Il titolo non c'entra, tipo, niente
di Jacopo Moschin
Menzione d'onore e Menzione d'onore della giuria studentesca
"Ehi, basta con questa messinscena. Ho da fare", dico avvicinando la bocca al telefono.
"Che diavolo Jack! Queste idiozie ti salveranno. La tua immagine sta rotolando sempre più in basso. Se scendi ancora un po', non risalirai mai più".
"Ho detto basta con le messinscene. Non sei più il mio manager, ti licenzio", dico. "Ora", aggiungo in tono solenne.
"Non sarai tu la stella del nuovo anno", ridacchia malvagio il mio ex-manager.
"E non sarai tu il manager del mese. Ora, chiudi quel telefono". Blip.
Lancio svogliatamente il cordless sul letto. Rimbalza due o tre volte e poi si calma. Io mi gratto le sopracciglia, annoiato.
"Al diavolo", sospiro. "Al diavolo tutto".
Mi alzo dalla poltrona in ottone firmata Heknel con un grosso sbuffo e mi dirigo di sopra, attraversando un corridoio con tre porte e salendo una scalinata bianca asettica, in stile minimal con inserti in legno di faggio.
Il loft dove vivo ha le sembianze di un grosso salone dove si alternano spazi vuoti e spazi pieni. Roba ammonticchiata e gettata a caso, cuscini turchesi di provenienza libica e fotografie appese su tutto il perimetro, a casaccio. Un'enorme vetrata occupa interamente una delle quattro pareti. La vista dà sulla città. Da qui, dal tredicesimo piano, si può osservare di tutto. I tetti degli altri palazzi, le auto posteggiate di sotto, le persone che camminano, che litigano, che si amano, la mia vanquish argentea: ogni cosa. Da qui tengo sotto controllo il mondo e sto pronto a sparargli. Da qui potrei avvistare un attacco alieno prima del Pentagono. O un aereo in fiamme. O un meteorite. O un'eruzione freatomagmatica nel centro di Londra. Tre armadi semivuoti ingombrano una delle tre pareti rimaste. A sinistra la zona relax: tre divani di pelle nera reclinabili e due poltrone Hitahi di colore giallo scuro con riflessi ambrati circondano un piccolo tavolino di vetro con le gambe in acciaio firmato Masuki. Appoggiate sopra ci sono tre riviste di moda, una foto di me alle Seychelles con Amie che mi abbraccia, una tazza svuotata del thè al pompelmo rosa che la riempiva, un rotolo di caramelle alla menta, un paio di occhiali da sole troppo glamour e un bicchiere riempito con gherigli di noci californiane. Nella zona destra un grosso tappeto eccentrico, con ricami d'oro e filettature argentee è ricoperto da enormi cuscini rossicci a forma di quadrato sui quali si potrebbe addirittura dormirci sopra. Un tavolo di vetro trasparente e una scrivania larga e piatta giacciono accanto. C'è un pc sulla scrivania, ed è acceso. Ci sono delle casse colossali accanto, e un paio di cuffie. Centinaia di dischi sono sparsi per terra. Un cestino rigetta palle di carta prodotte prima dalla stampante e poi da me. Sul salvaschermo, una foto di Amie, seminuda, appoggiata ad una balconata in stile marocchino a Marrakech. La nostra ultima vacanza assieme. DC++ lavora incessantemente, seminascosto. Oasis, Strokes, G. Love & Special Sauce, e centinaia di titoli ambient house, lounge, funky e nu-jazz misto fusion si stanno automaticamente impilando nel mio hard-disk, al quale sono collegate otto estensioni di memoria, per un totale di 400 Gb interi di musica. Non ho mai abbastanza tempo per ascoltare tutta la musica che scarico. In fondo al loft, spettrale, una piccola sala pesi, dotata di quattro macchine, un castello e una panca regolabile, giace silenziosa. A completare la scena tre quadri dai colori accesi, appesi storti e comperati a Belgrado, un mucchio di libri sparsi sul pavimento, specchi, e due lampade al neon dotate di diffusore variabile grosse come campane. Poster: The Snatch, The Italian Job, Iggy Pop in concerto, io che poso per Etro, Bret Easton Ellis che scruta la sala pesi. Mi avvicino alle casse, le accendo e producono un ronzio sordo. Faccio clic due volte col mouse. Partono le prime note di Such Great Heights dei The Postal Service, remixati da John Tejada. Dalle casse esplodono i bassi. Vado al tavolo e raccolgo un pacchetto di sigarette Lucky Strike abbandonato da chissà chi. Lo apro, getto a terra l'incarto, e me ne accendo una, inspirando ed espirando lentamente. Poi mi volto e non posso fare a meno di osservare la mia figura nello specchio. 