Viaggio
Gli alleati erano sbarcati in Sicilia.
Un nuovo vento di speranza soffiava su un'Italia distrutta dalla guerra, logorata dalla follia di uomini spietati.
Si intravedeva in fondo a quelle notti primaverili una resurrezione, una voglia di ricostruire, di vivere.
I Tedeschi stavano risalendo il paese, distruggendo ogni villaggio, facendo prigionieri i soldati, violentando le donne, seminando morte e disperazione.
Quella primavera appena accennata si stendeva con brezze leggere su una Verona assolata.
Alla caserma Garibaldi, costruita lungo l'Adige, le giornate trascorrevano lente, una musica malinconica, notizie offuscate dal disordine politico, sputate da una radio in radica, contribuivano a creare quell'atmosfera di incertezza, quello statico tremolio nelle anime.
I soldati avevano ricevuto ordini confusi, non si sapeva più chi fosse il nemico, le spedizioni erano cessate, l'ozio intriso di tensione regnava nella caserma: chi leggeva, chi scriveva alle proprie donne, chi profetizzava apocalissi e chi fumava una sigaretta via l'altra.
Quella mattina di martedì, Giovanni scese in divisa in strada, attraversò la via ed entrò alla posteria, comprò una scatola di lamette da barba e un pacchetto di tabacco, si sedette a bere un caffè, l'orecchio teso ai mormorii sommessi della gente"I Tedeschi sono …","Già i Tedeschi …","I Tedeschi hanno …".
Inquieto, finalmente domandò al vecchietto che fumava al bancone: "I Tedeschi???".
Quello sputò una nuvola di fumo, esitò un attimo e poi: "Eh, i Tedeschi! I Tedeschi sono arrivati al ponte sull'Adige!".
Si allontanò dal bancone, gli si fece vicino: "Eh, giovanotto, se fossi in lei me ne andrei subito, in meno di mezz'ora saranno qui".
Giovanni pagò in fretta Maria, la salutò con una nota malinconica e tornò correndo in caserma, salì i due piani, entrò nella camerata ansimante, annunciando: "I Tedeschi, i Tedeschi stanno arrivando".
I compagni non parevano darsi troppa preoccupazione, chi non credeva, chi non aveva ancora compreso la gravità dell'evento: tutti continuavano le loro occupazioni.
Solo Giorgio e Mario, preoccupati, si informarono più approfonditamente.
Il tempo stringeva, altri volevano scappare ma non c'erano i minuti per raccogliere le proprie cose, un attimo e i tre erano già sul retro della struttura.
Non si poteva farsi vedere dal piantone sul pianerottolo, l'unico modo era gettarsi dalla finestra che dava sul prato e poi correre.
Detto e fatto: i tre, vinta l'esitazione, si lanciarono, un istante e furono doloranti, ma salvi, sull'erba.
Una corsa furibonda, frenetica verso la ferrovia, i tre si dispersero.
Giovanni non avrebbe più rivisto i suoi compagni, di lì a poco sarebbero stati fucilati dalle SS.
Finalmente raggiunse i binari, stremato.
Non sapeva dove andare, il pericolo non era ancora scampato.
Non c'era nessun'altra destinazione se non casa propria.
Doveva tornare a Pieve di Soligo, un piccolo paese a quaranta chilometri da Treviso.
Non aveva con sé i soldi che la fretta furiosa aveva trattenuto in caserma.
Non poteva nemmeno prendere il treno, ai controlli egli era un disertore.
Un disertore: fucilazione immediata, sia da parte degli ignari fascisti italiani, che continuavano a eseguire gli ordini, sia da parte dei tedeschi.
Giovanni fu costretto a seguire la ferrovia a piedi, nascondendosi fra i cespugli, al passaggio di ogni treno o carro armato.
Il sole ardeva, alto nel cielo, le prime ore pomeridiane bruciavano insolenti sul suo capo, nessuno sul cammino, solo un ruscello ogni venti chilometri, dove fermarsi un attimo a placare la sete e bagnarsi il viso.
In serata arrivò nei pressi di Vicenza, non si era accorto che era ancora in divisa, quando una donna che spingeva un carretto lo chiamò: "Soldato, dove va così malmesso? Si fermi!".
Giovanni si fermò spaventato: doveva cambiarsi, era necessario avere abiti civili.
