Un'esperienza di lettura
“Inutile, non ce la faccio…” mugugnai fra me e me, rendendo in questo modo partecipe di parte dei miei pensieri l'unico essere vivente presente nella stanza, un criceto, che nel frattempo continuava a muoversi nella gabbietta alla ricerca di chissà che cosa fra le sue montagne di segatura, e ignorando bellamente la mia, chiaramente esagerata, disperazione.
Accompagnate da un piccolo tonfo, le mani andarono a chiudere quella momentanea dannazione, per poi appoggiarla ai piedi del letto, accanto alla sveglia che, con il laser, proiettava l'ora sul soffitto. Controllai: erano le dieci e un quarto. Tempo record, avevo aperto il libro alle dieci e tre, e mi erano bastati dodici minuti per sentire le palpebre pesanti e iniziare a confondere fra loro i caratteri delle parole. Era stato vano anche il tentativo di infilarmi sotto le coperte a leggere almeno un'ora prima del normale, visti i risultati dei tre tentativi di lettura precedenti. Per me poteva ormai essere ufficiale.
“Vogliamo renderlo ufficiale? Bene: questo libro, L'amore in sé, viene, in data odierna, proclamato essere uno dei più opprimenti libri letti dalla sottoscritta!” Continuai parlando da sola, battendomi una mano sul petto, che sì, non sarò mai stata un'accanita lettrice, ma nemmeno il contrario così da rendere la qualificazione appena conferita di basso rilievo, ecco. Rimuginando sulle ultime pagine scorse, giusto perché non mi veniva in mente nient'altro a cui pensare, mi girai sul fianco destro tirando le coperte su fino al naso, chiusi gli occhi e mi addormentai quasi istantaneamente.
L'esperimento di lettura numero cinque, partiva da pagina trentasei. Un rapido conto...et voilà: mi si presentava una media di nove pagine a tentativo, mica male, no? No, decisamente no, avete ragione. Soprattutto se si contano, come avevo fatto io, anche le prime nove facciate: bianche. Ma capitemi, iniziare un nuovo libro non l'ho mai trovato semplice. Ogni volta, e questa in particolare, chiaramente non faceva eccezione, mi ritrovavo a scorrere con gli occhi le righe delle pagine - sì, proprio scorrere con gli occhi, perché quelle volte ciò che facevo non era leggere, constatato che non mi rimaneva nulla in mente di ciò che avrei dovuto leggere - e a dover ricominciare daccapo. In questo modo i passi non finivano più e mi ritrovavo a sfogliare il libro per controllare quanto mancava alla fine del capitolo, sperando che si chiudesse presto, così da poterlo riporre con la soddisfazione di dire: ”Forza, che un altro è andato!”. Il bello, poi, era che il più delle volte nemmeno ci arrivavo, alla fine: finivo per accontentarmi di raggiungere l'ultima parola di un capoverso così da non tranciare il discorso proprio a metà.
Ma la speranza è l'ultima a morire, si dice, quindi ritorniamo al nostro quinto tentativo perso lungo il ragionamento di poco fa. Nessuno dei soliti amici si era dimostrato disponibile a uscire per questo o quell'altro impegno. Mio fratello, mia madre e mio padre, dal canto loro, monopolizzavano rispettivamente il computer, un televisore e l'altro televisore. Considerato ciò, con addosso una noia disperata, mi sono costretta a ritentare. Erano passati tre giorni dall'ultima volta che avevo provato a prendere in mano quel libro e al momento mi trovavo in salotto, rannicchiata su una poltrona, e, beate vacanze, era mattina. Io e il volto stampato in copertina ci siamo fissati in modo ostile per alcuni istanti prima di deciderci a iniziare, in realtà ero solo io a cercare di fulminare con lo sguardo perché la figura aveva gli occhi rivolti da un'altra parte, e anche volendo, dunque, non avrebbe potuto farlo. Con aria rassegnata, cercai la pagina contenente il biglietto del cinema, il mio personale segnalibro improvvisato. Avevo già abbandonato l'abitudine di utilizzare segnalibri degni di questo nome: li perdevo tutti. Trassi un sospiro profondo socchiudendo gli occhi, come se mi stessi preparando a tuffarmi in mare da una scogliera un po' troppo alta e non fossi del tutto certa di riemergere, e mi buttai nella lettura.
