allora pensavo certo di no, e questo mi basta.
Per farmi riconoscere dalla staffetta dovevo, secondo un procedura convenuta fra un bicchiere di bonarda e l'altro in una, bettola di Crescenzago con il capo di una brigata dell'Ossola, far cadere un volumetto di poesie del Leopardi dalla tasca sinistra del mio impermeabile, la ragazza doveva raccoglierlo e ridarmelo dopo aver infilato velocemente la busta con i piani nel suo interno. Proprio mentre entrai nel portone laterale della stazione ricordai dell'incubo che avevo fatti quella notte nel quale io al momento di far cadere il libro frugavo nelle tasche dell'impermeabile senza trovarvi nulla, e di come mi ero svegliato con la fronte bagnata di gocce di freddo sudore e con un gusto amaro in bocca. Quasi istintivamente portai la mano sul fianco sinistro e sentii la dura copertina di cuoio di quella sudicia e consunta raccolta di poesie che mio padre, quando ero bambino, portava con sé nelle domeniche di primavera quando andavamo in bicicletta lungo il naviglio fino a che non trovavamo un bel prato e non ci sedevamo a mangiare i panini col salame di mia madre; prima che mio padre partisse per quella maledetta campagna d'Africa, e prima che tornando da scuola trovai mia madre in lacrime con un telegramma in mano che diceva che suo marito era "gloriosamente caduto per la grandezza della Patria e per la conquista dell'impero".
L'atrio era molto affollato, c'erano soprattutto operai che tornavano a casa con le loro mani sporche e le tute tutte uguali, e c'era qualche contadina che si era svegliata all'alba per venire in città a vendere il misero frutto di orticelli coltivati con amore. Il libro cadendo fece un tonfo sordo e per qualche interminabile istante nessuno si chinò a raccoglierlo, poi una mano lo afferrò con decisione, ma non era la mano di una ragazza, un soldato tedesco mi guardava negli occhi e mi diceva malignamente che quello non era il tempo di leggere le poesie, ma di combattere per la Repubblica di Salò e per il Reich... Due volontari della X Mas ridono e il cane del tedesco mi ringhia ed abbaia: "venga con noi, il questore ha un paio di domande da farle, se non le dispiace anche i camerati tedeschi hanno qualcosa da chiederle, siamo tra amici si intende", una mano fredda mi afferra il braccio e qualcuno da dietro mi colpisce la nuca con qualcosa di duro, forse con il calcio di un fucile. Mi piego un poco sotto il colpo, alzando gli occhi verso la gente che mi osservava curiosa, il mio sguardo si ferma sul viso di una ragazza bellissima, con lunghi capelli castani ondulati, una bocca piccola e rotondissima e una fronte spaziosa, ha una busta bianca in mano che stringe con le sue dita affusolate, ma ancora infantili, fino ad accartocciarla, mentre due gocce scendono limpide da quegli occhi grandi e speranzosi e si perdono nella sporcizia del pavimento grigio. Nessuno si è accorto di quell'incantevole creatura che piange furtivamente per me, ed io capisco che lei non mi ha tradito e per questo le giuro dentro di me eterno amore. Di scatto mi divincolo dalla presa di quegli uomini cattivi nascosti nelle loro uniformi e mi getto con uno slancio disperato verso la porta; sento uno sparo e un bruciore nel fianco destro, una raffica, e un dolore acuto alle gambe, degli urli in italiano ed in tedesco, delle risa, il gusto di sangue in bocca come quando ti mordi un labbro e l'odore della polvere e del fango. Prima che gli occhi mi si chiudano per l'ultima volta mi sembra di vedere ancora il viso di lei e sorridendole, come se mi potesse ascoltare, le dico: "imparerò meglio".
Il suono della sveglia mi sembra più stridulo del solito, poi mi accorgo che è il telefono che squilla e mi precipito ancora rintronato a rispondere, all'altro capo della cornetta c'è la mia ragazza preoccupata perché non mi ha visto a scuola, perché c'era la versione e perché pensava che mi fossi sentito male; io le dico che sto bene e per la prima volta nella mia vita riesco a pronunciare la fatidica frase: "ora sono sicuro di amarti", e mentre la scandisco sento che una parte di me è morta, per sempre.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010