Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
1ª edizione - (1998)

Esperienza di lettura

 Fino a questo momento, l'esperienza di lettura che mi ha colpito più profondamente e mi ha fatto riflettere più a lungo è stata quella del libro Se questo è un uomo, scritto da Primo Levi. In questa opera lo scrittore narra la sua esperienza nel lager di Auschwitz, e più precisamente nel campo di lavoro attiguo di Buna-Monowitz, dal gennaio 1944 fino al 27 gennaio 1945, data in cui i soldati sovietici liberarono il campo.
Volendo sinteticamente raccontare la trama essenziale del libro è necessario prima di tutto inquadrare il contesto storico-sociale in cui si svolge, ovvero quello della 2a guerra mondiale e, nello specifico, delle deportazioni di massa e dello sterminio di milioni di ebrei, attuato scientificamente dai nazisti e chiamato con il nome di "soluzione finale". Il protagonista assoluto, ovvero Primo Levi, viene arrestato in Italia dai tedeschi come partigiano e, dopo essersi rivelato ebreo ‚ dapprima internato a Fossoli (un campo italiano di smistamento) ed, in seguito, deportato definitivamente ad Auschwitz.
Qui, essendo giovane e quindi utile, viene mandato nei campi di lavoro e non in quello di sterminio.
Volendo introdurre una nota, è importante precisare che la maggior parte dei detenuti nei campi di lavoro morivano di stenti dopo una permanenza in media inferiore ai tre mesi.
Qui egli si rende immediatamente conto che i deportati non si possono più classificare come uomini, in quanto sono stati privati della loro dignità, della loro umanità e della loro individualità, fino al punto di essere identificati non più con un nome, ma con un numero. Introducendo una breve analisi storica, il compito principale delle SS era infatti quello di annullare completamente e sistematicamente la persona, attraverso le privazioni, il dolore, le crudeltà e con migliaia di assurde regole ed assurdi divieti, che facevano diventare la vita dei prigionieri un insulso adempimento di azioni insensate totalmente diverse da quelle della società odierna.
Citando qualche esempio, rivestivano un ruolo fondamentale nella vita di questi uomini la ricerca di una razione anche minima di cibo, la corsa alle latrine, la lotta continua per conservare i propri 'beni" (una ciotola, del pane, e al massimo un cucchiaio), il lavoro, che li costringeva a restare per ore al gelo, facendo sforzi che neppure un uomo forte e sano avrebbe potuto sostenere.
Con questa cornice, Primo Levi è riuscito a sopravvivere solamente con l'ingegno e con la fortuna, ma soprattutto con la mentalità di rimanere ancora un uomo e di mantenere, nel limite del possibile, le sue abitudini.
Ad aggravare la situazione già disperata, partecipava la mancanza di solidarietà tra i prigionieri, che erano ridotti ad un punto tale da uccidere un altro pur di rubargli il pane sufficiente per una giornata.
L'avvenimento decisivo per la salvezza di Primo Levi è comunque il trasferimento al laboratorio chimico, dove svolge un lavoro meno logorante fisicamente e dove può anche rubare dei beni da smerciare in cambio di cibo.
Anche la salvezza definitiva del protagonista è legata quasi totalmente a fortuna e a circostanze. Verso la fine della sua detenzione, infatti, egli si ammala di scarlattina e viene ricoverato all'infermeria, denominata Ka-be.
Poco tempo dopo, quando ormai la liberazione del campo è vicina, i tedeschi, per cercare di cancellare almeno in parte le prove dei loro terribili crimini, fanno evacuare il campo e intraprendono una durissima e inconcepibile marcia nella neve, in cui muoiono quasi tutti i deportati.
Nella fretta, però, si dimenticano di prelevare quelli del Ka-be, che, pur in condizioni disumane, riescono a resistere fino all'arrivo dei soldati sovietici.
Analizzando le sensazioni e le emozioni suscitate, oltre al personaggio di Primo Levi, mi hanno colpito le figure degli altri detenuti del Lager, descritti a volte anche in modo piuttosto sommario, ma che comunque identificano con la loro figura una maniera precisa di vivere l'esperienza del lager e di cercare di superarla.
Uno di quelli descritti con un'approfondita analisi è Jean, che, essendo il più giovane del Kommando, riceve la carica di "Pikolo", che gli consente di lavorare meno, di diventare un confidente del Kapò e quindi di avere maggiori speranze di sopravvivere.
Comunque, è sicuramente una figura positiva, poiché riesce a vivere anche il Lager con fiducia e mantiene dei buoni rapporti umani con gli altri detenuti, cercando di aiutarli, ma facendosi anche aiutare in caso di bisogno.
Nel capitolo "I sommersi ed i salvati", la distinzione in queste due categorie introduce la descrizione di vari personaggi, che incarnano diversi modi di salvarsi.
Il primo è Schepschel, un russo che vive in Lager da quattro anni e, pur non essendo né forte, né robusto, riesce a salvarsi vivendo alla giornata e utilizzando anche una dose di meschinità.
Vi è poi l'ingegnere Alfred L., molto noto negli ambienti industriali europei, entrato come tutti gli altri detenuti in Lager, ma che è riuscito a salvarsi mantenendo una propria linea, programmando tutte le sue azioni e sapendo fin dall'inizio ciò che bisogna fare per avere una posizione privilegiata.
Un altro esempio è Elias, un nano di muscolatura e di forza incredibili, che con questo suo vigore bestiale riesce a sopravvivere e a essere sempre fisicamente in forma e quindi a non deperire.
Essendo un lavoratore instancabile, viene scelto dai nazisti come privilegiato e, paradossalmente, da quel momento non lavora più.
Infine troviamo Henri, un giovane francese di ventidue anni, molto intelligente che, dopo la morte in Buna del fratello, ha deciso di recidere ogni vincolo affettivo e di vivere chiuso in se stesso come in una corazza, non interessandosi in alcun modo agli altri e pensando solamente a sopravvivere.

