Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
9ª edizione - (2006)

Ifigenia in Aulide
di Gloria Vannucci
Premio speciale giuria studentesca

La notte era trascorsa, incolume, le sue nere mani avevano tenuto stretto, nel pugno serrato, il cuore degli Achei. L'alba si stava apprestando a sciogliere il denso liquido scuro. Lo sguardo impassibile del sole, che non si cura dei mortali, cominciava a risplendere dietro alla collina, tingeva appena di rosa il tempio di Artemide e si distendeva immenso all'orizzonte di Calcide. L'aria era calma, statica, fremente. Il vento della Beozia portava con sé note angoscianti. Quel mattino il sole pareva indugiare tra le nuvole morte. L'animo fiero di tutti era ad un tempo agitato e prostrato. Un vago presagio era sospinto dalle rare vele in distanza. D'un tratto, poi, sul porto, dove la flotta s'accingeva a salpare, iniziò a martellare una pioggia fine, acida di rassegnazione. Cresceva roboante assieme all'affanno e alla rabbia dei Greci, scrosciava l'acqua scagliandosi affamata sugli scogli. Il tremore faceva sobbalzare le navi in una danza macabra. Agamennone guardava dal portico del tempio il mare che empiamente infuriava nel mattino. Cupo il volto, solcato da rughe di tensione, fisso lo sguardo, disperava della partenza. Contorceva le mandibole, stringendo l'aria fra i denti. In cuor suo conosceva l'ira di Artemide, fin troppo bene sapeva che le navi non sarebbero partite, costrette nel porto dal pugno della Dea. Calcante uscì dal sacrario, gli occhi vecchi e allucinati, avanzò vacillante alle spalle d'Agamennone. L'Atride chiuse gli occhi rassegnati e si voltò a cogliere l'amaro responso. Il dolore lampeggiava nel viso dell'indovino, le labbra, meccaniche, osavano appena muoversi. Era stata pronunciata la condanna a morte. L'ira d'Artemide aveva sete del sangue d'Ifigenia. Il cuore del padre, Agamennone, sussultò, e si sciolse nel deliquio, il corpo cercò l'equilibrio nella fredda colonna. Era la fine: o per i greci o per la vergine. Riuniti i migliori, incalzato da Menelao e dall'astuto Odisseo, il re finalmente pronunciò la sentenza. L'eco di sgomento risuonava in tutta la pianura, solo la dolce fanciulla, ignara, passeggiava per le stanze del palazzo. Ben presto qui giunsero i comandanti dei Danai. Sfoggiando un amaro sorriso, recarono alla figlia del re ciò che ogni giovane achea avrebbe desiderato udire. Con l'inganno trassero svelti la vergine dal palazzo, eccitata dall'idea di andare sposa ad Achille. Proprio ad Achille, dal piede rapido, colui che si sarebbe lanciato furente sul polveroso campo dei Teucri. Nel cammino verso l'altare, dove si sarebbero celebrate le nozze regali, Ifigenia non comprendeva il motivo di tanta tristezza celata negli occhi dei guerrieri che l'accompagnavano. Il suo sorriso orgoglioso e impaziente le pareva svuotarsi di significato fra quella cupa gravità che animava il suo popolo. Giunta all'altare fu avvolta dalle bende sacre. Non immaginava ancora la sorte che lo attendeva. Ma quando il padre, accanto, dolente e i concittadini non seppero trattenere le lacrime, comprese che non si trattava dell'emozione per il suo matrimonio. Lucente, la punta della spada scintillava della bigia luce del cielo da sotto la veste dei sacerdoti. In un attimo la gioia le si dileguò dalle labbra socchiuse, corse impazzita nell'ultima metamorfosi della giovane espressione. Tra il pianto e le grida fu trascinata sull'altare della Vergine trivia. Il padre, in preda all'ultimo empio rimorso, voltò il viso coprendosi gli occhi, velati di pianto, con la mano di bronzo. Un grido sommesso, soffocato nella gola da mani brutali, vibrò appena nell'aria immobile. E poi fiotti di sangue nero correvano inesorabili giù dall'altare, si tuffavano dai gradini, dilagando sull'erba dorata di rugiada. Nel bianco vestito della vittima sacrificale, si dilatava sempre di più quella macchia infame, stendardo di una colpa immortale. Calcante gemeva, mentre si allontanava, senza che nessuno se ne fosse accorto. Sapeva in cuor suo che l'ultimo responsabile di quel turpe misfatto era proprio lui, l'indovino dei Greci, colpevole portavoce di una superstizione crudele. Intanto, là sull'altare, il tempo s'era fermato, quel corpo riverso, del quale poco restava del candore d'un tempo, acquistava il tono solenne d'un rito antichissimo. Ifigenia doveva morire. Ifigenia morì per la gloria degli Achei. Anche gli scelti fra i guerrieri, fra gli uomini più nobili che vennero sotto le mura di Troia, non seppero sottrarsi dal fidare, ciechi, nella speranza imposta da un culto orrendo. Ifigenia era morta per quella mistica crudeltà che trovava fondamento solo nella fede popolare. Non disperava ora Calcante che aveva segnato la fine della figlia del re per un mantico auspicio? Calcante che forse, seduto nel giardino sacro al Dio, non vi credeva egli stesso, o almeno si chiedeva se avesse interpretato correttamente il volere degli dei. Quell'uomo torturato da una colpa che non si palesò subito, ma che crebbe col tempo, giorno dopo giorno, inclemente. Come poteva egli nascondere i suoi omicidi, coprirli con i sogni di Apollo? Come poteva essere interprete certo della volontà olimpica? I gradini del tempio, quando vi tornai, erano già deserti e la folla che era accorsa davanti all'ingresso aveva lasciato spazio a un vuoto che faceva scorrere sotto la pelle una vertigine. Solo il corpo di Ifigenia, quasi dimenticato, giaceva sull'altare, come un fiore caduto in un lago nero di morte. Intanto vedevo attraverso la coltre di lacrime, gli uomini che salivano sulle navi. Le acque del porto ora erano calme. La dea aveva ricevuto il compenso per la sua esistenza. Agamennone, ancora prostrato, assaporava appena il piacere d'un'amara riconciliazione. I greci partivano, li vedevo scemare in distanza, mentre sedevo, col viso tra le mani, presso quella giovane che mai prima d'ora avrei stimato misera. Nel mio petto si faceva largo una voce: "su quale sangue ora, fonderemo una nuova religione?".


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010