Lo scopo nella vita
Leggere occupa, nella maggior parte dei casi, un posto molto piccolo, se non addirittura assente nella giornata di noi ragazzi. Eppure penso che solo per mezzo della lettura si può veramente scoprire se stessi e ciò che c'è dentro di noi: con l'immaginazione si riesce a rivivere, e magari condividere, i sentimenti e gli stati d'animo che ogni scrittore cerca di trasmettere. Solo attraverso la lettura dei romanzi si può conoscere e apprendere l' "arte dello scrivere".
Il Deserto dei Tartari ovvero l'illusione di raggiungere uno scopo nella vita. Questo è il filo conduttore del componimento narrativo, che si potrebbe riassumere in poche righe: Giovanni Drogo, un giovane tenente viene assegnato alla Fortezza Bastiani, una costruzione isolata dalla civiltà. Egli rifiuta qualsiasi possibilità di lasciare quel posto isolato, utilizzando il certificato che gli avrebbe rilasciato volentieri il medico, e non ascolta gli avvertimenti del sarto della caserma e del compagno d'armi che viene trasferito in città. Qui passa così gli anni, presidiando muri che non conoscono altri nemici all'infuori delle muffe giallastre, vivendo alla ricerca di uno scopo, di un qualcosa che faccia diventare lui, Drogo, o i compagni Augusta e Ortis, uomini che abbiano raggiunto il loro scopo di servire a qualcosa. Ecco allora che il protagonista trascorre anni ed anni ad osservare minuziosamente il triangolo di inerme deserto, che si estende a nord della fortezza. E quando finalmente, con la primavera, appaiono schiere di leggendari Tartari, allora per Drogo è finita. Dopo aver buttato via l'unica cosa che possedeva: la vita, ora egli è solo un ridicolo vecchietto asciugato dal tempo che non conta più niente. È meglio per lui morire in esilio in solitudine.
In questa scarna trama si muovono personaggi fondamentalmente amici o nemici, che subiscono una maturazione nel corso del racconto. Tutti sono segnati dal tempo, passano dal vigore e dalle speranze giovanili alla solitudine della malattia e alla rassegnazione della vecchiaia. Solo Drogo si stacca dai suoi compagni: la sua anima sembra, a differenza del corpo, non subire alcuna influenza del tempo, rimane in lui quel sorriso speranzoso che conserverà fino alla battaglia finale contro la morte. Tra i compagni invece regna una certa avidità, che li porta a considerare l'uomo solo in base agli aiuti che può fornire.
È molto interessante notare come Buzzati sottolinei quello che è l'alternarsi delle generazioni. Così come il tenente Drogo cammina insieme al maggiore Ortis, quasi spaventato dall'immensità della vallata e del silenzio, dopo una decina d'anni è il tenente Moro a trovarsi spaesato in quella che è la valle della triste Fortezza non della fortezza dei suoi sogni. E come un uomo prima di morire guarda con compassione il Drogo neonato, sapendo che anche lui non avrebbe fatto in tempo, così Drogo prima di morire spende una lacrima anche per quel candido neonato, convinto che la sua vita non sarebbe stata migliore.
Per Drogo, non sono poi così noiosi i giorni passati alla Fortezza, per lui è diventato abituale lo scorrazzare a cavallo nella spianata, le scappatelle ai paesi "vicini", i compagni e soprattutto dal primo giorno il Deserto gli ha strappato ogni facoltà di cambiare idea. Drogo è stato ipnotizzato dalla sua ansiosa voglia di conoscere, come se fosse certo che schiere di leggendari Tartari dovessero apparire da un momento all'altro. Non è l'unica speranza che i muri giallastri promettono, è una convinzione, a volte irrazionale, radicata in tutti gli abitanti della fortezza. Più volte Drogo è tornato in città, anche con la voglia di farla finita e di essere trasferito, e più volte Drogo si è accorto di non appartenere più a quel mondo dove vince solo chi sa sorpassare gli altri.
