Time
L’ultima volta che li hai visti, avevi nove anni. Te lo ricordi come se fosse ieri: il solito abbraccio, il solito bacio, il solito «fai la brava», il solito saluto da lontano mentre salivano sul solito vecchio furgoncino diretti verso solita vecchia città per fare un po’ di spesa; insomma, era tutto normale. Finché tu non hai passato l’intera notte ad aspettare, piangendo, in mezzo alle coperte del tuo letto. Il giorno dopo, ti sei lasciata il beneficio del dubbio: magari torneranno, ti dicevi; magari si sono solo persi, e adesso stanno facendo tutto quello che possono per tornare da me. Ma, ovviamente, i tuoi genitori non sono tornati.
Ci hai messo un po’, prima di accettarlo. Non che fossi stupida: l’hai capito sin da subito, ma eri solo una bambina che sentiva di avere bisogno di suo madre e suo padre. Poco alla volta, hai scoperto che non era così. Ti sei abituata subito alla vita in solitudine, anche grazie a tutto quello che ti avevano insegnato i tuoi cari genitori: ti avevano detto quali frutti ed erbe erano velenosi e quali no, come fare degli infusi, come preparare dei semplici pasti… però non potevi andare avanti solo mangiando quella roba; avevi bisogno di carne. E quindi hai rovistato nella libreria di tuo padre alla ricerca di un qualche libro sulla caccia, e quando l’hai trovato hai subito iniziato a leggerlo.
Il tuo rapporto con l’uccidere non è stato subito dei migliori: sul braccio sinistro hai ancora la cicatrice lasciata dal bossolo del primo proiettile che hai provato a sparare. Ovviamente, quella volta non avevi preso nulla; una settimana dopo, un coniglio (pura fortuna); un mese dopo, tre conigli; qualche mese dopo, tre conigli e un paio di fagiani. Andando avanti così, non hai mai avuto difficoltà a procurarti il cibo per riempirti lo stomaco. Nemmeno l’acqua era un problema: avevi imparato molto prima come distillare quella del ruscello dietro casa. E per quanto riguardava i passatempi, trascorrevi le tue giornate a far rimbalzare i sassi sulle acque del lago qualche metro più in basso. Ti piaceva farlo; ti piaceva davvero. Il punto è che, tre anni dopo, hai iniziato a stufarti. In fondo avevi dodici anni, e sentivi il bisogno di fare qualcosa di più… emozionante. Quindi, hai deciso di provare a ricreare le lunghe scalate di tuo padre. Lo accompagnavi sempre, quando lo faceva: mentre lui saliva, tu stavi giù a guardarlo, e quando arrivava in cima lo chiamavi e agitavi la mano per salutarlo. Lui lo faceva con così tanta tranquillità che non avresti mai pensato sarebbe stato così difficile: per molti giorni, non sei riuscita a salire più di un paio di metri. La prima volta che l’hai fatto sei caduta, e hai sbattuto la schiena. Tra le tue spalle c’è un’altra cicatrice, che ti ricorda di quel giorno. Adesso sai scalare senza problemi, e hai quasi perso soddisfazione nel farlo. Anche perché tu non hai nessuno a salutarti una volta arrivata in cima.
A tredici anni, avevi totale padronanza della caccia e della scalata. Eri sempre stata anche abbastanza brava a nuotare, e quindi una nuotata nel lago di tanto in tanto non te la toglieva nessuno. Chi avrebbe potuto, se eri da sola?
Sentivi di essere potente, la signora della montagna. Avevi il controllo su tutto, tranne che su una cosa: il tempo. Ti dava fastidio, vedere i segni del tempo che passava. Odiavi vedere le lancette degli orologi che avevi in casa e di quello al tuo polso andare avanti, odiavi tenere il conto dei giorni che passavano nella tua testa, odiavi guardare lo specchio per vederci ogni volta una te diversa, nuova, più cresciuta. Solo che, ogni giorno, ti sembravi anche sempre più sola. E così, a quattordici anni, hai preso la tua decisione: ti saresti imposta anche sul tempo, l’avresti fermato. Pensavi di esserci riuscita facilmente, rompendo tutti gli orologi e distruggendo ogni specchio; perdere l’abitudine di contare i giorni è stato più complicato, ma è bastato poco per riuscirci. Quando però ti sei recata al lago per la prima volta dopo aver attuato il tuo piano, ti sei accorta di una cosa banale, a cui non avevi pensato: l’acqua rifletteva la tua immagine. Il lago aveva sostituito gli specchi di cui ti eri sbarazzata, e sicuramente non potevi rompere un lago. Quindi, la soluzione possibile era solo una: non avvicinarti mai più all’acqua. Per dissetarti andavi al ruscello dietro casa tua; l’acqua in continuo movimento ti garantiva che il tuo riflesso sarebbe sempre stato deformato. Il lago però aveva ancora un effetto rilassante su di te, e quindi avevi optato per un compromesso: ci saresti andata ogni sera al tramonto, ma non ti saresti mai avvicinata troppo allo specchio. I tre passi erano la tua distanza di sicurezza.