Tra uno sbuffo e l'altro, qualche riga poi è stato quasi come se l'avessi completamente saltata, conclusi il sesto capitolo. Toccava quindi al settimo. E una pagina dopo avevo finito anche con quello e potevo iniziare a dedicarmi all'ottavo. Il tempo della narrazione nel frattempo cambia: il professore universitario, protagonista, si era ritrovato per sbaglio a pronunciare il nome del suo primo amore ad alta voce. Il ricordo di lei, Bubi, il primo, grande amore, si fa vivido nella sua mente, seguito dai momenti della sua vita che l'hanno vista come principale punto di riferimento.
E se qualcuno se lo sta chiedendo, a ripensarci, è stato questo il punto in cui il libro ha iniziato a catturare la mia sincera e incondizionata attenzione. Per la mia mente continuavo a leggerlo semplicemente perché non mi piaceva lasciare il testo a metà. Invece stavo prendendoci gusto. E questo accade sempre quando meno te lo aspetti. La narrazione, da qui, iniziò a essere per me totalmente in discesa. E quando un libro ti prende, leggi una pagina dietro l'altra senza smettere. Ma prima o poi va pur fatto.
“Sì, mamma, ora ci vengo, a mangiare!” strillai da una stanza all'altra, gesticolando come se mi potesse vedere.
Arrivo al punto, poi smetto.
Arrivo al capoverso e vado.
Arrivo alla fine del capitolo e allora sì che, davvero...
“Ho detto che sto arrivando!” risposi di nuovo al secondo avvertimento. A quel punto sembrava impossibile poter prorogare oltre. Gettai una rapida occhiata al biglietto del cinema, poi un'altra al libro ancora nelle mie mani. Lasciai il segnalibro lì, sul cuscino e, sul mobiletto accanto la poltrona, vi posi il libro, aperto, con le pagine rivolte verso il basso. Non avrebbe dato fastidio a nessuno.
Una volta pranzato, uscii e rimasi fuori fino a sera.
Quando rientrai a casa non era tardi, soprattutto se si pensa che, in ogni modo, il mattino successivo avrei potuto dormire quanto volevo, beate vacanze, sì, di nuovo. Preso qualche minuto per sistemarmi, mi si ponevano due allettanti alternative, la cui possibilità di scelta serale si prospettava piuttosto rara: erano liberi sia il computer, sia la televisione. Mi lasciai sprofondare nella solita poltrona, facendo cadere a terra, nel frattempo, il mio segnalibro. Lo guardai per una manciata di secondi prima di chinarmi per raccoglierlo e allungare il braccio verso il libro lasciato in sospeso non molte ore prima.
Continuai a leggere a lungo, non ricordo esattamente quanto, ma quando smisi fu perché non potevo più continuare. No, non perché i miei insistessero per mandarmi a letto come per quando volevano farsi raggiungere a pranzo. Non perché non mi andasse più. Non perché fossi troppo stanca. E nemmeno perché dovessi fare altro. Accompagnato dal rumore di sottofondo della ruota del criceto che faceva esercizio per mantenersi in forma, il libro era semplicemente finito, lasciando dietro di sé quell'amarezza che rimane in bocca alla lettura delle ultime parole. Amarezza che si presenta in ogni caso, vuoi quando il libro ha la conclusione che hai desiderato dal principio, vuoi quando non è così, o ancora è lo stesso quando l'immaginazione del finale spetta tutta al lettore. Se il libro, di cento o settecento pagine che sia, è piaciuto, sarà sempre durato troppo poco e finito troppo presto.
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