 I temi fondamentali del libro sono:
l'annullamento dell'uomo in quanto tale e della sua dignità
la brutalità e la violenza del nazismo e della dittatura repressiva in generale
le violenze barbariche compiute ai danni dei deportati
la soluzione finale ai danni degli ebrei
la speranza, da parte dei prigionieri, di salvarsi ed i vari modi per raggiungere questa salvezza
l'odio antiebraico. Quest'ultimo tema mi sembra di grande importanza, soprattutto perché aiuta a comprendere le origini del razzismo, dell'antisemitismo e deve cercare di fare in modo che non si ripeta ciò che è già accaduto.
Affrontando analiticamente il problema, occorre ricordare che l'odio antiebraico fa parte di un fenomeno molto più vasto, ovvero l'odio contro chi è diverso e può in qualche modo, con questa sua diversità, essere pericoloso alla società.
In particolare, l'antisemitismo è un tipico fenomeno di intolleranza, e logicamente, come già affermato prima, per insorgere, questa intolleranza deve essere supportata da una radicale diversità tra due etnie o tra due religioni.
In particolare modo, la storia degli ebrei ha concorso a mantenere questa diversità e, con lo sviluppo tecnologico, ad accentuarla.
Infatti, con la diaspora, avvenuta sotto il dominio dell'Impero Romano, gli Ebrei sono migrati in tutta Europa e hanno qui fondato delle proprie comunità, che comunque non si sono mai fuse con la società locale, ma hanno sempre mantenuto le loro tradizioni e hanno sempre avuto dei forti contatti con la loro terra di origine.
Queste loro tradizioni e la diversità palese li hanno sempre resi riconoscibili, vulnerabili e dunque perseguitabili; comunque, la maggior parte delle volte, queste persecuzioni sono coincise con la ricerca da parte del ceto dominante di una data zona di trovare un capro espiatorio contro cui incentrare tutti i malumori di una società scontenta e povera.
Per i Cristiani vi è in particolar modo una motivazione religiosa: secondo S. Agostino, infatti, gli Ebrei sono condannati alla dispersione da Dio stesso e ciò per due motivi: il primo perché essi non hanno riconosciuto in Cristo il Messia, il secondo perché con la loro presenza in tutti i paesi la Chiesa può dimostrare come sia visibile ai fedeli la meritata infelicità degli Ebrei.
In seguito, comunque, soprattutto in epoca medioevale a queste accuse se ne aggiunse un'altra, ovvero la responsabilità dell'assassinio di Cristo, che è fruttata loro il titolo dei "deicidi".
In particolar modo, a rendere ancora più drammatica la situazione, nella Germania di quegli anni era presente un clima di forte esasperazione e di grande povertà da parte di una nazione uscita distrutta dalla prima Guerra Mondiale e con scarse possibilità di ripresa.
In questo clima di forti tensioni e di contrasti sociali, gli ebrei, essendo gli unici aventi una condizione agiata, vennero presi come capro espiatorio e abilmente perseguitati da Hitler, che appropriandosi dei loro beni, riuscì anche a sanare in parte le finanze statali.
Ma sullo sterminio degli Ebrei pesano smisuratamente anche le responsabilità dell'ONU, dei singoli stati, della Croce Rossa e della Chiesa, che, pur sapendo com'era la situazione, hanno ritenuto più conveniente non intervenire e lasciare morire milioni di persone.
Volendo esprimere delle mie riflessioni, devo dire che questo libro mi ha provocato una forte sofferenza, soprattutto perché non trasuda né di odio, né di commiserazione, ma soltanto di testimonianza e di ricerca di giustizia.
Ed è con questo spirito che, secondo me, bisogna affrontare gli avvenimenti, perché l'odio genera odio, la commiserazione genera falsità e demagogia, mentre invece soltanto la testimonianza reale e la ricerca di giustizia possono far comprendere agli uomini di oggi quali siano state le sofferenze di milioni di persone e come ci si debba comportare perché queste non accadano più.
E, secondo me, è proprio questo il messaggio e il desiderio ultimo dell'Autore, ovvero che gli uomini hanno delle diversità, che rimarranno sempre diversi, ma che, nonostante ciò, devono imparare ad accettare ciascuno in quanto tale e a coltivare il rispetto per gli altri, che è alla base di ogni democrazia e di ogni società.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010