1,87 per 26 anni. Capelli biondi confusi e sparsi. Occhi verdi, zigomi e mento pronunciati, labbra carnose. Un fisico scultoreo. Indosso un paio di jeans Lee comperati a Londra, in Carnaby Street, che mi ritagliano la forma delle gambe alla perfezione. Non si vede niente uscire dal bordo dei pantaloni. Faccio guizzare i bicipiti mentre mi osservo e contraggo gli addominali. Poi ispeziono dorsali e, di profilo, il gonfiore dei pettorali. Tutto a posto, mi rassicuro. Poi sempre fumando con calma, cercando di visualizzare il mare profondo, ridiscendo le scale bianche e m'infilo in cucina. Tre metri quadrati di cui la metà occupati da un frigorifero spaventosamente grande e spaventosamente vuoto con lo sportello trasparente in vetro. Al suo interno: yogurt, kiwi, manghi, martini, olive, latte, thè freddo, tre redbull, tonno, bresaola e un cesto di insalata. Da un piccolo tavolino raccolgo una bottiglia di pompelmo rosa e me la scolo così, in piedi, alternandola a qualche tiro di sigaretta. Dovevo smettere, ma qualcosa mi diceva che ancora non ero pronto. Troppo stress e troppa fatica mi riducevano le idee. Leggevo sempre meno ed andavo a sempre più feste. Conoscevo sempre più gente e ne dimenticavo il doppio tre minuti dopo. Mi drogavo, a volte. Mi facevo delle modelle. Ma ero ogni giorno più triste. Non sentivo Amie da tre mesi, mi mancava, ma mi mancava anche l'umiltà di chiamarla, di farmi sentire. Avrei voluto sentire la sua voce, raccontarle di ciò che facevo, toccarle la mano, accarezzarla, baciarla, dormire con lei, ma non era importante ora. Il mio lavoro mi obbligava a mantenermi sempre in forma. Torace e gambe scolpite. Braccia definite e spalle toniche. Qualcosa si mette a squillare. Mi guardo attorno, occhi vitrei, sconvolto, una mano tra i capelli. Apro il frigorifero, ispeziono non so neanche cosa, e lo richiudo. Poi infilo una mano in tasca e ne estraggo un Motorola rigato su ambo i lati.
"Pronto?".
"Pronto, Jack?".
"Sì, sono io".
"Sono Marcell Burden. Il fotografo londinese di IoDonna. Ti abbiamo trovato la compagna per il servizio fotografico. Si chiama Alice, e ha già lavorato per un sacco di griffe come indossatrice per le sfilate", dice una voce. "È O.K.".
"Ottimo", dico, ma non sono convinto.
"Perfetto, volevo solo dirtelo".
"O.K. Martin".
"Ehm, Jack, mi chiamo Marcell, Marcell Burden", dice.
"Ah già, certo, Marcell. Va bene allora".
"O.K. Ciao Jack, non importa, ci vediamo al servizio. Anyway, fatti trovare già in ordine per favore, non ti stressare la sera prima. Niente droghe".
"Certo Marcell, me la caverò".
"Perfetto man, ciao", mi saluta.
"Goodbye ya", rispondo.
Blip. Richiudo lo sportello del Motorola, sorseggio il pompelmo rosa, guardo per terra all'incrocio delle piastrelle, rifletto su qualche cosa, e poi spengo il mozzicone della sigaretta nel succo di pompelmo. Poi butto tutto, bicchiere compreso, in un cestino lì vicino. Arranco di nuovo sopra, confondendo discesa con salita. La playlist nel frattempo è progredita. Ora vanno i Huey Lewis and the News. Mi dirigo verso gli attrezzi della sala pesi e lì faccio tre serie di sollevamenti per i bicipiti con manubri da 14 chili. Poi li contraggo davanti allo specchio, soddisfatto e sorridente. Ho i denti bianchissimi e sembro proprio in forma.
