Premio letterario SofiaPremio letterario SofiaPremio letterario Sofia
11ª edizione - (2008)

Lettera a Franz Liberamente ispirata a "Lettera al padre" di Franz Kafka
di Arianna Recalcati
Menzione d'onore

Caro Franz,
 Tess giace scomposta sull'edizione di Lettera al padre scritta da te. Piccola bambola fatta a pezzi: il suo aspetto forse è un segno indicativo. Una palpebra è chiusa, l'altro occhio vitreo e statico mi osserva con fare inquietante. Prendo in mano un braccio e poi lo riappoggio riluttante. Avrò avuto forse nove anni quando mia nonna (suocera di mio padre) consegnò la piccola Tess nelle mie mani. Era alta, bionda e slanciata, perfetta. Indossava un completino rosa e aveva uno splendido paio di pattini verdi. Sì, Tess era una bambola che pattinava. Finché un giorno il suo meccanismo si ruppe e lei non pattinò più. Per me rimaneva perfetta, bellissima, sublime, avrebbe potuto fare qualsiasi altra cosa. Mio padre si offrì di ripararla e io gliela consegnai fiduciosa. Lui sistemava tutto, metteva a posto ogni cosa. Ma questa volta, dopo averla smontata, sentenziò che il meccanismo faceva schifo ed era irreparabile. Inutile ormai anche ricomporla:“Cosa te ne fai? Non funziona, buttala via”. Non ebbi il coraggio di obiettare e di nascosto raccolsi i suoi pezzi mai ricomposti. Distrutta. Solo perché non funzionava. Sposto il busto graffiato dai segni del cacciavite e apro il tuo libro.
 Mio caro papà, non è molto che mi hai chiesto perché asserisco di aver paura di te. Come al solito non ho saputo rispondere, un po' per la paura che tu m'incuti, un po' perché, per motivare questa paura, occorrono troppi particolari che non saprei cucire in un discorso. No, Franz. Sebbene condivida il tuo timore non userò la parola paura per parlare di mio padre. Paura è un termine che conduce all'annientamento e io mi rifiuto di soccombere definitivamente al suono di questa parola.    Non ho il coraggio di giudicare ma nemmeno di ascoltare la durezza della sentenza che mi colloca tra gli sconfitti per sempre.
 Ti sembrava che le cose stessero all'incirca così: tu hai lavorato duramente tutta la vita sacrificando tutto per i tuoi figli, per me in particolare; insomma, io sarei vissuto senza pensieri, con la più ampia libertà di studiare quel che mi piaceva, senza alcun motivo di preoccupazioni materiali, vale a dire di preoccupazioni in genere. In cambio non hai preteso alcuna gratitudine, tu conosci [infatti] “la gratitudine dei figli” [e cioè che essa è come niente], ma almeno una certa compiacenza, un segno di simpatia; invece io mi sono sempre rifugiato nella mia stanza, tra i libri, con amici esaltati, in idee stravaganti, sfuggendoti; non ti ho parlato a cuore aperto, non ti ho accompagnato al tempio, [...] non mi sono mai occupato del negozio e dei tuoi affari...“
 Anche io, figlia ingrata, ho conosciuto il peso di un padre che ha saputo tirarsi su da solo sin dalla sua infanzia; sin da quando sua madre, povera contadina, si trovò un giorno ad aspettare un figlio e ne comprese il significato solo dopo che glielo ebbero spiegato. Sposò mio nonno, uomo frustato che conosceva pochi mezzi per comunicare (e quasi mai erano parole). Eppure mio padre aveva una forma di stima verso mio nonno e con una convinzione che mi lascia attonita ancor oggi dice: “Faceva bene, mia madre capisce solo le bastonate”. Mio padre fu uomo quando tutti erano ancora adolescenti. A sedici anni lavorava e portava a casa lo stipendio che veniva regolarmente scialacquato. Rimanevano pochi spiccioli per le scuole serali. Non rinunciò a studiare e si diplomò studiando di notte. Suo padre ebbe un infarto quando lui era ancora giovane. Una telefonata di suo fratello annunciava: “Vieni a casa, papà è morto”.