Da allora, non sai quanto tempo sia passato. Sicuramente qualche anno, ma non troppi: ti senti ancora in perfetta forma, e sai di essere più forte di prima; inoltre, sulle tue mani non c’è nemmeno l’ombra di una ruga.
Ti senti serena: l’illusione di aver ingannato il tempo c’è ancora, ed è forte. A romperla, una nuova scoperta di fronte alla parete che sei solita scalare: un cadavere. Ti era capitato, ogni tanto, di vedere a distanza la forma di un qualche scalatore avventuroso, e in quei giorni non facevi altro che rimanere lontana, aspettando il giorno dopo per poterti arrampicare. Non ti saresti mai aspettata di vedere uno di loro da vicino, e soprattutto non da morto. Ti fa un effetto strano: puoi vedere chiaramente il suo volto contratto, la postura degli arti scomposta e innaturale, il cranio fracassato, il sangue… di sangue ce n’è, troppo. Sei abituata a vederne, data la tua capacità di ferirti in qualsiasi situazione, ma questo è eccessivo. Eppure, stranamente, non ti impressiona: ti senti solo… stupita. E curiosa. Quindi, dopo un’analisi di qualche minuto, ti limiti a scrollare le spalle per iniziare una delle tue solite scalate.
Riprendi a farlo ogni giorno, e non riesci mai a trattenerti dall’osservare il cadavere. Su di lui, i segni del tempo si vedono: la sua pelle è sempre più secca, sempre più sottile, sempre più fragile… la decomposizione si fa vedere, in lui. E ti disturba. Non è altro che un nuovo memento del tempo, al posto degli orologi e degli specchi. Decidi di sbarazzartene; il modo migliore per farlo è scavare una buca abbastanza profonda e buttarcelo dentro. Ci metti una giornata intera per scavarla – vicino al ruscello, dove la terra è più morbida – e ti ci vuole una nottata per portare lì il cadavere e ricoprirlo: il suo odore è disgustoso, e ti fermi più volte per liberarti le narici da quello schifo.
Quando hai terminato il tuo lavoro è già l’alba, e non appena torni a casa crolli sul letto, esausta: non ti ricordi di essere mai stata così stanca in vita tua.
Ti svegli, e decidi di andare subito al lago. Una volta raggiunto, però, trovi una sorpresa inaspettata e spiacevole: c’è qualcuno. Non sembra accorgersi subito di te, perché continua a rivolgerti le spalle. È una ragazza, non sai quanto giovane: le vedi solo la nuca. Sta seduta in riva al lago, fissando davanti a sé. Decidi di andartene, e quindi fai qualche passo indietro; il rumore della ghiaia deve essere abbastanza forte nel silenzio, perché lei si gira immediatamente per guardarti.
Ora puoi vedere il suo volto: è giovane, molto più giovane di qualunque altra persona tu abbia visto all’infuori di te. Non che fossero molte: tuo padre, tua madre e il morto. E, come due persone di questa breve lista, quando ti vede ti sorride. Ti tranquillizza, e quindi rimani qualche secondo a guardarla: ha gli occhi chiari, come te e tua madre, e i capelli scuri, come tuo padre. Ti inquieta, il fatto che guardandola ti tornino in mente i tuoi genitori: non ripensi alla loro assenza da molto tempo. E non appena lo fai, ti senti incredibilmente sola, come quando piangevi con la testa sotto il cuscino. Forse è per questo che decidi di rimanere.
Ti siedi sulla ghiaia, a qualche passo da lei, e quando lo fai lei si gira, volgendosi verso di te; sta ancora sorridendo. Ti saluta. Ti chiede come ti chiami. Ti parla. Tu, però, non te la senti: da quanto tempo è che non senti la tua voce? Quanto sarà cambiata da quando avevi dodici anni? L’idea di scoprirlo ti spaventa: potresti sentire il tempo su di te. Non esiti un attimo ad alzarti per correre a casa. Per la prima volta da tempo, passi la notte a piangere; ovviamente, lo fai in silenzio.
Quando ritorni al lago, la ragazza è ancora lì; questa volta, però, è già rivolta verso di te. Non appena ti siedi davanti a lei, parla di nuovo: non ti fa nessuna domanda. Ti dice che questo è un posto meraviglioso, che lei viene dalla città, che non è abituata a questi paesaggi. Ti dice anche come si chiama: Pandora. Ti piace il nome Pandora. Credi di averlo letto da qualche parte, in qualche vecchio libro… non riesci a ricordare.
Sembra entusiasta: ti parla della sua vita, della sua famiglia, del suo lavoro, della sua casa. Non le importa che tu non stia partecipando alla conversazione. Lei parla, racconta, ride quando riporta alla memoria qualche ricordo divertente, sospira quando il ricordo è spiacevole: inizia a piacerti, il suono della sua voce.