La donna, che aveva già capito tutto, lo anticipò: "Giovanotto, non è prudente andare in giro nel suo stato, tenga qua, metta ‘sti vestiti, in giro così le sparano!".
In un istante si infilò gli abiti e non smise più di ringraziarla.
I due si separavano: "Buona fortuna e sta' attento che ci son già i Tedeschi e portano via anche gli Ebrei!".
Proseguì, la città si avvicinava, raggiunse la stazione dai binari.
Non poteva perdere tempo, non sapeva dove avrebbe trascorso la nottata.
Un orologio lo informò dell'ora: le venti e venticinque.
Uno sguardo al tabellone: un treno per Treviso partiva alle venti e trentacinque.
Da dietro il convoglio sentì un accento tedesco: "Schnell, schnell, Jude!".
Si sporse, i tedeschi non si erano accorti di lui, ma si stavano avvicinando.
Uno sguardo fugace davanti sé gli rivelò la presenza, ovunque, di truppe tedesche.
Non c'era scelta.
S'introdusse sotto all'ultimo vagone del treno in partenza.
Si aggrappò con le braccia al ponte del treno motore e distese le gambe su una asse che univa le ruote del treno.
Un cenno di assenso tedesco, un fischio e il treno partì, acquistando sempre più velocità.
I quaranta minuti per arrivare a Mestre gli sembrarono interminabili.
La paura, la fatica, lo sgomento rumoreggiavano violenti assieme al frastuono delle rotaie, livide, sempre più vicine.
A Venezia il treno rimase fermo dieci minuti, da sotto il vagone poté sentire le grida di famiglie costrette a separarsi e quel duro incalzare in lingua tedesca.
Finalmente il treno partì: un magro sollievo.
La fame e la sete lo corrodevano, ma si doveva resistere, le braccia erano ormai sfinite, il sudore, i capogiri gli stavano strappando i sensi, ma si doveva resistere.
A dieci chilometri da Treviso il treno si fermò in una stazione che Giovanni credeva essere Treviso, stava già per uscire, circospetto, dal suo nascondiglio quando apprese dalle voci di essere in un piccolo paese che non conosceva e che il treno si era fermato per un'ispezione dei Tedeschi.
Riuscì a scampare, nessuno si accorse di lui, ma i trenta minuti di quella sosta furono infernali.
In breve, finalmente, fu a Treviso, riuscì a venir fuori in fretta da quell'alcova tremenda; nessuno lo notò: la sua fortuna fu di trovarsi in quell'ultimo vagone.
Corse verso il prato: ora bisognava proseguire a piedi.
Quando si fu allontanato sufficientemente dalle rotaie, dove poteva essere visto, si lanciò sull'erba a fianco di un ruscello.
Si riebbe del viaggio in un quarto d'ora, poi si rimise in cammino.
Gli vennero in soccorso in quella notte ricca di spettri e di terrore i profumi della terra che conosceva e una luna piena che, alta nel cielo, come un faro rischiarava il suo cammino.
Guardò a fondo quella palla d'opale e benedisse Dio di quel dono, che di lì a poco avrebbe maledetto.
Guardava le ombre inquiete degli alberi, mossi dal vento, sulla strada di ghiaia bianca.
Si avvicinava sempre di più a casa, stringendosi per il freddo nei vestiti.
Di lontano vide delle luci, movimento.
Sperò si trattasse di una vecchia fattoria, nessuno avrebbe potuto negargli ospitalità.
Quando, avvicinandosi, l'immagine si fece più nitida, capì che era un posto di blocco dei Tedeschi.
Si nascose dietro il tronco di una pianta, la luna maledetta brillava sempre dall'alto e non offriva di che nascondersi.
Trascorse tutta la notte in piedi dietro l'albero, girando e spostandosi seguendo la luna che proiettava la sua luce infame sulla pianta.
Venuto il mattino, i carri armati dei Tedeschi lasciarono la strada.
Giovanni, esausto, intirizzito, le gambe irrigidite, si incamminò.
Seguiva la strada, l'alba creava giochi di luce sui prati, complice la rugiada.
D'un tratto scorse in lontananza con il timore di un effimero miraggio, un casolare bianco che si ergeva nella luce mattinale.
Era a casa.
Non sapeva ancora che quello stesso giorno sarebbe diventato partigiano.
Ispirato dalla lettura di un diario di mio nonno del periodo della Resistenza Partigiana
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