 Di fronte a tutto ciò diventa quasi doveroso il senso di colpa per non aver dovuto affrontare tutto questo. Anche io, Franz, mi chiudo in camera e mi lascio condurre da amici esaltati e da idee insane. Franz, per lui non sono altro che un'illusa. Un'illusa che ormai non rende più conto delle sue amicizie perché teme che a esse venga attribuita la colpa di ciò che è diventata, un'illusa che nasconde i libri che conducono fuori dalla realtà, fuori dal mondo. Eppure per me quelli sono proprio gli strumenti per comprenderla, la realtà. Non posso fare a meno di tutto ciò. Io e mio padre siamo diversi. A ogni modo eravamo cosi diversi e così pericolosi l'uno per l'altro in questa diversità […] tu hai influito su di me come dovevi influire; soltanto devi smettere di considerare come una particolare malvagità il fatto che sotto questo influsso io abbia finito per soccombere. Oh Franz, forse siamo stati troppo deboli, ma in questa nostra mancanza non c'era davvero segno di malvagità, non abbiamo colpa se siamo inetti al mestiere dello stare al mondo dalla parte di quelli che sembrano fare invece che da quella di coloro che subiscono.
 Ho sempre chinato la testa davanti all'impeto di un carattere forte.
 Ti vedevo e ti sentivo gridare, ingiuriare, smaniare nella nostra bottega, tanto quanto, secondo me, non poteva succedere in nessun altro posto al mondo. E non Ti udivo soltanto sbraitare, vedevo anche altre manifestazioni di tirannia. Quando per esempio buttavi dal banco, con uno spintone, merci che non volevi fossero scambiate con altre e il commesso doveva raccoglierle; o il Tuo abituale ritornello a proposito di un commesso, tubercolotico: “Ma non crepa una buona volta quel cane rognoso?” Franz, la bottega per la mia famiglia è sempre stata casa di mia nonna; piccolo tre locali di quelli che la Pirelli forniva ai suoi operai. Il paesaggio sembra quasi la trasposizione pasoliniana di un periferico paese del nord Milano. Mio padre, i suoi fratelli e sua sorella potrei indistintamente collocarli tra quei ragazzi di vita che facevano il bagno nel torrente, il Seveso al posto del Tevere. Non saprò mai come crebbero esattamente, ma io me li immagino cosi. I racconti sono diversi e frastagliati. So che mia nonna rimpiange i tempi in cui faceva la serva dalla marchesa. I primi due figli furono mandati in collegio a seguito di un ispezione sanitaria. Ho scoperto che mia zia alla mia età rimase incinta e poi se ne andò di casa. Mio zio, il secondogenito, prende la pensione di invalidità mentale. Eppure di tutti mi è sempre sembrato il più buono, un po' infantile, forse, con la sua convinzione di essere un bravo cantante e la sua chitarra. Finché un giorno mia nonna gliela spaccò sulla testa. Negli ultimi anni vive in un centro specializzato in Brianza. So che qualche settimana fa era ricoverato in psichiatria con dieci punti in testa. Il cinismo con cui mio padre ha raccontato il giro in reparto mi ha turbato; pareva raccontasse una barzelletta sui carabinieri. Il terzogenito, a parte qualche crisi depressiva, ha avuto una vita tranquilla. Ricordo solo un episodio che ha colpito la mia sensibilità da bambina. Eravamo riuniti per il pranzo di Pasqua. Sapevo che sarebbe finito in litigi, come tutti gli anni precedenti. Ma non avevo mai visto mio zio cosi, mio padre finì dentro la vetrinetta. Per molto tempo ho sussultato al rumore di un vetro infranto.
 Mia nonna, oramai non più autosufficiente, piange, urla e agita il bastone. Mio padre nei suoi confronti alterna momenti di compassione a momenti di intolleranza e di collera. A volte esclama: “È meglio che muoia lei, invece di far morire gli altri”. Sì, Franz; sono quasi le stesse parole che tuo padre riservava al commesso. Pochi giorni fa mia nonna mi ha detto: “Va' che me ricordi de ti  che'l ghai un padre un po' balengo”. Così ora rimane solo una persona della famiglia R. a cui dar conto: il primogenito, mio padre.
 Tu sei, in fondo, un uomo benigno e mansueto [...]. Tu un bambino lo sai trattare solo secondo il Tuo carattere, con forza, rumore, e scoppi d'ira.
 Mio padre non comprende perché spesso sono attratta da modi dolci e pacati. Forse perché mi pare ogni volta un miraggio poter discorrere con una persona senza la protezione di una porta o senza dover aumentare smaniosamente il volume della musica nel tentativo di coprire il suono delle urla. Eppure quella porta non è mai stata in grado di farmi sentire al sicuro; al contrario, ogni porta della casa che chiudevo alle mie spalle mi dava la sensazione di soffocamento, ero una preda che correva da sola verso la sua gabbia, nella speranza che perdendo la libertà avrebbe potuto salvarsi dai pericoli del mondo.  Ma lui scoraggiava ogni mio tentativo di uscire dalla gabbia.
