"Dopo molte estati" dall'omonimo romanzo di Aldous Huxley
Geremia Pordage era sgomento per quell'autorevole mistura di magnificenze tipiche del Nuovo Mondo: la villa di casa Stoyte altro non era che una grottesca e caotica unione di opere d'arte e lusso; per citarne alcuni, il Vermeer nell'ascensore di cristallo, i Giambologna nella sauna, e poi Rubens nell'autorimessa, riproduzioni di Piramidi a grandezza naturale, il gigantesco Greco nel salone, le acqueforti di Rembrandt lungo i corridoi, il ritratto di Winterhalter nella dispensa del maggiordomo... ma ciò che più impressionava Mr. Pordage era la completa insulsaggine di quel grasso milionario, responsabile e committente della trivialità con la quale era stata composta quella magnifica e folle dimora.
"Questo signor Huxley", pensai, "parla del Vermeer con una grazia così particolare, che mi ha fatto venire qui, ora". E difatti innanzi a me c'era un alto edificio, splendidamente fiammingo, con un grande cancello sul quale un cartello recitava: Free entrance children under six. Guardai l'orologio: 17.15. Avevo 45 minuti per immergermi nel Rijksmuseum e togliermi lo sfizio, correre a casa, cambiarmi ed essere a lavoro alle 18.00. In punto.
Varcai la soglia.
Il giardino che precedeva l'ingresso era spoglio, le siepi architettoniche erano biancastre di brina... tutto era così bianco, eppure non stava nevicando. Il cielo sembrava dovermi cadere sulla testa, niveo e denso com'era, e il vento cattivo, mordente, quasi sadico, infieriva a tagliarmi le mani già gonfie e rosse... eh sì: aver dimenticato i guanti, quel giorno, aveva reso i miei viaggi in bicicletta rocamboleschi, più che sconfortanti.
La tela, di dimensioni piuttosto piccole, sembrava catalizzare l'attenzione di tutti i presenti; quel sogno di vita quotidiana misteriosamente innalzata al vertice della perfezione matematica, mostrava una donna olandese in raso azzurro seduta ad un clavicembalo. "Seduta" - pensai - "proprio al centro di un'equazione, in un mondo dove la bellezza e la logica, la pittura e la geometria analitica erano diventate una cosa sola. Con quale intenzione? Per esprimere simbolicamente quali verità intorno alla natura delle cose?" "Ma forse" - mi risposi - "il senso era compreso proprio lì, tra le tinte non terrene di quelle carni: l'ocra verdastro e il carminio, ombrato di nero trasparente, le creme, i rosa caldi e gli azzurri e i verdi madreperla della nudità fiamminga".
Mi ritrovai per strada a slegare quella vecchia bicicletta di metallo che, per via del contropedale, apparentemente sembrava non avere freni; era più facile, nello stato in cui versavo, sfrecciare in bicicletta lungo le estese, infinite piste ciclabili ricoperte di brina, piuttosto che rinchiudermi in una di quelle bislunghe strutture moderne denominate tram.
Il contrasto tra la staticità del dipinto e la celerità con la quale scorrevano le immagini d'intorno mi portò ad avvertire inverosimili sentimenti d'alienazione e di straniamento.
No, decisamente mi sarebbe risultato difficile il solo pronunciare Ein zone, alstublieft.
Tutto era confuso e vorticava veloce davanti ai miei occhi: in mente, ancora vivido il ricordo dell'opera e dei personaggi del libro che mi avevano portata lì; c'era il signor Propter, dall'aria dimessa e umile, che parlava di filosofia con l'ingenuo Pete, quello che stentava a credere che la Spagna fosse caduta; non mancava Bimba, coi suoi gelati alla crema e i bikini bianchi che a malapena coprivano le sue provocanti e plastiche fattezze e con lei il dottor Obispo, quel giovane sadico che si divertiva a farsi beffe dell'arricchito Beppe Stoyte. Tutti loro, nessun escluso, camminavano lungo le sponde del largo canale che costeggiava Vondelpark e che rifletteva in tinte opaline la bruma serale.
"Ma come" dissi con falsa preoccupazione, "signor Stoyte, perché indossa quel leggero gessato in una giornata così fredda? La California è lontana e, con quella, anche il sole che rinvigorisce i limoni, le arance e le viti dei suoi possedimenti. Non vorrà mica buscarsi un raffreddore?" aggiunsi, con una deliziosa malignità.
"Dio è amore" rispose brusco lui "La morte non esiste" e sembrava ripeterlo a se stesso, perché dalla liscia trasparenza della sua calvizie, si leggeva distintamente quel sentimento d'orrore che lo avvelenava e quella disgraziata frase "Terribile cosa è cadere nelle mani del dio vivente", che lo martoriava a ogni istante, senza pietà.