Gi occhi mi cadono su una foto appesa con una puntina a forma di bandiera sulla parete bianca di fronte a me, poco sopra lo specchio. Ci siamo io e Amie, abbronzati e abbracciati, io che le sfioro una guancia con le labbra. Sullo sfondo, il mare delle Hawaii. Mi tornano di nuovo in testa tristezza, sconforto, e il desiderio di chiamarla. Mi contraggo di nuovo e mi lancio sul divano, poi mi rendo conto di qualcosa, mi alzo, torno di sotto correndo, recupero il cordless da dove lo avevo lasciato e risalgo, rigettandomi sul divano. Compongo nove numeri e aspetto a comporre il decimo finché non perdo la chiamata. Riaggancio e sospiro. Rifaccio il tutto per quattro volte. Sono cinque mesi che vado avanti così. Amie mi manca, molto più della pasta per capelli che ho finito o del barattolo di proteine MusclePlus vuoto e desolato che occupa capovolto una piastrella del pavimento. Mi tornano in mente le parole di Frank, il mio ex-manager che ho licenziato una ventina di minuti fa: la tua immagine sta rotolando sempre più in basso. In effetti, penso, è da tanto che non faccio un servizio fotografico decente, solo piccole parti su piccole foto su piccoli giornali. Amie rimane un enigma e un chiodo fisso, compresso dentro di me. E una bellissima donna. Dalle casse fuoriesce prepotente il sound di Human, dei Carpark North. La tua immagine sta rotolando sempre più in basso. Da quando io e Amie abbiamo smesso di parlarci tutto sembra andare storto. Tutto sembra prendere una piega diversa. Forse dovrei reinventarmi, è così che dicono i manager. Un nuovo look, una dichiarazione, vestiti diversi, cambiare taglio di capelli. O forse dovrei solamente trovare il modo di chiamare Amie e di chiederle scusa, di confessarle tutti i miei errori e di chiederle una seconda possibilità. Ma sarebbe un gesto troppo non abitudinario. Mi alzo di scatto, vado al tavolo ed estraggo un'altra Lucky Strike. La accendo, tra i dubbi, espirando subito fuori il fumo. Sconforto. Il loft sembra stringersi attorno alla mia figura, magra e bella. Inutile e vuota, l'aria che sa di vernice. O di fumo. O di tutti e due. O forse sono soltanto i pesi appoggiati, o la mia immaginazione, o il mio sudore. Mi sento solo, imprigionato nei miei sensi di colpa e frustato dai rimorsi. Un ghigno sottile mi deforma il volto mentre penso: se scendi ancora un po' non risalirai mai più. Al diavolo Frank. Al diavolo tutto, al diavolo anche Amie. No, Amie no.
"Forse è vero", urlo rivolto ad una modella che vedo su una rivista appoggiata lì vicino. "Forse è tutto vero".
Sembra non ascoltarmi, e non smette di sorridere.
Forse sto scomparendo, risucchiato dal mio loft. Forse finirò la mia vita a guardare da quelle finestre il mondo che si agita. Ad aspettare un attacco alieno. Un meteorite. Ad aspettare di trovare il giusto stato d'animo per comporre la decima cifra. Stai calmo, visualizza il mare profondo. Stai per entrare in un nuovo programma, sei l'ospite d'onore, tutti ti guardano, ti ammiccano, tentano di sedurti, ti pettinano, ti adulano. E tu sei lì che ti guardi e pensi: sono bellissimo. E poi guardi loro e pensi: beh che idioti. E poi ti accorgi che l'idiota sei tu, e tutti si mettono a ridere, puntandoti contro l'indice della mano. Michael Tolcher, Sooner or Later evapora dinamico dallo stereo. Forse è tutto vero. Fumo e spengo la sigaretta contro la copertina di un'altra rivista. Acceco una modella. "Sembri meglio così", penso d'istinto. È una mia collega.
Poi ancora una volta mi tornano in mente le parole di Frank, mi torna in mente il sorriso di Amie e l'odore del suo profumo. Mi torna in mente la mia voglia di lei e riprendo il cordless in mano. Compongo. Una, due, tre, nove cifre. Poi, esito. Incerto, ancora dubbioso. Infine premo lo 0. Dieci cifre. Sento squillare. Tre, quattro, cinque volte.
Poi, una voce femminile.
"Pronto?".
Pausa.
"Pronto", dico, ma la mia voce trema, le mie mani tremano.
Sto sudando e sono a torso nudo. I raggi del sole penetrano dalle finestre del loft e mi accarezzano i jeans con un unico grosso fascio dorato in movimento, luccicando contro il metallo freddo dei bilancieri. Indosso gli occhiali che ci sono sul tavolino di vetro, una telecamera si avvicina, scivolando su un binario. Sembra tutto così desolato. Chino la testa, osservo lo spazio tra i miei piedi, mi passo una mano tra i capelli, ascolto D. Lewis, poi singhiozzo.
"Sono io", deglutisco.
"Jack?!".
"Sì", piango.
Era tutto così semplice. Respiro, spengo la Lucky Strike.
Visualizzo il mare profondo.
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