È una critica palese dell'autore all'avidità umana, che traspare nella personalità dei compagni e che si riscontra in particolare quando per essere trasferiti tutti rinnegano l'amico pur di superarlo.
Questo romanzo, scritto alla vigilia della seconda Guerra Mondiale, non può omettere questo tema, che si rivela infatti al centro della vita del protagonista. Sono convinta circa l'inutilità della guerra: certo non si può dire che essa non sia il mezzo più efficace, ma sicuramente più terribile, perché un popolo possa far sentire i propri ideali e possa essere libero dagli oppressori, ma anche perché i potenti sottomettano i più deboli. Bisogna imparare a vedere dietro a qualsiasi nostro avversario una persona che è capace di provare dei sentimenti e non un animale o una semplice cosa priva di vita. È criticato il fanatismo militare del Tronk, che insegna ad uccidere i compagni; soprattutto amici, se questi non rispettano la formalità della parola d'ordine. La sentinella non è un uomo, ma un automa, programmato per premere il grilletto al terzo "Chi va là?" se non sente la parola d'ordine. Il fascino per il rigore e per la vita militare sono evidenziati nei rigori e nei formalismi propri delle regole della Fortezza. Questo è il fanatismo in campo militare e Buzzati lo stacca nettamente da quello che è invece il desiderio guerriero di difendere la propria patria. Vuole essere quasi un appello a tutti coloro che avrebbero compiuto immani stragi: "Siate uomini innanzi tutto". La ricerca della vittoria contro il nemico tanto atteso rende gli ufficiali e i soldati della guarnigione, ma soprattutto il protagonista, prigionieri della propria illusione; pervasi dall'incubo del nulla.
Ma dalla storia di Drogo appaiono più evidenti temi come la vita e la morte. Il tempo è l'antagonista di Drogo nella vicende: egli si illude di avere tanto tempo, di saperlo fermare e di poterlo far scorrere lentamente, ma ecco finita la giovinezza, il tempo non ha più pietà e Drogo arriva così velocemente alla vigilia della morte, dopo una vita di attesa insaziabile alla ricerca del nemico, della battaglia e della gloria, sperando, con impazienza che arrivino i reparti leggendari che darebbero un senso alla sua esistenza. Ed ecco in un momento comprende tutto, in un sorriso si riaccende la speranza giovanile, il combattimento finale deve ancora venire: l'ultimo nemico è la morte, in una battaglia dura, impossibile da vincere, ma che ci permette di diventare eroi, come lo speravamo da giovani. Così Drogo non rimpiange più coloro che pensano di trovare la gloria personale in una comune battaglia, scappando al famigerato nemico che ora in una sperduta località colpisce ancora.
Più che una storia avventurosa di leggendari Tartari e coraggiosi eroi, questo libro mi è sembrato un modo per riflettere su un concetto fondamentale per me: la vita. Bellissime sono le descrizioni di Buzzati, che fanno diventare incantata anche la Fortezza circondata dal fascino del panorama; ma colpisce anche il modo in cui l'autore tratta il concetto di tempo e della morte. Sono riflessioni attuali che possono aiutare a far tesoro delle bellezze della giovinezza, senza aspettare con impazienza che il tempo passi e tutto sia finito.
Sicuramente questo romanzo assume costantemente un carattere simbolico: in esso ritroviamo quella fusione della realtà con l'allegoria, dell'incubo con la vita, che l'autore ha in comune con Kafka e con Poe: Giovanni Drogo è il simbolo dell'esistenza dell'essere umano. Un po' come l'uomo di Leopardi che giovane, si illude e crede nelle più strane avventure, vecchio, si rassegna e rinuncia, stanco, alle sue aspirazioni. Sicuramente ciò che più contribuisce a fondere il reale con l'allegorico è il paesaggio: al limite del sogno, senza confini di tempo e di luogo, lucido e irreale.
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