Tutto cambia quando ti chiede se tu hai qualcosa da raccontare. Non rispondi; non ce la puoi fare. E quindi ti alzi, andandotene di nuovo.
I tuoi incontri con Pandora al lago iniziano a diventare un’abitudine: ogni giorno vi trovate, vi sedete l’una di fianco all’altra e lei ti racconta qualcosa di nuovo. Ha sempre una storia diversa: questo anche perché ogni tanto si diverte a raccontarti una qualche favola che ha letto in un qualche libro. Alcune le conosci e altre no, ma non importa: ti piace ascoltarle tutte.
Piano piano, vi avvicinate sempre di più. Da tre metri di distanza arrivate a due metri, a un metro e mezzo, a un metro, a cinquanta centimetri: finite per sedervi l’una di fianco all’altra. Ogni tanto vi sdraiate vicine, così vicine che sei sicura ti basterebbe allungare un dito per toccarla. Ma non lo fai; non ne hai il coraggio. Hai paura che tu possa non riuscirci, scoprendo che Pandora non è altro che un’immagine della tua mente: dopotutto, qui da sola, come avresti fatto ad accorgerti di impazzire? Dopo qualche giorno, però, non ne hai più paura: le stringi la spalla per avvertirla della tua presenza, le dai un bacio sulla guancia prima di andartene… ormai ti lasci anche sfuggire qualche sorriso.
Un giorno in cui ti senti più stanca del solito, ti viene addirittura automatico sdraiarti con la testa appoggiata sulle sue gambe: ti senti incredibilmente sollevata quando lei non si ritrae. Rimanete insieme più del solito, e quando vi salutate è già notte. Ti dice che ha paura di guidare fino a casa al buio, e ti chiede se può rimanere a casa tua per una notte: annuisci con un sorriso.
Non ti saresti mai aspettata che svegliarti vedendo qualcuno con te sarebbe stato così bello: eppure lo è. Ti scappa sempre un sorriso quando Pandora si sveglia poco dopo. Ormai passare la notte da te è un abitudine: è arrivata al punto di tornare a casa sua solo per recuperare un po’ di vestiti puliti e lavorare. Non appena ha finito, di pomeriggio è già da te.
Il vostro affetto cresce in modo così continuo e graduale che non ti accorgi nemmeno di quando le dici il tuo nome, di quando ricominci a parlare, a ridere, di quando i baci sulle guance si spostano sulle labbra; adesso capisci che cosa intendevano i tuoi genitori quando si dicevano «ti amo».
Non c’è bisogno che parliate per decidere di iniziare a dormire nello stesso letto, ed è ancora più naturale passare molte delle vostre notti insieme senza dormire. L’unica cosa di cui avete bisogno di parlare è il tempo: a quanto pare, non l’hai ingannato. Lo vedi su Pandora, lo vedi nei cambi di stagioni, inizi a sentirlo persino nella tua voce: lei ti dice che devi affrontarlo, ma tu non ce la fai. Non ne hai il coraggio. Hai paura di specchiarti nelle acque del lago e di vedere una persona diversa da quella che conoscevi. Lei, però, ti rassicura a riguardo: ti dice che sei sempre la stessa, la stessa che ha incontrato e che all’inizio non se la sentiva a rivolgerle la parola. È la prima cosa su cui non le credi. Perché tu lo sai, lo senti che sei cambiata; è evidente anche se non puoi vederlo.
Tu non vuoi perdere, non vuoi darla vinta al tempo, non puoi: come potresti lasciare che ti abbatta ciò che ti ha portato via i genitori, che ha ucciso quell’uomo, che ne ha lasciato il corpo in pasto ai vermi, che prima o poi ti toglierà Pandora? Il pensiero ti butta nel panico. Sei già stata abbastanza sola; non ne hai più voglia. Quindi quando un giorno ti svegli e senti Pandora immobile e fredda tra le tue braccia, non puoi trattenerti dal piangere: com’è possibile? Com’è possibile che esista un qualcosa di così incontrollabile, così selvaggio, così spaventoso? E, soprattutto, come può questo qualcosa essere così tanto crudele? Non gli basta avere il potere? Non lo sai. Ci pensi migliaia e migliaia di volte, chiedendotelo in continuazione tra le lacrime, mentre stringi la persona che ti ha accompagnato per tutti questi anni (quanti sono stati?) e che ora non potrà più farlo. Non pensi alla fame, non pensi alla sete, non pensi al caldo, al freddo, non pensi a nulla: la tua unica domanda è un disperato «perché?». E quando ti senti stanca e capisci che manca poco perché anche tu diventi fredda sorridi, perché sei sicura che ora – almeno ora – una risposta arriverà.
La risposta, però, non arriva, e l’unica certezza che capisci di avere avuto nella tua vita ormai in procinto di finire è quella che hai sempre desiderato ignorare: il tempo vince su tutto.
Sempre.
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