 Avrei avuto bisogno di qualche incoraggiamento, di un po' di gentilezza, che mi aprisse un poco il cammino, invece Tu me lo nascondevi, sia pure con la buona intenzione di farmene imboccare un altro. Ma io per questo non ero adatto. Tu mi incoraggiavi ad esempio quando facevo il soldato e marciavo a tempo, ma io non era un futuro soldato [...] nulla di tutto questo apparteneva al mio futuro.
 Ricordo ancora quando, sin da piccola, mio padre mi elogiava per ogni capacità che acquistavo nell'ambito della tecnica. Se facevo una linea dritta, un quadrato, un cerchio diventavo perfetta ai suoi occhi; ma appena dipingevo con chiazze di colore accostate mostrava il suo disgusto. Quando con le mie piccole manine tenevo fermi i cavetti del tester per le misurazioni era orgoglioso di me, quando invece le infilavo tra i tasti di un pianoforte un po' meno. Lui amava la musica, ma non quella suonata da me. Da bambina ricordo che i genitori venivano ad assistere orgogliosi ai saggi dei figli, lui invece aveva sempre qualcosa da dire: “Inchinati, guarda in faccia la gente, stai dritta con la schiena” oppure “Hai cannato tutto” (anche se non avevo sbagliato nulla)  o semplicemente: “Com'è bravo quel ragazzo”. La stessa cosa avveniva quando recitavo dalle elementari (mi venivano assegnate sempre le parti principali) a quando avevo quattordici anni; si era formata una piccola compagnia, avevamo creato uno spettacolo sulle testimonianze di donne deportate nei campi di sterminio nazisti. Eravamo tutte orgogliose quando ci venne assegnato il primo premio del concorso: il viaggio a Mauthausen. Ma davanti a mio padre i complimenti del Sindaco, degli Assessori, e persino le parole commosse delle deportate passavano in secondo piano. Le sue di parole invece furono brevi e concise: “Un polpettone di cose, non si capiva nulla” e ancora. “La prossima volta fate qualcosa di più allegro”. Non voleva più parlare di quelle cose lì degli ebrei. Al ritorno del viaggio a Mauthausen tenni per me il silenzio di quei luoghi e il bombardamento di sensazioni, emozioni, riflessioni. Due anni più tardi le prove per lo spettacolo le facevo di nascosto. Cominciai così a nascondere molte delle mie idee insane, non ultima quella della scelta universitaria. “Lettere è la facoltà dei deficienti e dei disoccupati” e ancora: “Fare il liceo scientifico per fare tutt'altro significa essere dei falliti”. Per molte altre cose cominciavo pian piano a comprendere l'inutilità di cercare un dialogo con una persona che non provava a comprendermi.  Lui non capisce perché sono sempre disponibile. “Pensa per te” mi dice. Non comprende e non mostra alcuna forma di rispetto per la mia fede, per lui spreco tempo a giocare a fare la maestra facendo la catechista a un gruppo di piccoli ragazzi. Solo non capisce che più lui mostra odio verso il mondo più io lo amo, più soffro più imparo a guardare le sofferenze altrui. Inutile ogni tentativo di spiegarglielo. Bastava essere felici per qualche cosa, averne l'animo pieno, venire a casa e esprimerlo, e la risposta era un sospiro ironico, uno scrollare del capo, un tamburellare delle dita sul tavolo: “S'è già visto qualcosa di meglio” o anche: “Sono tutte qui le tue preoccupazioni?” o invece: “Che te ne fai?” Ogni mia conquista era futile perché così era ai suoi occhi. Ogni mio entusiasmo era dovuto ai venditori di illusioni che secondo lui mi circondavano. Tu avevi inoltre da obiettare sempre qualcosa apertamente o larvatamente, contro tutte le persone che io frequentavo. Franz, mio padre ha sempre avuto parole di disapprovazione per tutti coloro che amavo: che fossero amici, parenti, sacerdoti, suore e persino insegnanti. Anzi soprattutto insegnanti, quelli che mi avevano fatto amare la letteratura e la scrittura, quelli che mi avevano fatto amare la vita, quelli che sono stati in grado di farmi comprendere che anche io, come Tess, non ero riconducibile a un ingranaggio rotto nelle aspettative di mio padre. Franz! L'ho trovato finalmente il coraggio di guardarmi senza sentirmi una nullità. Afferro con tenacia la colla e rimetto insieme ogni pezzo. Tess piena di cicatrici, di graffi e di rattoppi è in piedi. In piedi sopra la lettera. Grazie.


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Ultimo aggiornamento: 16 gennaio 2010