Sul muro c'era scritto
di Alessia Marta Manera
Primo premio e Premio speciale ANPI Barona Milano
Sul muro c'era scritto: "Viva la guerra".
Le ultime lettere sono colate lievemente, la goccia rossa sembra una lacrima di sangue.
Rebecca si ferma qualche secondo ad osservarle. Ogni tanto passa una macchina, ed i guidatori scuotono la testa osservando quella ragazza, ferma davanti ad una scritta; figura silenziosa ed immobile.
Il sole che sta calando dona ancora più intensità al rosso fuoco delle lettere.
Lei sta lì, in piedi, semplicemente. Lo sguardo perso nel muro davanti a sé.
Pensa.
Molti anni prima. Una delle vie dimenticate nel centro della città. Due bambini giocano alla guerra con dei vecchi fucili a piombini.
-Pum! Pum! Ti sparo e tu cadi a terra. Sei morto! Brutto ebreo, sei morto!-
-Ehi, ma perché devo sempre fare io l'ebreo?- il labbro un poco imbronciato, le mani sui fianchi
-Voglio essere anch'io il soldato forte! Io sono un fascista, io! A scuola mi hanno dato anche la divisa del balilla!-
-Sì, ma io sono più grande. Per cui comando io. L'ha detto anche il Duce che bisogna ubbidire. E tu che vuoi, vuoi andare contro quello che dice il Duce?-
-No però...- poi gli ritorna il sorriso -viva l'Italia! Viva il fascismo!-
È tornato il gioco. Il bimbo alza il fucile e fa il saluto romano. Si sente importante. Forte.
Sì, lui è fascista. Un piccolo fascista. Non come il papà di Antonio. Il papà di Antonio se n'è andato in montagna, a combattere con i partigiani, gli uomini cattivi. Quelli che vogliono fare male al Duce.
Qualcuno dice che l'abbiano portato in prigione, il papà di Antonio. A lui un po' dispiace. Gli regalava sempre le caramelle o i dolci. Però era un comunista. E adesso c'è la guerra.
Tiene il braccio alzato.
Viva la guerra!
Ma le parole sono coperte da un urlo agghiacciante: quello della sirena. Bombardano.
Qualche minuto dopo nella strada non rimangono che macerie. E due piccoli corpi abbandonati sotto di esse.
Chilometri più lontani. Decenni dopo. Le montagne Serbe conoscono ormai alla perfezione il sibilare delle bombe, dei missili. La devastazione che segue lo schianto. I profughi stipati in campi attrezzati malamente, troppo pochi il cibo ed i medicinali.
Carlo attraversa una Belgrado distrutta. Grigia e spenta. Chissà com'era prima della guerra?! Gli sarebbe piaciuto visitarla. Non così, non adesso, con le macerie ed il suo mitra puntato su civili. Già, perché il nemico lui non lo vede, non in quei volti, non in quegli sguardi impauriti, stanchi e fieri allo stesso tempo.
Carlo ricorda quel discorso alla televisione "Missione di pace..." Ancora una parola di cui non si capacita, che non riesce a raccordare con quelle immagini di città distrutte. E infatti poi, gli ordini erano stati diversi: essere parte di quella guerra. Senza se e senza ma. Senza ripensamenti. Una guerra netta, decisa, implacabile. La guerra che è bella anche se fa male, come diceva De Gregori.
Che fa male. Già, e gli effetti non sono tutti visibili.
Carlo pensa a quello che sente raschiare i suoi polmoni, come una scavatrice che strappi pezzi dei suoi bronchi; a quel veleno che percepisce nel suo sangue. Ripensa a quando è entrato nella nuvola di polvere subito dopo l'esplosione, semplicemente con una sciarpa intorno al volto, per proteggersi un po', per riuscire a respirare, mentre intorno a lui soldati americani indossavano scafandri e maschere antigas.
Viva la guerra!
E intanto minuscoli atomi di uranio corrodono il suo corpo.
Ancora più ad est, lungo i fiumi che cullarono la prima civiltà occidentale. Nell'angolo "buio del pianeta", come l'ha definito Bush Junior davanti al Congresso.
È notte. Mohammed corre fuori dalla città, lontano da Falluja. Hanno eluso il coprifuoco, neanche loro sanno come. Nessuna pattuglia della coalizione li ha incontrati. La città alle loro spalle è buia. Nessuna luce.
Il rumore di una macchina. Si buttano per terra, al lato della strada, tra gli sterpi in un fossato. Sarebbe difficile, impossibile giustificare una loro presenza. Una jeep piena di militari passa loro di fianco, non li notano.
Poi d'un tratto un bagliore. Come un immenso fuoco d'artificio sopra la città. Raggi bianchi sfrecciano nel nero di una notte senza luna. Mohammed guarda quello spettacolo strano.
Non conosce il fosforo bianco. Non sa che Selima, attardatasi per coprire la sua fuga, ne sarà investita in pieno. Non sa che il corpo della sua donna sarà totalmente disidratato e bruciato da quella luce bianca che ora invade il cielo.
Non lo sa, rimane semplicemente lì, fermo, a guardare le stelle impallidire di fronte a quel bagliore. Chiedendosi cosa sia, e non trovando, almeno per il momento, risposta.
Viva la guerra!
Rebecca è ancora lì. Continua a guardare quelle parole. Quanto è passato? Un'ora? Qualche secondo?
Improvvisamente il guizzo di un lampo nei suoi occhi. Apre lo zaino, Sicura la sua mano cerca il contatto con il metallo freddo della bomboletta.
Ora un piccolo sorriso, il colore spruzzato delinea lettere chiare, nitide, precise.
Rebecca osserva soddisfatta il suo lavoro. È stata veloce.
Si allontana. Dietro di lei il muro spezzato da un grido o un sussurro.
"viva la guerra!
Chi l'ha scritto è già caduto."
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