Il dottor Obispo prese al volo l'occasione e gli sussurrò con aria complice: "Se state sempre con la paura di morire, morirete certamente. La paura è un veleno, e neppure tanto lento", per poi rivolgersi a me noncurante del pallore e dei tremiti facciali coi quali aveva lasciato il povero Beppe (o forse, pensai, maliziosamente appagato dal risultato che le sue parole, specialmente se pronunziavano l'improferibile parola morte, facevano su quel paffuto riccone).
"Carpe, signorina. Siamo venuti a cercare carpe."
"Sperimentare la longevità e, in un certo qual modo, l'immortalità, è sempre stata una prerogativa di moltissimi scienziati. Posso ora invece sostenere che, grazie all'aiuto del caro signor Pordage e a una accurata lettura dei diari Hauberk, sono giunto alla certa conclusione che la dieta di pesci come la carpa e il luccio contiene qualche sostanza che preserva i loro corpi dal decadimento che assale la maggior parte delle creature mentre sono ancora vive; tale sostanza è da rintracciare, per ragionevole congettura, nello stomaco, nel fegato e nelle budella. Da qui, la prescrizione quotidiana di ingerire 200g di viscere crude (si sa da mille casi che l'impiego del calore modifica profondamente la natura di molte sostanze). Mi segue, signorina?"
Asserii con un cenno del capo e quello, come se non si aspettasse altro, continuò col solito tono di enfasi sarcastica "Veda, il rallentamento del ritmo evolutivo evita l'intossicazione da stereoli, che è la causa della senilità e, conseguentemente, della morte. Un antropoide, quanto più invecchia tanto più diventa stupido... ma è logico, no? Niente intossicazione da stereoli, niente senilità... niente morte, salvo che per un infortunio".
Rimasi senza parole, con la bocca quasi aperta "È ...è" "...terribile? Geniale? Non importa, signorina. È un brevetto da dieci milioni di euro per il sottoscritto e un bell'esperimento per il signor Stoyte. D'altronde, ultimamente va di moda il sushi, no? E allora che si abitui anche a quel putrescente retrogusto di frullato di intestini crudi" concluse il dottor Obispo, automaticamente gettò la testa all'indietro e cominciò a ridere con quella sua tipica sghignazzata dal suono metallico, violento, esplosivo, seguita da uno scroscio via l'altro di ilarità crudele, sadica.
Cristo. Tutto ciò era surreale.
Ero a casa, notte, al caldo. Mi sentivo sospesa eppure particolarmente riflessiva: osservai dall'enorme finestra (era lunga tutta la parete!) il panorama sottostante; aprii bene gli occhi, con l'aria di chi osserva e pensa, ma riuscivo soltanto a perdermi in quel cinema all'aria aperta al quale, anche dopo mesi di innamorata osservazione, non c'era verso di abituarsi.
La strada era ricoperta di ciottoli perfettamente levigati dalle piogge frequenti e assumeva una forma innaturale per via delle pendenze degli stretti ponti che collegavano il lato destro e sinistro della via, altrimenti separati dal canale. Le luci dei bassi lampioni in ferro battuto donavano un'atmosfera quasi noir, eppure l'illuminazione ad intermittenza garantiva alle ombre dei junkies per strada una certa aria d'accoglienza più che d'abbandono e di solitudine.
Avevo imparato come dormono le papere, in una dimensione nella quale le papere non vanno da nessuna altra parte d'inverno, ma continuano a convivere più o meno pacificamente con gabbiani e cigni. Eccole lì, lungo la riva, adagiate in fila indiana come tante bambole dalla testa mozzata.
Nietzsche diceva che il gregge di pecore non ha memoria: saltella, bruca l'erba, torna a ruminare e poi a saltare; Gozzano d'altro canto esprimeva una tesi simile proprio per le papere che, pensavo, volano e mangiano e per le quali ogni giorno è uguale e diverso da quello prima, ma sempre nuovo.
Similmente, la vita di una carpa sarebbe potuta durare cento, duecento, forse mille anni; quale peso sul dorso viscido e opaco? Né memorie, né lutti, né gioie.
Guardai le mie mani, le dita e il fitto reticolo di capillari: a ogni battito del cuore la linfa vitale si spandeva nel mio corpo. Per la prima volta nella mia vita, prima di dormire, il mio ultimo pensiero non era più: "Vorrei dormire, dormire, dormire... forse per sempre". Ora tutto voleva vita, chiedeva, implorava, imponeva VIVERE. Ogni sera mi affascinava pensare al giorno seguente, provando a programmarne la maggior parte e renderlo il più produttivo possibile; eppure, mi dissi, per quanto ogni giorno aprire i polmoni e poter respirare, sorridere o piangere, fosse qualcosa di magico e irrinunciabile, per necessità la vita umana doveva essere mortale. Come, altrimenti, sopportare il peso della vita e i suoi ricordi per anni, forse secoli?
Spensi la luce e posai il libro sull'altro lato del letto; sussurrai, a mezza voce, nell'ombra solitaria della notte: "Signor Stoyte, viva bene, sia felice; è la migliore prescrizione di longevità".
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